DENTRO LA STORIA, CON DON MARTINO MATRONOLA
A Don Gregorio De Francesco
Il bombardamento dell’Abbazia di Montecassino del 15 febbraio 1944 è avvenimento sul quale, sin da quando la guerra era ancora «calda» e poi, ancora, in questi quaranta anni, si è molto detto e si è molto scritto soprattutto quanto alla «necessità» del bombardamento stesso. Com’è noto, gli alleati non trassero da esso lo sperato effetto, che era quello di aprirsi la strada per Roma attraverso la valle del Liri; consentirono, al contrario, ai tedeschi di poter beneficiare delle rovine dell’edificio, in felicissima posizione strategica.
Trentasette anni dopo la quarta distruzione subita dal Cenobio benedettino nell’arco della sua storia, una volta chetatesi le acque ed in un clima più sereno e disteso, si è fatta sentire «la voce di coloro che erano dentro il monastero, inermi spettatori di sconvolgenti e terrificanti azioni distruggitrici», quale testimonianza «imparziale dei fatti, fornita da persone che annotavano giorno per giorno ciò che vedevano e sentivano, tagliate fuori dal mondo». Ne è venuto fuori un libro: ‘Il bombardamento di Montecassino’.
Realizzato con il contributo del Banco di Santo Spirito e curato da don Faustino Avagliano, è stato edito dai Monaci di Montecassino per la collana «Miscellanea Cassinese», di cui porta il numero 41. In esso, oltre «il diario di guerra» di don Eusebio Grossetti, deceduto il 13 febbraio 1944, e di don Martino Matronola, «pubblicato per la prima volta nella sua interezza», viene «presentata una serie di documenti di eccezionale valore per la conoscenza esatta del periodo di guerra vissuto dai monaci rimasti a Montecassino sino al giorno dei bombardamenti».
Da questo libro trae spunto l’intervista a don Martino Matronola che, oltre ad essere stato coautore del «Diario» e, all’epoca del bombardamento, segretario dell’allora Abate don Gregorio Diamare, è stato, a sua volta, egli stesso Abate di Montecassino dal 24 maggio 1971 al 25 aprile dello scorso anno ed è tuttora Vescovo di quella Diocesi. L’intervista è stata rilasciata a Montecassino la sera dell’8 gennaio 1981 e viene pubblicata per la prima volta, nel quarantesimo anniversario della distruzione del Monastero.
D — Sebbene nel libro se ne parli — ne parla Don Faustino Avagliano nella presentazione e ne parla Ella stessa in una «nota-avvertenza» — come prima domanda vorrei chiederle come nacque quel «giornale» o «diario di guerra» che poi. trentasette anni più tardi, avrebbe costituito il filo conduttore de «il bombardamento di Montecassino», e se, quando, su suggerimento di Don Angelo Pantoni, Don Eusebio Grossetti incominciò a redigerlo — eravamo agli inizi di novembre del 1943 — in cuor vostro, a Montecassino, pensavate alla tragica fine che di lì a poco più di tre mesi avrebbe fatto la Casa di San Benedetto?
R — Prima dell’emergenza, si occupava del «diario» del Monastero Don Angelo Pantoni che vi annotava schematicamente gli avvenimenti più importanti. Quando questi, alla fine di ottobre, fu costretto ad andare a Roma, incaricò Don Eusebio di continuarlo. Poi Don Eusebio si ammalò e fui io che continuai a redigerlo. Se noi prevedevamo, al tempo dell’emergenza, quello che è poi successo? Ebbene, io direi di sì. Un giorno erano venuti qui, a parlare riservatamente con l’Abate, due ufficiali tedeschi. Questi, tra l’altro, dissero al Padre Abate che qui doveva finire la guerra perché loro avevano ricevuto ordine dalle Autorità superiori, ossia da Hitler, che qui ci doveva essere la difesa ad oltranza. E questo lo so con certezza perché, dopo uno di questi colloqui con gli ufficiali, entrando nel suo appartamento, il Padre Abate mi disse, piangendo: «qui sarà tutto distrutto!». Questo mi colpi molto. Nella mia mente si affacciò l’episodio di San Benedetto che, un giorno, un cittadino di Cassino, Teodrobo, venne a visitare e lo trovò che piangeva. «Perché piangi?», gli chiese. E San Benedetto rispose: «Perché questo luogo che ho costruito con tanto amore sarà distrutto. Però saranno salve le anime». E questo si è verificato in questa distruzione. Perché il Padre Abate mi disse: «qui sarà tutto distrutto!». Io gli dissi qualche parola d’incoraggiamento e che sarei stato con lui fino all’ultimo. E si è verificato che il bombardamento ha distrutto radicalmente il Monastero. Però, tutti salvi. Se Don Eusebio è morto, è morto per malattia infettiva contratta per assistere i rifugiati.
