LI CHIAMAVANO BRIGANTI / DOMENICO COJA, ‘IN ARTE’ CENTRILLO.
Parte dell’iconografia che immortala i protagonisti di quelle attività brigantesche che interessarono anche l’Alta Terra di Lavoro negli anni in cui si concretizzò l’unità nazionale è caratterizzata, al di là di disegni e caricature, da foto in cui i soggetti o posano impettiti con tanto di fucile, orgogliosi della loro ‘missione’, o vengono immortalati dopo essere stato uccisi.
Se ci furono soggetti tipo Luigi Alonzi, alias Chiavone, che seppero abilmente sfruttare l’immagine, diciamo a propri fini promozionali, di altri, invece, come Domenico Coja, al di là della caricatura che di lui fece Melchiorre Delfico De Filippis (Teramo, 28 marzo 1825 — Portici, 22 dicembre 1895), che lo raffigurò come una spirale a serpentina, ovvero una ‘centrella’, quel piccolo chiodo dal cappello largo e tondo che si utilizzava per proteggere le suole ed i tacchi delle scarpe, da cui forse derivava il soprannome Centrillo affibbiato a Coja, non c’era alcuna testimonianza visiva.
E così è stato fino a quando la signora Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo e il brigante Centrillo. E.Di.Ci. Editrice. Isernia, 1993) non ha pubblicato una foto ‘formato gabinetto’ in cui Coja è immortalato con moglie e figli. In pratica, una foto di famiglia. Dunque, una immagine decisamente diversa dalla corrente iconografia brigantesca e, se vogliamo, in linea col personaggio che, se fu brigante, si distinse, però, dai suoi presunti colleghi anche in questo. Guardando quella foto, infatti, pensi di essere al cospetto di tutt’altra persona e comunque non di colui che qualcuno definì il Masaniello delle Mainarde.
Domenico era nato il primo gennaio 1827 a Castelnuovo a Volturno, località del comune di Rocchetta al Volturno, in provincia di Isernia, adagiata ai piedi del Monte Marrone e, come i genitori, si dedicò, inizialmente, “al mestiere di mugnaio”.
Si dice che avesse trascorso l’infanzia a Cardito, frazione di Vallerotonda, dove i Coja pare disponessero di una abitazione e dove, comunque, dovevano risiedere dei parenti; «all’anagrafe di Vallerotonda», scrive Giovanni Battista De Filippis (Il brigante Centrillo di Cardito. In Lazio Sud. A. I, n. 3. Maggio 1982.), «era censito contadino, prima del suo servizio militare; poi, dopo congedato, ‘negoziante di vettovaglie’». La Rufo precisa, però, che tutto ciò sarebbe ‘contestato’ da un nipote del Coja, peraltro suo omonimo.
Ma cosa fece Domenico Coja per meritarsi l’appellativo di capo brigante, peraltro molto temuto? Innanzi tutto fu in grado di organizzare una banda che mediamente poteva contare su alcune decine di individui- «ben calzati, nutriti e armati»- originari non solo della sua zona ma anche di Casalvieri, Cervaro e Picinisco, ad ognuno dei quali pare assicurasse paghe che variavano dai 25 grani ai 4 carlini. Ma, soprattutto, riuscì a penetrare nel cuore della gente che ben volentieri, tranne in qualche caso, si prestava ad esaudire le richieste della banda che dava ad intendere di operare per suo conto. Come dire: stiamo lavorando per voi.
Quanto all’attività, cerchiamo di scoprirlo attingendo sia alla tradizione orale che si tramanda nei luoghi dove visse, sia nelle carte del processo che si celebrò a suo carico a Cassino nel 1865, sia attraverso ciò che scrisse «la giunta municipale de’ Comuni riuniti di Rocchetta e Castelnuovo» — era composta «dai consiglieri assessori D. Domenicantonio Bastone, Giovanni Rufo e D. Pietro de Iuliis di Rocchetta sotto la presidenza del Sindaco Sig. Antonio Neri di Rocchetta»- al giudice del mandamento di Castellone, oggi Castel San Vincenzo, che, circa la metà di ottobre del 1862 sollecitò «un verbale rilevante i fatti principali che accennano alla condotta di Domenico Coja di Diodato (alias Centrillo) di questo Comune con biografarne la vita».
