LI CHIAMAVANO BRIGANTI / DOMENICO COJA, ‘IN ARTECENTRILLO.

LI CHIAMAVANO BRIGANTI / DOMENICO COJA, ‘IN ARTECENTRILLO.

Parte dell’iconografia che immor­ta­la i pro­tag­o­nisti di quelle attiv­ità brig­an­tesche che inter­es­sarono anche l’Alta Ter­ra di Lavoro negli anni in cui si con­cretiz­zò l’unità nazionale è carat­ter­iz­za­ta, al di là di dis­eg­ni e car­i­ca­ture, da foto in cui i sogget­ti o posano impet­ti­ti con tan­to di fucile, orgogliosi del­la loro ‘mis­sione’, o ven­gono immor­ta­lati dopo essere sta­to uccisi.

Se ci furono sogget­ti tipo Lui­gi Alonzi, alias Chi­avone, che sep­pero abil­mente sfruttare l’immagine, dici­amo a pro­pri fini pro­mozion­ali, di altri, invece, come Domeni­co Coja, al di là del­la car­i­catu­ra che di lui fece Mel­chiorre Delfi­co De Fil­ip­pis (Ter­amo, 28 mar­zo 1825 — Por­ti­ci, 22 dicem­bre 1895), che lo raf­fig­urò come una spi­rale a ser­penti­na, ovvero una ‘cen­trel­la’, quel pic­co­lo chio­do dal cap­pel­lo largo e ton­do che si uti­liz­za­va per pro­teggere le suole ed i tac­chi delle scarpe, da cui forse deriva­va il sopran­nome Cen­tril­lo affib­bi­a­to a Coja, non c’era alcu­na tes­ti­mo­ni­an­za visiva.

E così è sta­to fino a quan­do la sig­no­ra Anto­nia Izzi Rufo (Castel­n­uo­vo e il brig­ante Cen­tril­lo. E.Di.Ci. Editrice. Iser­nia, 1993) non ha pub­bli­ca­to una foto ‘for­ma­to gabi­net­to’ in cui Coja è immor­ta­la­to con moglie e figli. In prat­i­ca, una foto di famiglia. Dunque, una immag­ine decisa­mente diver­sa dal­la cor­rente icono­grafia brig­an­tesca e, se vogliamo, in lin­ea col per­son­ag­gio che, se fu brig­ante, si dis­tinse, però, dai suoi pre­sun­ti col­leghi anche in questo. Guardan­do quel­la foto, infat­ti, pen­si di essere al cospet­to di tutt’altra per­sona e comunque non di colui che qual­cuno definì il Masaniel­lo delle Mainarde.

Domeni­co era nato il pri­mo gen­naio 1827 a Castel­n­uo­vo a Volturno, local­ità del comune di Roc­chet­ta al Volturno, in provin­cia di Iser­nia, ada­gia­ta ai pie­di del Monte Mar­rone e, come i gen­i­tori, si dedicò, inizial­mente, “al mestiere di mugnaio”.

Si dice che avesse trascor­so l’infanzia a Cardi­to, frazione di Vallero­ton­da, dove i Coja pare disponessero di una abitazione e dove, comunque, dove­vano risiedere dei par­en­ti; «all’anagrafe di Vallero­ton­da», scrive Gio­van­ni Bat­tista De Fil­ip­pis (Il brig­ante Cen­tril­lo di Cardi­to. In Lazio Sud. A. I, n. 3. Mag­gio 1982.), «era cen­si­to con­tadi­no, pri­ma del suo servizio mil­itare; poi, dopo con­geda­to, ‘negoziante di vet­to­vaglie’». La Rufo pre­cisa, però, che tut­to ciò sarebbe ‘con­tes­ta­to’ da un nipote del Coja, per­al­tro suo omonimo.