D — Com’è che si è deciso a pubblicare questo diario a 37 anni di distanza dagli avvenimenti in esso registrati e non prima, diciamo all’indomani dell’evento bellico quando esso avrebbe potuto costituire, tra le altre, innumerevoli pubblicazioni e tra i molti memoriali dei comandanti degli eserciti che qui combatterono il Vostro punto di vista, il punto di vista di Montecassino sullo scempio che si era fatto del Monastero?
R — Dopo la guerra, immediatamente dopo la guerra, nella mia permanenza a Roma, io ho sempre rifiutato di dare interviste. Anche quando sono stato molto premuto, non ho mai dato nessuna intervista. Però, quando è finita l’emergenza, allora io ho dato il mio diario che era stato ritrovato qui a Montecassino, almeno nella parte essenziale, a Don Tommaso Leccisotti. O, meglio, io ho fatto un riassunto che lui ha poi pubblicato nel suo libro ‘Montecassino’»; proprio la parte degli avvenimenti accaduti nel Monastero prima della distruzione. Quindi la presa di posizione di Montecassino era già ben chiara sin dalla prima edizione di questo libro. Io perché ho atteso sinora? Siccome una volta erano questioni mie, di sentimenti interni, ho cercato sempre di evitare di pubblicare integralmente il ‘diario’. Mi son deciso adesso, più avanti negli anni, perché il mondo conoscesse con esattezza quello che era accaduto dentro il Monastero. Perché noi, in quell’epoca lì; eravamo proprio isolati in terra di nessuno. Senza radio, senza nessuna comunicazione, senza niente.
D — Come e quali erano i rapporti tra voi, monaci ai Montecassino, e gli ufficiali tedeschi incaricati dell’evacuazione dei ‘tesori’ custoditi nell’Abbazia ed eravate certi che questi ‘tesori’ si sarebbero fermati a Roma o temevate, in cuor vostro, che sarebbero proseguiti per la Germania? Cioè, questi ufficiali tedeschi vi davano una qualche garanzia sul buon esito dell’evacuazione o no?
R — Per quanto riguarda tutti i ‘tesori’, e quelli nostri e quelli affidati dallo Stato all’Abate di Montecassino, posso dire che i tedeschi si presentarono a nome del Governo italiano e che l’Abate Diamare fu molto lungimirante perché, ad esempio, in una nostra riunione prima dell’evacuazione, egli si oppose a chi intendeva ‘dividere’ questo ‘tesoro’, affermando che, rimanendo tutto unito, sarebbe stato custodito con maggiore attenzione e ciò a tutto vantaggio della civiltà. Il problema più pesante per noi era però costituito dal fatto che il Governo Italiano ci aveva affidato dei tesori inestimabili, mai prevedendo che la difesa ad oltranza si sarebbe stabilita proprio a Cassino. Non denunciammo ai tedeschi la presenza di questi tesori, riuscendo ad occultarli con degli stratagemmi. E tutto andò per il meglio. Posso dire che durante l’evacuazione i tedeschi sono stati disciplinatissimi. Ricordo che quelli della Göring portavano queste grosse e pesanti casse del Museo di Napoli senza sapere quello che c’era dentro e dicevano: ‘Noi portiamo qui la storia della Germania, del sacro Romano Impero!’. E lo facevano, però con un senso di grande disciplina. Ed è anche giusto che si dica che sono stati sempre a nostra disposizione. Se i tedeschi avevano intenzione di portare il ‘tesoro’ in Germania, noi questo non lo sapevamo. Abbiamo scoperto dopo che era loro intento farlo risalire sempre più al nord, man mano che il fronte avanzava. perché non intendevano assolutamente lasciarlo nelle mani degli alleati. Poi però tutto il ‘tesoro’ venne custodito a Roma, a Castel S. Angelo. dove la consegna venne fatta in maniera solenne. Ma questo noi che eravamo a Montecassino l’abbiamo saputo dopo. Circa i rapporti con i tedeschi devo aggiungere che quando si è trattato dell’evacuazione della popolazione le disposizioni che essi avevano erano severissime. Anzi, poiché noi avevamo una piccola scorta di gendarmi, che avevamo chiesto noi stessi per comunicare col comando tedesco, questi qualche volta ci hanno protetto dai loro stessi commilitoni.