A costoro non parve vero di potersi ‘esprimere’ su quel loro concittadino assurto a notorietà, con il quale i rapporti erano tutt’altro che idilliaci. Di conseguenza, nemmeno a pensarci che qualche sfumatura di obiettività potesse inficiare le loro considerazioni. Anzi.
La loro ‘biografia’ prende le mosse da quando, nel 1846, andò militare. E, appena dopo, la prima stoccata: «Nel 13 di agosto 1852 qual soldato del decimo di linea dell’ex esercito borbonico, fruendo di un concedo presso i suoi genitori in Castelnuovo, commetteva reato contro il governo di allora ed insieme al padre e i germani Giuseppe e Salvatore commetteva pure altro reato di resistenza agli agenti della Guardia Urbana del suo Comune, perocché arrestato in flagranza di reato e rimesso al potere militare, onde fu giudicato riportando condanna di otto anni di reclusione.»
La pena, però, espiata presso le carceri di Santa Maria Capua Vetere, si concluse molto prima, nel 1855, quando, fruendo di un indulto, Domenico poté far ritorno al paese natio dove, scrive la giunta di Rocchetta e Castelnuovo, «mettendo a profitto il peculio tratto dalla camorra da lui esercitata nel luogo di pena intraprese un picciolo commercio di compra e vendita di cereali, vino, ed altri commestibili, che solea accredenzare con scandalosa usura agli indigenti cittadini».
Insomma, tutt’altro che uno stinco di santo. Uno status poi peggiorato dall’attrazione fatale per la causa dei Borbone che, considerato che siamo ormai nel nuovo regno, vale la pena evidenziare.
Ma siamo sicuri che le autorità di Rocchetta e Castelnuovo dicano il vero? A proposito del servizio militare, ad esempio, esse omettono dal dire che Coja, nel 1848, «si recò col suo reggimento nella guerra di Lombardia (cioè prese parte alla Prima guerra d’indipendenza, nda), e ritornato da quella spedizione ed avuto il congedo (nel 1851, nda) fu ritenuto nella sua patria in conto di liberale e graduato in quella Guardia Nazionale.»
Ma è l’informativa sul suo arresto, artatamente distorta, a far ritenere leautoritàdi Rocchetta e Castelnuovoin perfetta malafede dal momento che non precisano quale era stato il famoso reato commesso da Domenico e dai suoi familiari. Infatti, detto come lo si è detto, si sarebbe portati a pensare al peggio se non si sapesse che tale reato era invece consistito nel «‘disprezzo alla effigie del Re’», cioè del re Borbone, e nella conseguente «‘resistenza alla forza pubblica’, che voleva arrestarlo per questo reato». Che è tutta un’altra cosa ma che, detta così come lo è stato, è il presupposto per poter affermare che Coja era «facinoroso per indole, valente accoltellatore, cui aggiunta l’acquisita burbanza del suo mestiere, reso scaltro nel profittare, pigliò fama nel comune natio da reputarsi soggetto temibile. Sebbene straneo alla politica, serbava tendenze per quel partito cui meglio giudicava star la possibile riuscita».
Peraltro, nella vicenda che portò al suo arresto deve mettersi in conto l’antipatia in cui lo aveva il sindaco, o ‘capo urbano’, del suo paese, Francesco Grande, il quale «lo sorvegliava senza interruzione ed era sempre pronto a condannarlo ogni qualvolta se ne presentava l’occasione.» Del resto, in sede processuale qualcuno giustifica la metamorfosi di Coja da antiborbonico ad antipiemontese proprio con il fatto che Germano Grande, sindaco di Castelnuovo e zio di Francesco, anche lui «nemico dell’accusato Coja per gare private Municipali dette a credere ai Garibaldini ed alle Guardie Nazionali che perlustravano Castellone ed i Comuni di quel mandamento che il medesimo e gli altri individui della famiglia di lui appartenessero agli insorti di quell’epoca, credenza che fè restare ucciso a colpi di fucile tirato da uno di quell’arma Giuseppe Coja, germano di esso Centrillo.»
L’inizio dell’attività di Domenico Coja a favore della causa borbonica daterebbe ottobre 1860 anche se qualcuno l’anticipa al 18 settembre quando, presentatosi al corpo di guardia di Castelnuovo, sottrasse dei fucili per armare «diversi contadini, tra cui pure de’ militi della stessa Guardia Nazionale»e quindi ripetere l’operazione anche in altri comuni vicini.