Ma cosa fece Domeni­co Coja per mer­i­tar­si l’appellativo di capo brig­ante, per­al­tro molto temu­to? Innanzi tut­to fu in gra­do di orga­niz­zare una ban­da che medi­a­mente pote­va con­tare su alcune decine di indi­vidui- «ben calza­ti, nutri­ti e armati»- orig­i­nari non solo del­la sua zona ma anche di Casalvieri, Cer­varo e Picinis­co, ad ognuno dei quali pare assi­curasse paghe che vari­a­vano dai 25 grani ai 4 car­li­ni. Ma, soprat­tut­to, riuscì a pen­e­trare nel cuore del­la gente che ben volen­tieri, tranne in qualche caso, si presta­va ad esaudire le richi­este del­la ban­da che dava ad inten­dere di oper­are per suo con­to. Come dire: sti­amo lavo­ran­do per voi.

Quan­to all’attività, cer­chi­amo di sco­prir­lo attin­gen­do sia alla tradizione orale che si tra­man­da nei luoghi dove visse, sia nelle carte del proces­so che si cele­brò a suo cari­co a Cassi­no nel 1865, sia attra­ver­so ciò che scrisse «la giun­ta munic­i­pale de’ Comu­ni riu­ni­ti di Roc­chet­ta e Castel­n­uo­vo» — era com­pos­ta «dai con­siglieri asses­sori D. Domeni­can­to­nio Bas­tone, Gio­van­ni Rufo e D. Pietro de Iuli­is di Roc­chet­ta sot­to la pres­i­den­za del Sin­da­co Sig. Anto­nio Neri di Roc­chet­ta»- al giu­dice del man­da­men­to di Castel­lone, oggi Cas­tel San Vin­cen­zo, che, cir­ca la metà di otto­bre del 1862 sol­lecitò «un ver­bale ril­e­vante i fat­ti prin­ci­pali che accen­nano alla con­dot­ta di Domeni­co Coja di Dioda­to (alias Cen­tril­lo) di questo Comune con biogra­farne la vita».

A cos­toro non parve vero di pot­er­si ‘esprimere’ su quel loro concit­tadi­no assur­to a noto­ri­età, con il quale i rap­por­ti era­no tutt’altro che idil­liaci. Di con­seguen­za, nem­meno a pen­sar­ci che qualche sfu­matu­ra di obi­et­tiv­ità potesse infi­cia­re le loro con­sid­er­azioni. Anzi.

La loro ‘biografia’ prende le mosse da quan­do, nel 1846, andò mil­itare. E, appe­na dopo, la pri­ma stoc­ca­ta: «Nel 13 di agos­to 1852 qual solda­to del dec­i­mo di lin­ea dell’ex eserci­to bor­bon­i­co, fru­en­do di un con­ce­do pres­so i suoi gen­i­tori in Castel­n­uo­vo, com­met­te­va reato con­tro il gov­er­no di allo­ra ed insieme al padre e i ger­mani Giuseppe e Sal­va­tore com­met­te­va pure altro reato di resisten­za agli agen­ti del­la Guardia Urbana del suo Comune, per­oc­ché arresta­to in fla­gran­za di reato e rimes­so al potere mil­itare, onde fu giu­di­ca­to ripor­tan­do con­dan­na di otto anni di reclusione.»

La pena, però, espi­a­ta pres­so le carceri di San­ta Maria Capua Vet­ere, si con­cluse molto pri­ma, nel 1855, quan­do, fru­en­do di un indul­to, Domeni­co poté far ritorno al paese natio dove, scrive la giun­ta di Roc­chet­ta e Castel­n­uo­vo, «met­ten­do a prof­it­to il peculio trat­to dal­la camor­ra da lui eserci­ta­ta nel luo­go di pena intrap­rese un pic­ci­o­lo com­mer­cio di com­pra e ven­di­ta di cere­ali, vino, ed altri com­mestibili, che solea accre­den­zare con scan­dalosa usura agli indi­gen­ti cittadini».

