AQUINO: LE FAVE DEI MORTI.
Il luogo dell’evento era all’altezza del civico 11 di via Giovenale dove ancora oggi c’è un grande cancello in ferro. E proprio l’apertura di quel cancello, al di là del quale si consumava la sua preparazione, segnava la fine di un attesa che per qualcuno si protraeva, ma dall’altra parte del cancello, da quando la prima luce del giorno non si era ancora sostituita alle ultime tenebre della notte, tanto l’evento era desiderato. Un evento che all’inizio, forse, doveva essere limitato ad un atto di generosità della famiglia Pelagalli a beneficio dei poveri del paese ma che poi, nei primi decenni del ’900, perse la connotazione originale e divenne una tradizione bella e buona con una sua precisa cadenza annuale il giorno dei defunti, il 2 novembre.
Si ha motivo di ritenere che possa essere stata questa la molto generica origine della distribuzione delle fave il mattino dei giorni dei morti, un tempo una delle più sentite usanze di Aquino, la quale, deve supporsi, doveva avere radici molto, molto antiche, se nessuno della famiglia Pelagalli, che pur annoverava tra i suoi esponenti anche di molto attenti alla storia del casato, è mai riuscito a venire a capo delle cause che motivarono quell’atto di generosità, ovvero non solo ad imbattersi in un’origine meno generica ma in qualcosa che potesse nel contempo beneficiare anche di un adeguato supporto storico.
Come si è accennato, l’evento consisteva nella distribuzione di fave cotte accompagnate da una fetta di pane rosso, ovvero di pane prodotto con l’utilizzo di farina di “rànninie”, cioè granturco o mais, che dir si voglia, e si svolgeva, come si è detto, presso il grande cancello attraverso il quale da via Giovenale si accedeva nel cortile interno del palazzo dei Pelagalli che era appunto il luogo deputato alla cottura delle fave ed alla preparazione dell’intero rito.
Fin dall’estate precedente i Pelagalli erano soliti “accantonare” per questa loro iniziativa almeno un paio di tomoli di fave ed altrettanti di granone, ovvero un quintale circa sia dell’una che dell’altra specie; l’organizzazione vera e propria, invece, si concentrava nei giorni immediatamente precedenti il 2 novembre.
Per prima cosa si poneva la massima cura nella selezione e nel lavaggio delle fave che, in quanto secche, venivano tenute in acqua anche per più giorni affinché si ammorbidissero il più possibile per agevolarne, quindi, la successiva cottura. Era poi la volta della preparazione del pane nella consueta forma di pagnotte non eccessivamente grandi, pane che veniva cotto, naturalmente “in loco”, con una serie di “fornate” effettuate nei tempi più prossimi all’evento affinché la genuina flagranza si conservasse al meglio sino al momento della sua consumazione.
Ma era la notte fra il primo ed il 2 novembre quella in cui quella in cui ogni cosa doveva essere messa a punto per essere infine pronti, se non alle prime luci del giorno, comunque appena dopo, al tanto atteso rito della distribuzione. Al centro della scena c’erano due o anche tre grosse caldaie di rame, i cosiddetti callaroni, alimentate da un fuoco di tutto rispetto che oltre a mantenere la temperatura dell’acqua in esse contenuta ad una gradazione massima e costante consentiva agli addetti ai lavori di poter beneficiare di un quanto mai necessario tepore visto che non solo si operava a cielo aperto ma che per di più era, appunto, anche notte.
La cottura andava avanti praticamente per ore. Poi, prima che essa fosse ultimata, le fave venivano aromatizzate con un soffritto di cipolle e beneficiavano quindi di una generosa annaffiatura di olio di oliva; contestualmente si provvedeva ad affettare le pagnotte di pane. Al di là di ciò, però, l’occasione era di quelle classiche in cui le circostanze alimentavano tra coloro i quali erano impegnati a prestare la loro manodopera reminescenze riferite al buon tempo andato. E, allora, le storie si susseguivano ad altre storie, tra un assaggio di fave (tanto per verificarne la cottura), un pezzo di pane rosso (tanto per verificarne l’abbinamento), ed un buon bicchiere di vino che, se almeno in quella circostanza con le fave non c’entrava niente, comunque non guasta mai.