D — Gli alleali ritenevano che l’Abbazia venisse sfruttata dai tedeschi come postazione strategica che l’Abbazia venisse sfruttata dai tedeschi come postazione strategica che consentiva loro il controllo della vasta pianura che si apre alla confluenza della valle del Rapido con quella del Liri. Tra gli altri, per citare uno dei più noti, Alexander scrive, nel rapporto sulla Campagna d’Italia, che il Monastero era stato, fino a quel momento, ovvero sino al 15 febbraio 1944, deliberatamente risparmiato «con nostro grave danno», mentre faceva parte integrante della difesa germanica. Del resto, nello stesso volantino lanciato dagli alleati sul Monastero il 14 febbraio, giorno precedente il bombardamento, si legge: «Noi abbiamo sinora cercato in tutti i modi di evitare il bombardamento di Montecassino. I tedeschi hanno saputo trarre vantaggio da ciò». Ora, tanto nel «diario» che nella nota dichiarazione scritta solo qualche ora dopo il bombardamento dall’Abate Don Gregorio Diamare sull’Altare della Torretta, si ha invece la certezza, che è poi la pura verità, che, per citare Don Gregorio Diamare, «nel recinto di questo Sacro Monastero non vi sono stati mai soldati tedeschi». Le chiedo: secondo Lei. gli alleati erano davvero convinti che i tedeschi si servissero del Monastero o altro non fu. questa loro ‘convinzione’ che una buona scusa per distruggere Montecassino ed accorciare, cosi, la strada per Roma, strada che, invece, forse proprio in seguito al bombardamento dell’Abbazia si allungò di almeno altri tre mesi?
R — Io non voglio entrare nelle cose di alla strategia militare, anche perché non sono competente. Devo dire, però, che i tedeschi avevano minato tutta la pianura. Avevano studiato tutte le postazioni della artiglieria, per cui ogni volta che sparavano, sparavano a colpo sicuro. E dicevano: ‘Non passeranno!’. Gli alleati, dunque, non potevano passare per Cassino perché era un punto fortificatissimo, anche per la conformazione del territorio. Ora, io credo che, siccome loro non riuscivano a passare di qui dopo vari tentativi, allora essi davano la colpa a questo carro armato che era il Monastero. Cioè, che se avessero continuato a portar rispetto al Monastero, non avrebbero potuto usare tutte le loro armi. Secondo me, è stata una questione psicologica: ‘non possiamo passare; allora bombardiamo il Monastero!’ Senza sapere, come avrebbero poi detto gli esperti militari, che, distruggendo il Monastero, i monaci non ci potevano più rimanere. E poi finiva il fatto morale. Cioè che i tedeschi non potevano entrare nel Monastero sin quando c’era l’Abate. E i tedeschi hanno avuto sempre rispetto di questo. Quindi, con questo bombardamento, gli alleati hanno dato un’arma ai tedeschi e nello stesso tempo hanno compiuto un grosso errore strategico perché sotto le macerie ci si difende più facilmente che in un edificio. Cosicché, avendo l’Abate con i monaci dovuto abbandonare il Monastero, delle rovine di questo presero possesso i tedeschi che, ripeto, prima della distruzione, non erano mai stati nel Monastero. Ma gli alleali lo capirono solo a distruzione avvenuta anche se a loro risultavi che prima del bombardamento dal Monastero non partiva nessun colpo e che nessun soldato tedesco occupava il sacro edificio come poi ha anche confermalo in un suo scritto il generale Clark. D’altro canto, vi è la controprova. La prima offensiva del 15 febbraio fallì perché i tedeschi, avvertiti da noi, dopo che gli alleati avevano lanciato i volantini in cui annunciavano il bombardamento, si ritirarono dal fronte e presero poi subito posizione una volta finito il bombardamento. Di modo che quando gli alleati fecero l’assalto, trovarono i tedeschi pronti ad aspettarli, per cui falli l’offensiva del 15 febbraio. E i tedeschi sono stati cosi corretti che loro non hanno preso possesso militare delle rovine del Monastero fin tanto che vi è stato l’Abate dentro. Questa è storia. Interpretatela come volete, ma questa è storia.
R — Cosa provaste quel lunedì 14 febbraio 1944 quando alcuni giovani vi poetarono quei volantini piovuti dal cielo, indirizzati agli «amici italiani» e firmati «La Quinta Armala» che altro non erano se non la semenza che decretava la fine di Montecassino?
R — Fu un grandissimo sgomento, per noi. Purtroppo si verificava la profezia dell’Abate Diamare: ‘tutto sarà distrutto’. Avvertimmo la popolazione, provatissima. Non si sapeva cosa fare. Né noi sapevamo cosa indicare loro. Una situazione quanto mai penosissima: se usciamo, c’è la guerra dall’uno e dall’altro lato; se rimaniamo, qui ci bombardano tutto. Non sapevamo, con migliaia di persone che erano qua dentro, cosa fare. Una situazione penosissima…
D — Martedì 15 febbraio 1944. Sono da poco passate le 8,30. La preghiera a un tratto viene coperta da una «tremenda esplosione» Nel «diario» si parla proprio di «tremenda esplosione». Ecco, Padre, Le chiedo un ricordo di quel tragico martedì. Il vostro stato d’animo in quello che doveva essere un inferno.