Insom­ma, tutt’altro che uno stin­co di san­to. Uno sta­tus poi peg­gio­ra­to dall’attrazione fatale per la causa dei Bor­bone che, con­sid­er­a­to che siamo ormai nel nuo­vo reg­no, vale la pena evidenziare.

Ma siamo sicuri che le autorità di Roc­chet­ta e Castel­n­uo­vo dicano il vero? A propos­i­to del servizio mil­itare, ad esem­pio, esse omet­tono dal dire che Coja, nel 1848, «si recò col suo reg­g­i­men­to nel­la guer­ra di Lom­bar­dia (cioè prese parte alla Pri­ma guer­ra d’indipendenza, nda), e ritor­na­to da quel­la spedi­zione ed avu­to il con­ge­do (nel 1851, nda) fu ritenu­to nel­la sua patria in con­to di lib­erale e grad­u­a­to in quel­la Guardia Nazionale.»

Ma è l’informativa sul suo arresto, artata­mente dis­tor­ta, a far ritenere leau­torità­di Roc­chet­ta e Castel­n­uovoin per­fet­ta malafede dal momen­to che non pre­cisano quale era sta­to il famoso reato commes­so da Domeni­co e dai suoi famil­iari. Infat­ti, det­to come lo si è det­to, si sarebbe por­tati a pen­sare al peg­gio se non si sapesse che tale reato era invece con­sis­ti­to nel «‘dis­prez­zo alla effigie del Re’», cioè del re Bor­bone, e nel­la con­seguente «‘resisten­za alla forza pub­bli­ca’, che vol­e­va arrestar­lo per questo reato». Che è tut­ta un’altra cosa ma che, det­ta così come lo è sta­to, è il pre­sup­pos­to per pot­er affer­mare che Coja era «faci­noroso per indole, valente accoltel­la­tore, cui aggiun­ta l’acquisita bur­ban­za del suo mestiere, reso scal­tro nel prof­ittare, pigliò fama nel comune natio da rep­utar­si sogget­to temi­bile. Sebbene stra­neo alla polit­i­ca, ser­ba­va ten­den­ze per quel par­ti­to cui meglio giu­di­ca­va star la pos­si­bile riuscita».

Per­al­tro, nel­la vicen­da che portò al suo arresto deve met­ter­si in con­to l’antipatia in cui lo ave­va il sin­da­co, o ‘capo urbano’, del suo paese, Francesco Grande, il quale «lo sorveg­li­a­va sen­za inter­ruzione ed era sem­pre pron­to a con­dan­narlo ogni qual­vol­ta se ne pre­sen­ta­va l’occasione.»  Del resto, in sede proces­suale qual­cuno gius­ti­fi­ca la meta­mor­fosi di Coja da anti­bor­bon­i­co ad antip­iemon­tese pro­prio con il fat­to che Ger­mano Grande, sin­da­co di Castel­n­uo­vo e zio di Francesco, anche lui «nemi­co dell’accusato Coja per gare pri­vate Munic­i­pali dette a credere ai Garibal­di­ni ed alle Guardie Nazion­ali che per­lus­tra­vano Castel­lone ed i Comu­ni di quel man­da­men­to che il medes­i­mo e gli altri indi­vidui del­la famiglia di lui apparte­nessero agli insor­ti di quell’epoca, cre­den­za che fè restare ucciso a colpi di fucile tira­to da uno di quell’arma Giuseppe Coja, ger­mano di esso Centrillo.»

L’inizio dell’attività di Domeni­co Coja a favore del­la causa bor­bon­i­ca daterebbe otto­bre 1860 anche se qual­cuno l’anticipa al 18 set­tem­bre quan­do, pre­sen­tatosi al cor­po di guardia di Castel­n­uo­vo, sot­trasse dei fucili per armare «diver­si con­ta­di­ni, tra cui pure de’ mil­i­ti del­la stes­sa Guardia Nazionale»e quin­di ripetere l’operazione anche in altri comu­ni vicini.