Prima che ciò accada, però, Coja si reca a Gaeta insieme all’arciprete di Fornelli, don Giuseppe Tomassone, dove dal 6 settembre si trova Francesco II. Ma, giunti a Venafro, i due vengono bloccati dalla Guardia nazionale: se don Giuseppe riesce a «darsela a gambe», Domenico Coja viene, invece, «trattenuto»per un paio di giorni.
Un mandato d’arresto emesso dal giudice di Castellone contro Domenico Coja e 14 dei suoi compagni, per la cui esecuzione viene incaricata la Guardia nazionale di Castellone e di San Vincenzo, manda all’aria il programmato saccheggio in alcuni comuni dell’alto Volturno. Era il 21 settembre. Un violento scontro a fuoco, quello a seguito del quale rimane ucciso il fratello di Domenico, Giuseppe, e qualche esponente della banda venne fatto prigioniero, suggerisce a Coja di guadagnare lidi più tranquilli. Cosicché, insieme all’altro fratello Antonio ed al cugino Giuseppe, prende la via di Capua.
Ormai ben inserito negli ambienti borbonici, a Capua riceverebbe dal generale Giovanni Salzano de Luna, comandante dell’esercito, ampia autorizzazione scritta ad «eseguire quanto avesse potuto fare pel meglio della causa borbonica», autorizzazione che, però, a Venafro, sarebbe stata di molto ridimensionata dal maggiore Liguori che l’avrebbe limitata al solo «diritto di arruolare gente per le truppe a massa».
Forte di questo incarico Domenicotorna nella sua terra deciso ad eseguire fedelmente il mandato ricevuto. La presenza della sua banda èsegnalata a Rionero Sannitico la sera del 2 ottobre quando scoppia «una triste reazione animata da una quantità di pessimi cittadini i quali al grido di ‘viva Francesco II’ cominciarono a fare arresti arbitrari, saccheggiare case, disarmare il posto di Guardia e commettere altri crimini, onde ripristinare il governo del Borbone.»
Due giorni dopo, il 4 ottobre la banda Coja è a Scapoli dove, obbligati «i galantuomini a contribuire alla questua», viene solennizzata la festa di re Francesco «in occasione del giorno onomastico». Poi si andò nella casa comunale «per lacerare l’atto di adesione fatto dal Comune al Governo Dittatoriale, che peraltro non ebbe luogo» e, quindi, preso «il proclama del Generale Garibaldi e portatolo in piazza fu distrutto a colpi di fucilate». Si pretende, quindi, l’elezione di nuovi amministratori comunali.
Sempre il 4 ottobre la banda di Domenico Coja viene segnalata anche a Rocchetta a Volturno per spalleggiare la rivolta promossa da quelli del luogo. Tra gli obiettivi c’è il sacerdote don Giacomo De Iuliis il quale poi, tra l’altro, dichiarerà «alla giustizia» che dal suo nascondiglio «sentiva le voci di diversi paesani nonché quella del famigerato Domenico Coja che comandava quella banda infame» i quali, tra l’altro, si rammaricavano per non averlo potuto catturare.
Stando, invece, a ciò che scrive la Rufo, era «la plebe» che «saccheggiava la casa di De Iuliis e sequestrava sei liberali. Giunse Centrillo con la sua banda, fece liberare i sequestrati ed impedì saccheggi e stragi», tesi questa sostenuta anche da De Filippis.
Per il tempo a venire, su Coja e la sua banda non ci sono notizie. Si segnala, piuttosto, un’intensa attività delle forze dell’ordine nei luoghi da essa solitamente frequentati.
A seguito delladisfatta subita dai borbonici sul Macerone (20 ottobre 1860) ad opera del generale Cialdini, è probabile che Domenico Coja abbia fatto di nuovo una capatina a Gaeta da dove sarebbe tornato il 6 novembre. Dopo aver passato un paio di giorni nella sua casa di Castelnuovo, in attesa di tempi migliori avrebbe preferito ritirarsi sulle Mainarde dove il suo rifugio era costituito da una grotta situata nel luogo detto ‘pietre delle Mainarde’ ed oggi nota come ‘la grotta di Centrillo’.
