ALVITO, UN VECCHIO SIGNORE DEL BUON TEMPO ANTICO.

Il cartello del “benvenuto” lo incontri, ormai, all’ingresso di ogni paese. E lo incontri anche all’ingresso di Alvito. Ma quel saluto, che generalmente appare un tantino retorico, se non proprio ipocrita, qui ha un senso diverso, più vero, sicuramente consono allo spirito letterale della parola.
Te ne rendi conto subito dopo, quando, imboccato il lungo Corso, contornato dapprima dalle facciate di antichi palazzi non scalfite alle cannonate dell’ultima guerra e poi dalla verde “alberata” che spazia sulla valle, hai di colpo la sensazione di trovarti in un paese dove ogni cosa è al suo posto, ordinata, e dove la gente, non ancora trasformata dalle “ciminiere” e dalle conseguenze benevole e malevole che molto spesso esse si portano dietro, vive tranquilla, dando al paese il tono e lo stile del vecchio signore del buon tempo antico.
Come un vecchio signore che vede il mondo intorno a sé cambiare, e che di questa evoluzione è forse ingelosito ma non tentato, preferendo semmai aspettare tempi migliori per un suo inserimento, così Alvito, in attesa che la Valle di Comino venga fuori dal suo isolamento, vive, senza pianti e senza rimpianti, dando il maggior credito possibile alla sua più pregevole risorsa, l’agricoltura, venendone da essa debitamente ricompensata.
È difatti essenzialmente agricola l’economia alvitana e condotta in modo estremamente razionale, come anche il meno esperto riesce a constatare, sulla scia di una tradizione che potrebbe avere la sua genesi nella formula benedettina dell’ «ora et labora», anche su queste terre imperante prima che esse cadessero sotto la tenace espansione conquistatrice dei Conti di Aquino, cui è forse conseguente la grossa area territoriale del Comune che, dalla “Sferracavalli” arriva fin su al Parco Nazionale d’Abruzzo, ad un tiro di schioppo da Pescasseroli.
E con Pescasseroli proprio, Alvito ha una matrice in comune collegata al nome di Benedetto Croce, il cui nonno materno, un Sipari, fece costruire nelle due località due palazzi identici per fattura architettonica, destinando quello di Pescasseroli alla figlia, la madre del filosofo, e quello di Alvito al figlio. Se le cose fossero andate diversamente, la Ciociaria, chissà, avrebbe potuto gloriarsi di aver dato i natali anche a Benedetto Croce. Comunque, pure nel palazzo alvitano dell’avo crociano vi furono illustri natali: qui, infatti, nacque l’ingegner Erminio Sipari, cugino di Croce, che fu il fondatore del Parco Nazionale d’Abruzzo e suo Presidente.
Ma le reminiscenze culturali di Alvito non finiscono qui. Nell’antico palazzo dei Mazzenga si conserva il letto che, si dice, utilizzò Giacomo Leopardi nel suo viaggio verso Napoli in compagnia dell’amico Antonio Ranieri, l’esuberante letterato napoletano che fu a lui vicino negli ultimi anni di vita, mentre nel Palazzo Ducale, attuale sede municipale fanno spicco due grandi tele di Nicola Malinconico (1663–1721), un pittore napoletano di nascita seguace di Luca Giordano e originale interprete della Gerusalemme Liberata: le opere alvitane rappresentano, infatti, Rinaldo e Armilda e Olindo e Seronia. Pregevoli opere sono anche nella parrocchiale dedicata a San Simeone Profeta, una costruzione del ’700 a due passi dal Palazzo Ducale: la Presentazione di Andrea Solari (1455–1520 ca) discepolo di Leonardo Da Vinci e maestro egli stesso; Crocefissione con paesaggio, olio su tavola di Anonimo del XVI secolo e un’altra Crocefissione del Cavalier d’Arpino (Arpino 14 febbraio 1568-Roma, 3 luglio 1640).
Tuue queste cose me le dice il Sindaco, Mariano Fazio, all’ombra del Castello che, costruito dai Conti di Aquino nell’XI secolo, fu distrutto dal violento terremoto del 1349 e quindi riedificato ed ampliato dai Cantelmo.
Da quassù, siamo a circa ottocento metri, la Valle di Comino si domina interamente e, con essa, buona parte dei paesi che ne fanno parte e che fanno anche parte del Consiglio di Valle di cui il mio cortese interlocutore è presidente certo per meriti ma forse anche, vien da pensare, per la brillante posizione strategica del paese della cui amministrazione è al vertice.
Alvito è sotto di noi, quasi a scomparire dietro gli allineati filari di viti che scendono giù a terrazza. Si parla allora del paese e dei suoi problemi. Anche qui l’emigrazione è di casa. In compenso, mi dice il Sindaco, non v’è disoccupazione: o le industrie del sorano o la stessa agricoltura recepiscono l’intera manodopera locale.
Risolto il problema idrico anche per l’estesa campagna e le numerose frazioni che costellano il territorio comunale, e parzialmente quella fognante, l’Amministrazione comunale pensa ora di portare ad Alvito un Istituto Tecnico Agrario, del quale non esiste traccia sia in provincia di Frosinone che in quella di Latina, il più consone, del resto, all’economia locale, il quale consentirebbe ai giovani, completato il ciclo della Scuola media, di accedere, senza i forzati trasferimento a Sora o a Cassino, alle varie facoltà universitarie. Senza dimenticare, poi, che proprio qui, sul finire degli anni Dieci dell’altro secolo, cominciò ad operare una colonia agricola unica nel suo genere in provincia di Terra di Lavoro e addirittura fra le prime in Italia.
Assolutamente nulla la recettività alberghiera, una cui soluzione, anche a livello di Valle, pare lungi a venire, mentre sono ben sei le Parrocchie – S. Maria Assunta, Trinità, San Simeone, San Giovanni Battista, San Giovanni Evangelista e Sant’Onofrio – che si dividono le tremilacinquecento/quattromila anime alvitane. E due i cimiteri.
A livello turistico, l’Amministrazione comunale, oltre a rendere quasi di norma l’ordine e la pulizia del paese – sono ben quattro gli spazzini comunali – ha anche provveduto, a proprie spese, stante il consueto assenteismo dell’Ente Provinciale per il Turismo, a fare installare numerosi e, mi dicono, costosi cartelli turistici, certo di notevole aiuto per chi si reca in paese e desidera rendersi conto, discretamente, di quel che del passato conserva la patria di Mario Equicola e Giulio Prudenzio. Per non dire dei rinomati dolci creati dalle sapienti mani dei Di Tullio e dei Folchetti.
© Costantino Jadecola, 1971.