Pri­ma che ciò acca­da, però, Coja si reca a Gae­ta insieme all’arciprete di For­nel­li, don Giuseppe Tomas­sone, dove dal 6 set­tem­bre si tro­va Francesco II. Ma, giun­ti a Venafro, i due ven­gono bloc­cati dal­la Guardia nazionale: se don Giuseppe riesce a «darsela a gambe», Domeni­co Coja viene, invece, «trattenuto»per un paio di giorni.

Un manda­to d’arresto emes­so dal giu­dice di Castel­lone con­tro Domeni­co Coja e 14 dei suoi com­pag­ni, per la cui ese­cuzione viene incar­i­ca­ta la Guardia nazionale di Castel­lone e di San Vin­cen­zo, man­da all’aria il pro­gram­ma­to sac­cheg­gio in alcu­ni comu­ni dell’alto Volturno. Era il 21 set­tem­bre. Un vio­len­to scon­tro a fuo­co, quel­lo a segui­to del quale rimane ucciso il fratel­lo di Domeni­co, Giuseppe, e qualche espo­nente del­la ban­da venne fat­to pri­gion­iero, sug­gerisce a Coja di guadagnare lidi più tran­quil­li. Cos­ic­ché, insieme all’altro fratel­lo Anto­nio ed al cug­i­no Giuseppe, prende la via di Capua.

Ormai ben inser­i­to negli ambi­en­ti bor­boni­ci, a Capua ricev­erebbe dal gen­erale Gio­van­ni Salzano de Luna, coman­dante dell’esercito, ampia autor­iz­zazione scrit­ta ad «eseguire quan­to avesse potu­to fare pel meglio del­la causa bor­bon­i­ca», autor­iz­zazione che, però, a Venafro, sarebbe sta­ta di molto ridi­men­sion­a­ta dal mag­giore Liguori che l’avrebbe lim­i­ta­ta al solo «dirit­to di arruo­lare gente per le truppe a massa».

Forte di questo incar­i­co Domeni­co­tor­na nel­la sua ter­ra deciso ad eseguire fedel­mente il manda­to rice­vu­to. La pre­sen­za del­la sua ban­da èseg­nala­ta a Rionero San­niti­co la sera del 2 otto­bre quan­do scop­pia «una triste reazione ani­ma­ta da una quan­tità di pes­si­mi cit­ta­di­ni i quali al gri­do di ‘viva Francesco II’ com­in­cia­rono a fare arresti arbi­trari, sac­cheg­gia­re case, dis­ar­mare il pos­to di Guardia e com­met­tere altri cri­m­i­ni, onde ripristinare il gov­er­no del Borbone.»

Due giorni dopo, il 4 otto­bre la ban­da Coja è a Scapoli dove, obbli­gati «i galan­tuo­mi­ni a con­tribuire alla ques­tua», viene solen­niz­za­ta la fes­ta di re Francesco «in occa­sione del giorno ono­mas­ti­co». Poi si andò nel­la casa comu­nale «per lac­er­are l’atto di ade­sione fat­to dal Comune al Gov­er­no Dit­ta­to­ri­ale, che per­al­tro non ebbe luo­go» e, quin­di, pre­so «il procla­ma del Gen­erale Garibal­di e por­ta­to­lo in piaz­za fu dis­trut­to a colpi di fucilate». Si pre­tende, quin­di, l’elezione di nuovi ammin­is­tra­tori comunali.

Sem­pre il 4 otto­bre la ban­da di Domeni­co Coja viene seg­nala­ta anche a Roc­chet­ta a Volturno per spal­leg­gia­re la riv­ol­ta pro­mossa da quel­li del luo­go. Tra gli obi­et­tivi c’è il sac­er­dote don Gia­co­mo De Iuli­is il quale poi, tra l’altro, dichiar­erà «alla gius­tizia» che dal suo nascondiglio «sen­ti­va le voci di diver­si pae­sani nonché quel­la del famiger­a­to Domeni­co Coja che coman­da­va quel­la ban­da infame» i quali, tra l’altro, si ram­mar­i­ca­vano per non aver­lo potu­to catturare.