Dopo una assenza di un paio di mesi, la banda Coja ritorna in scena l’11 gennaio 1861 con un attacco a Castelnuovo, San Vincenzo e Castellone.
A Castelnuovo, gli obiettivi sono le abitazioni dei Grande e quella di Domenicantonio Bastone che, però, da tempo hanno cambiato aria. Le case di costoro vennero occupate ed i mobili gettati dalle finestre, cosa, questa, che impaurì non poco la signora Grande che, però, venne tranquillizzata da Coja in persona. Si dirà poi che, se degenerazioni c’erano state, queste erano da imputarsi solo ad alcuni infiltrati e che Domenico Coja si sarebbe dato molto da fare per limitare l’azione distruttrice.
È quindi la volta di S. Vincenzo, dove viene assalito la masseria dei fratelli Francesco e Leopoldo Catracchia, e poi di Castellone dove la banda «in su le prime atterrò le porte del carcere Mandamentale estraendone i detenuti e mentre obbligavano costoro a seguirla», si dirigeva alla casa del giudice barone Luigi Cocco sottoponendola a devastazione e saccheggio. Lo stesso veniva fatto per quelle delle principali famiglie liberali né rimase esente di attenzione la stessa ‘Regia Giustizia’ il cui cancelliere, Andrea Prinari, racconterà che, appena saputo dell’invasione da parte della banda armata del «famigerato Domenico Coja», «corse immantinente nella cancelleria del regio giudicato ove frettolosamente radunò tutti i processi a carico del detto Coja e portandoli in sua casa li nascose nella soffitta».
Nei giorni immediatamente successivi a finire nel mirino sarebbe Rocchetta al Volturno e, in particolare, le case dei fratelli Giambattista e Giacomo de Juliis, e quindi Viticuso, «ove per la resistenza di alcuni a versare una taglia di transito», la banda «saccheggiò la Cassa di Beneficenza». A seguire, Acquafondata e Casalcassinese, dove sarebbe stata disarmata la guardia nazionale ed «abbattuti gli stemmi dei Savoia» e, infine, Cardito.
La successiva azione della banda avviene sei mesi dopo, nella notte tra il 10 e l’11 luglio con l’irruzione nel comune di Vallerotonda: bottino alcune decine di fucili e relative cartucce. A guidarla, però, c’è un uomo di Coja, Michele Di Meo. Domenico, come un paio di giorni dopo scriverà il giudice di Cervaro Orazio Lanzetta, «non si portò in Vallerotonda ma attese il ritorno dei suoi in Cardito». Pare, comunque, che egli sia andato in paese con alcuni uomini il pomeriggio del 10 dove avrebbe preteso una buona scorta di pane, del cacio e del vino nonché denari e qualche fucile, di tutto rilasciando regolare ricevuta. In comune, poi, inchinatosi al cospetto dell’immagine di Vittorio Emanuele affissa in una sala e, toltosi il capello, avrebbe detto: «Un re è sempre un re!».
Un assalto al comune di Montenero Val Cocchiara nella notte fra il 26 e il 27 agosto 1861 concluderebbe l’attività della banda di Domenico Coja che¸ dopo una trasferta sull’Appennino abruzzese (Civitella Alfedena, Barrea, Villetta Barrea), è costretta a smembrarsi anche perché lo stretto controllo dell’intero settore delle Mainarde da parte delle forze di polizia consigliano che sarebbe stato meglio dedicarsi ad altro. Né era possibile, semmai lo fosse stato, un’eventuale fusione con altre bande, ad esempio quella di Chiavone, perché, scrive De Filippis, Domenico Coja non si fidava del brigante della Selva di Sora ritenendolo «infido, violento ed assassino… Né era nel carattere di Centrillo alcuna disposizione a sottomettersi o a dipendere da altri.»
Date le circostanze, dunque, Domenico Coja preferì andare a svernare a Roma incappando, verso la fine del 1861, nei francesi che prima lo arrestarono e poi lo consegnarono agli italiani.
A dicembre di tre anni dopo era ancora rinchiuso nel carcere napoletano di Castelcapuano quando (8 dicembre 1864) il direttore delle carceri scriveva al prefetto di quella provincia che erano ormai «oltre trenta mesi», quindi dalla metà del 1862, che Domenico Coja è «qui giacente senza che ancora sia deciso da qual Corte debba essere giudicato». Qualche giorno dopo (16 dicembre), la Corte d’Appello di Napoli risponde che ciò è dipeso dal numero dei «procedimenti pendenti relativi a moltissimi accusati, fra quali il Coja», cosa che renderebbe difficile definirne la competenza.