E quando albeggiava era ormai tutto pronto. Non solo all’interno del cortile ma anche all’esterno, al di là del grande cancello, dove, intanto, si era andata vieppiù ingrossando la schiera di coloro che per nessuna cosa al mondo avrebbero mai rinunciato alla loro razione di fave e di pane rosso. Cosicché, una precedenza non rispettata costituiva, inevitabilmente, l’occasione per accese discussioni, non prive di coloriti annessi e connessi, le quali, se non altro, contribuivano in qualche misura a far lievitare la temperatura corporea che, data l’ora e la stagione ma soprattutto la precaria consistenza degli indumenti, per forza di cose era quella che era.
Poi, circa le sette, il via alla distribuzione con l’apertura del grande cancello. Era l’inizio della festa, di una festa che, in quei tempi, dire desiderata è dire poco: il consueto vociare che aveva sin lì accompagnato l’attesa acquisiva tonalità superiori mentre si cercava, intanto, di guadagnare posizioni; sul fronte opposto, invece, grande era la pazienza degli addetti ai lavori vuoi per cercare di soddisfare le inevitabili sollecitazioni per una più generosa elargizione di fave vuoi per placare i bollenti spiriti infiammati, quasi sempre, da una supposta violata priorità. Ma, tutto sommato, il tutto si svolgeva in assoluta compostezza anche perché, in fondo, il fine era comune: beneficiare di una buon porzione di fave e di una fetta di pane rosso. Di cui, peraltro, grazie a Dio, ce n’era a sufficienza.
Poiché i piatti di plastica non erano stati ancora inventati, né, in verità, se ne sentiva la mancanza, e l’utensileria domestica era quella che era, ognuno proponeva “scodelle” di ogni genere e di varia foggia se non, addirittura, “residuati bellici” adattati a contenitori e molte gavette; spesso si trattava di recipienti in grado di poter contenere molto di più di una razione normale ovvero, talvolta, per contenerne addirittura una quantità necessaria a soddisfare le esigenze dell’intero nucleo familiare cosicché, almeno per quel giorno, il problema del mezzogiorno lo si poteva considerare già bello e risolto.
Non pochi, tuttavia, erano coloro i quali la loro razione la consumavano seduta stante per poi rimettersi “in circolo” appena dopo. Anche più di una volta. Del resto, la fame, allora, era quella che era. Né faceva sconti.
«Quel giorno era atteso come la Befana, in particolare dai ragazzi», ricorda il prof. Gaetano Vincenzo Pelagalli. «Era una festa che si svolgeva in allegria e durava molte ore della mattinata poiché di fave ce ne erano per tutti» e «difficilmente chi le desiderava ne restava senza». Insomma, a ragione può dirsi che delle fave dei morti beneficiava se non tutta, sicuramente buona parte della popolazione di Aquino considerato anche che era consuetudine che la stessa famiglia Pelagalli provvedesse a mezzo di propri incaricati a farle recapitare direttamente presso le abitazioni delle famiglie “più in vista” del paese, anche di quelle con le quali poteva esserci un qualche “attrito”. Insomma, le fave erano al di sopra delle parti. E rendevano tutti uguali: ricchi e poveri; “padrune” e “parsenale”, le due classi sociali che allora andavano per la maggiore.
Difficile precisare, come si è detto, se l’iniziativa della famiglia Pelagalli, una delle più antiche di Aquino — un particolare importante della sua araldica, il gallo, è addirittura richiamato nello stemma comunale — risalisse ad un lascito, a un voto o a chissà cosa.
E’ certo, comunque, che si trattava di una tradizione molto sentita dagli Aquinati: quando, dopo la ripresa succeduta alla seconda guerra mondiale, ad essa si pose fine, la qualcosa avvenne agli inizi degli anni Sessanta del secolo scorso a seguito della scomparsa dell’ing. Francesco Pelagalli, che dell’iniziativa era stato fra i principali, ultimi animatori, il rimpianto fu molto, molto grande. Anche se, di lì a poco, altre delizie della vita conseguenti il cosiddetto miracolo economico cancellarono del tutto il ricordo delle fave dei morti e ne preclusero la conoscenza alle successive generazioni.
© Costantino Jadecola, 1997