Stan­do, invece, a ciò che scrive la Rufo, era «la plebe» che «sac­cheg­gia­va la casa di De Iuli­is e seques­tra­va sei lib­er­ali. Giunse Cen­tril­lo con la sua ban­da, fece lib­er­are i seques­trati ed impedì sac­cheg­gi e stra­gi», tesi ques­ta sostenu­ta anche da De Filippis.

Per il tem­po a venire, su Coja e la sua ban­da non ci sono notizie. Si seg­nala, piut­tosto, un’intensa attiv­ità delle forze dell’ordine nei luoghi da essa soli­ta­mente frequentati.

A segui­to del­lad­is­fat­ta subi­ta dai bor­boni­ci sul Macerone (20 otto­bre 1860) ad opera del gen­erale Cial­di­ni, è prob­a­bile che Domeni­co Coja abbia fat­to di nuo­vo una cap­ati­na a Gae­ta da dove sarebbe tor­na­to il 6 novem­bre. Dopo aver pas­sato un paio di giorni nel­la sua casa di Castel­n­uo­vo, in atte­sa di tem­pi migliori avrebbe prefer­i­to riti­rar­si sulle Mainarde dove il suo rifu­gio era cos­ti­tu­ito da una grot­ta sit­u­a­ta nel luo­go det­to ‘pietre delle Mainarde’ ed oggi nota come ‘la grot­ta di Centrillo’.

Dopo una assen­za di un paio di mesi, la ban­da Coja ritor­na in sce­na l’11 gen­naio 1861 con un attac­co a Castel­n­uo­vo, San Vin­cen­zo e Castellone.

A Castel­n­uo­vo, gli obi­et­tivi sono le abitazioni dei Grande e quel­la di Domeni­can­to­nio Bas­tone che, però, da tem­po han­no cam­bi­a­to aria. Le case di cos­toro ven­nero occu­pate ed i mobili get­tati dalle finestre, cosa, ques­ta, che impau­rì non poco la sig­no­ra Grande che, però, venne tran­quil­liz­za­ta da Coja in per­sona. Si dirà poi che, se degen­er­azioni c’erano state, queste era­no da imputar­si solo ad alcu­ni infil­trati e che Domeni­co Coja si sarebbe dato molto da fare per lim­itare l’azione distruttrice.

È quin­di la vol­ta di S. Vin­cen­zo, dove viene assal­i­to la masse­ria dei fratel­li Francesco e Leopol­do Catrac­chia, e poi di Castel­lone dove la ban­da «in su le prime atter­rò le porte del carcere Man­da­men­tale estraen­done i detenu­ti e men­tre obbli­ga­vano cos­toro a seguir­la», si dirige­va alla casa del giu­dice barone Lui­gi Coc­co sot­to­po­nen­dola a dev­as­tazione e sac­cheg­gio. Lo stes­so veni­va fat­to per quelle delle prin­ci­pali famiglie lib­er­ali né rimase esente di atten­zione la stes­sa ‘Regia Gius­tizia’ il cui can­cel­liere, Andrea Pri­nari, rac­con­terà che, appe­na saputo dell’invasione da parte del­la ban­da arma­ta del «famiger­a­to Domeni­co Coja», «corse imman­ti­nente nel­la can­cel­le­ria del regio giu­di­ca­to ove fret­tolosa­mente radunò tut­ti i pro­ces­si a cari­co del det­to Coja e por­tan­doli in sua casa li nascose nel­la soffitta».