Si decide, quindi, che il processo dovrà svolgersi «presso il circolo di assise» di Santa Maria Capua Vetere sedente in Cassino.
Iniziato il 22 settembre, il processo si conclude il 19 ottobre 1865 con l’assoluzione di Domenico Coja e di alcuni della sua banda: insomma, una sentenza che fece scalpore e scandalo e generò clamore sia sulla stampa che in parlamento.
Ritenuti come politici i reati ascritti, chi li aveva commessi fruì dunque dell’indulto sovrano. Ma forse si considerò anche che, all’infuori delle azioni compiute a Vallerotonda ed a Montenero Val Cocchiara (luglio e agosto 1861), le precedenti si erano svolte in un territorio che non era ancora regno d’Italia. In sede processuale, poi, lo stesso Coja, nel difendersi dalle accuse che gli venivano mosse, dichiarava che non sempre era lui a guidare certe spedizioni bensì un ex ufficiale del disciolto esercito borbonico che si faceva chiamare ora tenente Neri, ora tenente Botta. Anzi, metteva in evidenza che lui, spesso, si era dato da fare per limitare i danni.
In buona sostanza, la figura di Domenico Coja, secondo Olindo Isernia (Caratteristiche e composizione sociale della banda di Domencio Coja, detto Centrillo (1860–1861). In Rivista storica di Terra di Lavoro. N. 2. 1978), «si potrebbe assimilare, per tanti aspetti, a quella, tipica, del capo-popolo, capace però di astenersi da qualsiasi gratuito eccesso». Uno, insomma, che pare avesse «un istintivo bisogno di opposizione a qualsiasi forma di potere costituito dello Stato».
Una sorta di Robin Hood, insomma, che ruba a chi ha per dare a chi non ha.
Del resto non è un caso che di lui parli bene anche uno come Alessandro Bianco di Saint Jorioz nel suo libro Il brigantaggio alla frontiera pontificia dal 1860 al 1863(Milano 1864). L’ufficiale piemontese arriva addirittura a scrivere di Coja che «fu capobanda animosissimo ed operoso, molto ardito nelle sue operazioni, amante dei colpi strepitosi ed inaspettati, marciatore indefesso e manovratore espertissimo (…) Arrecò danno ai popoli senza però aver mai versato il sangue per traculenza d’animo e ferocità di carattere, anzi fu buono il più delle volte».
Conclusa la lunga vicenda giudiziaria, Domenico Coja «si ritirò tra i suoi monti [e] si dedicò per molto tempo alla vita campestre e alla pastorizia». Poi, ripresa l’antica attività di commerciante di cereali, sarebbe stato nominato sindaco di Castelnuovo e, forse, sarebbe stato anche ‘collaboratore di giustizia’. Infatti, in una quietanza da lui sottoscritta in data 20 novembre 1868 si legge«di aver ricevuto dal sottoprefetto di Isernia lire duecento per premio e spese da me sostenute per la presentazione del brigante Nicola Paone di Vincenzo di Scapoli».
Trovandosi in Francia, evidentemente dopo il 1870, si racconta incontrasse a Parigi Francesco II di Borbone che, dopo l’esilio romano, si spostava tra la capitale francese e Vienna, il quale pare lo rimproverasse affettuosamente per averlo ‘tradito’. Ma Domenico gli fece capire che bisognava pur vivere meritandosi cosi il dono di alcuni marenghi che, tornato a Castelnuovo, avrebbe utilizzato per aprire un negozio in piazza Roma, una sorta di bazar con annessa cantina, poi succedutosi di padre in figlio e tuttora in attività. Un’epigrafe ne testimonia l’origine: ‘A[nno]. D[omini] 1886 D[omenico]. C[oja].’
Morì diversi anni dopo, forse nel 1903, «con 6.000 lire di debiti»tant’è che «il figlio Giovanni dovette emigrare in America per guadagnare la somma ed estinguere il tutto».
© Costantino Jadecola, 2013.
2 Replies to “LI CHIAMAVANO BRIGANTI / DOMENICO COJA, ‘IN ARTE’ CENTRILLO.”
Troppo buono