R — Noi eravamo nel nostro rifugio e dicevamo il divino ufficio. Proprio nel mezzo di una guerra sanguinosissima, direi che noi eravamo tranquilli nel nostro rifugio a pregare il Signore a nome della Chiesa. E proprio durante l’ufficio divino avvenne lo scoppio della prima bomba. Poi seguirono le altre. Noi ci inginocchiammo a dire la nostra preghiera al Signore – ‘suscipe me, Domine, sccundum eloquium tuum…’ — la nostra formula, la nostra professione solenne. E aspettavamo che si aprisse la volta. L’Abate era ritto, in piedi. Noi in ginocchio. Quasi come la morte di San Benedetto. Mi venne in mente la morte di San Benedetto, che morì in piedi, sostenuto dai suoi discepoli. Ma l’Abate Diamare, successore di San Benedetto, era lui a sostenere noi, moralmente. È questo, insieme all’altro di quando io andai dall’Abate che mi disse ‘qui sarà tutto distrutto’, il ricordo che più mi è rimasto impresso nella mente. Il ricordo del bombardamento in cui ognuno di noi ha fatto esperienza della morte.
D — Lasciando da parte la guerra, vorrei chiederLe qualche chiarimento su un episodio raccontato nel «diario». Il primo, annotato sotto la data del 4/8 novembre, riguarda il Colonnello Schegel salito in quei giorni a Montecassino «per congedarsi definitivamente dal P Abate». Al momento del commiato, si legge nel «diario», «gli è stata regalata un’altra delle bottiglie quarantenni». Sono, ovviamente, queste «bottiglie quarantenni» a destare la mia curiosità.
R— Per quel che riguarda le bottiglie, nella cantina c’erano delle bottiglie di vino vecchio. In talune occasioni, per qualche ospite di riguardo, si aprivano di queste bottiglie che, in quella occasione, l’Abate Diamare volle donare al colonnello Schegel: in tempo di guerra, anzi, proprio sul fronte, non poteva esservi dono più gradito di una bottiglia di vino, di quello vigoroso.
D — Nel libro ‘Il bombardamento di Montecassino’ vi sono moltissime foto. Sono fotografie, alcune delle quali già note, che, impaginate così come lo sono state, danno una sensazione viva e palpitante dei momenti che hanno immortalato, sviluppando visivamente gli avvenimenti narrati nel libro. Questi avvenimenti possono catalogarsi in tre tempi ben precisi: l’evacuazione dei tesori d’arte da Montecassino ed il loro arrivo a Roma; il viaggio verso Roma, verso Sant’Anselmo, di Don Gregorio Diamare, accanto al quale Ella è costantemente presente; i drammatici flash del Monastero, di Montecassino durante e dopo la distruzione. Immagini, quest’ ultime, di sgomento, di desolazione, di morte. Particolari dei chiostri, dei colonnati, dei dipinti che documentano tutta la gravità della tragedia. Poi, prima dell’ultima, quella che illustra la ricostruita Abbazia, due foto che, sebbene mostrino in prevalenza macerie su macerie, sono, forse, i primi documenti della vita che torna, dopo la quarta distruzione, sul Sacro Monte. Di Montecassino che rinasce come faro della Cristianità, di Montecassino che rinasce come faro dell’arte e della cultura. Nella prima delle due foto, infatti, sul desolato sepolcro di San Benedetto s’innalza di nuovo l’Ostia di pace; nella seconda, invece, quasi appare tra le macerie l’umile cappella che si eleva sul sepolcro del Santo al posto della maestosa Basilica. Lì per lì. a voi che a Montecassino tornaste subito dopo la guerra, tra quelle macerie, la rinascita sembrò impossibile o già avevate la certezza di ridare a San Benedetto la sua Casa?
R — Quando io ritornai con l’Abate Diamare a Cassino e a Montecassino, ogni volta che io stavo a Cassino e guardavo il Monastero, era una cosa quanto mai dolorosa. Uno schianto al cuore, vedere sul cocuzzolo della montagna solo macerie e non più l’Abbazia. Si ricostruirà il Monastero nella sua grandezza monumentale o si dovrà aspettare molto, molto tempo’? Erano tutti interrogativi ai quali noi non potevamo rispondere. Però avevamo questa certezza: sotto quelle macerie c’era la tomba di San Benedetto e sicuramente da quella tomba sarebbe di nuovo uscita la vita. Come difatti è avvenuto.
© Costantino Jadecola, 1984.
One Reply to “DENTRO LA STORIA, CON DON MARTINO MATRONOLA”
Sempre con emozione ricordo quei tragici momenti e li rivivo tremando!
Ero bambina, vivevo a Roma, ma arrivavano notizie del fronte a metà strada fra Roma e Napoli
Appunto Monte Cassino.tragedie da cui però la vita è rinata ancora più forte e l’Abazia è più forte e bella di prima.