Nei giorni imme­di­ata­mente suc­ces­sivi a finire nel miri­no sarebbe Roc­chet­ta al Volturno e, in par­ti­co­lare, le case dei fratel­li Giambat­tista e Gia­co­mo de Juli­is, e quin­di Viti­cu­so, «ove per la resisten­za di alcu­ni a ver­sare una taglia di tran­si­to», la ban­da «sac­cheg­giò la Cas­sa di Benef­i­cen­za». A seguire, Acqua­fon­da­ta e Casal­cassi­nese, dove sarebbe sta­ta dis­ar­ma­ta la guardia nazionale ed «abbat­tuti gli stem­mi dei Savoia» e, infine, Cardito.

La suc­ces­si­va azione del­la ban­da avviene sei mesi dopo, nel­la notte tra il 10 e l’11 luglio con l’irruzione nel comune di Vallero­ton­da: bot­ti­no alcune decine di fucili e rel­a­tive car­tuc­ce. A guidar­la, però, c’è un uomo di Coja, Michele Di Meo. Domeni­co, come un paio di giorni dopo scriverà il giu­dice di Cer­varo Orazio Lanzetta, «non si portò in Vallero­ton­da ma attese il ritorno dei suoi in Cardi­to». Pare, comunque, che egli sia anda­to in paese con alcu­ni uomi­ni il pomerig­gio del 10 dove avrebbe prete­so una buona scor­ta di pane, del cacio e del vino nonché denari e qualche fucile, di tut­to rilas­cian­do rego­lare rice­vu­ta. In comune, poi, inchi­natosi al cospet­to dell’immagine di Vit­to­rio Emanuele aff­is­sa in una sala e, toltosi il capel­lo, avrebbe det­to: «Un re è sem­pre un re!».

Un assalto al comune di Mon­ten­ero Val Coc­chiara nel­la notte fra il 26 e il 27 agos­to 1861 con­clud­erebbe l’attività del­la ban­da di Domeni­co Coja che¸ dopo una trasfer­ta sull’Appennino abruzzese (Civitel­la Alfe­de­na, Bar­rea, Vil­let­ta Bar­rea), è costret­ta a smem­brar­si anche per­ché lo stret­to con­trol­lo dell’intero set­tore delle Mainarde da parte delle forze di polizia con­sigliano che sarebbe sta­to meglio dedi­car­si ad altro. Né era pos­si­bile, sem­mai lo fos­se sta­to, un’eventuale fusione con altre bande, ad esem­pio quel­la di Chi­avone, per­ché, scrive De Fil­ip­pis, Domeni­co Coja non si fida­va del brig­ante del­la Sel­va di Sora rite­nen­do­lo «infi­do, vio­len­to ed assas­si­no… Né era nel carat­tere di Cen­tril­lo alcu­na dis­po­sizione a sot­tomet­ter­si o a dipen­dere da altri.»

Date le cir­costanze, dunque, Domeni­co Coja preferì andare a svernare a Roma incap­pan­do, ver­so la fine del 1861, nei france­si che pri­ma lo arrestarono e poi lo con­seg­narono agli italiani.

A dicem­bre di tre anni dopo era anco­ra rinchiu­so nel carcere napo­le­tano di Castel­ca­puano quan­do (8 dicem­bre 1864) il diret­tore delle carceri scrive­va al prefet­to di quel­la provin­cia che era­no ormai «oltre trenta mesi», quin­di dal­la metà del 1862, che Domeni­co Coja è «qui gia­cente sen­za che anco­ra sia deciso da qual Corte deb­ba essere giu­di­ca­to». Qualche giorno dopo (16 dicem­bre), la Corte d’Appello di Napoli risponde che ciò è dipeso dal numero dei «pro­ced­i­men­ti pen­den­ti rel­a­tivi a moltissi­mi accusati, fra quali il Coja», cosa che ren­derebbe dif­fi­cile definirne la competenza.

Si decide, quin­di, che il proces­so dovrà svol­ger­si «pres­so il cir­co­lo di assise» di San­ta Maria Capua Vet­ere sedente in Cassino.

Inizia­to il 22 set­tem­bre, il proces­so si con­clude il 19 otto­bre 1865 con l’assoluzione di Domeni­co Coja e di alcu­ni del­la sua ban­da: insom­ma, una sen­ten­za che fece scal­pore e scan­da­lo e gen­erò clam­ore sia sul­la stam­pa che in parlamento.

Ritenu­ti come politi­ci i reati ascrit­ti, chi li ave­va commes­si fruì dunque dell’indulto sovra­no. Ma forse si con­sid­erò anche che, all’infuori delle azioni com­piute a Vallero­ton­da ed a Mon­ten­ero Val Coc­chiara (luglio e agos­to 1861), le prece­den­ti si era­no svolte in un ter­ri­to­rio che non era anco­ra reg­no d’Italia. In sede proces­suale, poi, lo stes­so Coja, nel difend­er­si dalle accuse che gli veni­vano mosse, dichiar­a­va che non sem­pre era lui a guidare certe spedi­zioni ben­sì un ex uffi­ciale del dis­ci­olto eserci­to bor­bon­i­co che si face­va chia­mare ora tenente Neri, ora tenente Bot­ta. Anzi, met­te­va in evi­den­za che lui, spes­so, si era dato da fare per lim­itare i danni.

In buona sostan­za, la figu­ra di Domeni­co Coja, sec­on­do Olin­do Iser­nia (Carat­ter­is­tiche e com­po­sizione sociale del­la ban­da di Domen­cio Coja, det­to Cen­tril­lo (1860–1861). In Riv­ista stor­i­ca di Ter­ra di Lavoro. N. 2. 1978), «si potrebbe assim­i­lare, per tan­ti aspet­ti, a quel­la, tipi­ca, del capo-popo­lo, capace però di asten­er­si da qual­si­asi gra­tu­ito ecces­so». Uno, insom­ma, che pare avesse «un istin­ti­vo bisog­no di oppo­sizione a qual­si­asi for­ma di potere cos­ti­tu­ito del­lo Stato».

Una sor­ta di Robin Hood, insom­ma, che ruba a chi ha per dare a chi non ha.

Del resto non è un caso che di lui par­li bene anche uno come Alessan­dro Bian­co di Saint Jori­oz nel suo libro Il brig­an­tag­gio alla fron­tiera pon­ti­f­i­cia dal 1860 al 1863(Milano 1864). L’ufficiale piemon­tese arri­va addirit­tura a scri­vere di Coja che «fu capoban­da ani­mo­sis­si­mo ed oper­oso, molto ardi­to nelle sue oper­azioni, amante dei colpi strepi­tosi ed inaspet­tati, mar­ci­a­tore inde­fes­so e manovra­tore esper­tis­si­mo (…) Arrecò dan­no ai popoli sen­za però aver mai ver­sato il sangue per trac­u­len­za d’animo e feroc­ità di carat­tere, anzi fu buono il più delle volte».

Con­clusa la lun­ga vicen­da giudiziaria, Domeni­co Coja «si ritirò tra i suoi mon­ti [e] si dedicò per molto tem­po alla vita campestre e alla pas­tor­izia». Poi, ripresa l’antica attiv­ità di com­mer­ciante di cere­ali, sarebbe sta­to nom­i­na­to sin­da­co di Castel­n­uo­vo e, forse, sarebbe sta­to anche ‘col­lab­o­ra­tore di gius­tizia’. Infat­ti, in una qui­etan­za da lui sot­to­scrit­ta in data 20 novem­bre 1868 si legge«di aver rice­vu­to dal sot­to­prefet­to di Iser­nia lire due­cen­to per pre­mio e spese da me sostenute per la pre­sen­tazione del brig­ante Nico­la Paone di Vin­cen­zo di Scapoli».

Trovan­dosi in Fran­cia, evi­den­te­mente dopo il 1870, si rac­con­ta incon­trasse a Pari­gi Francesco II di Bor­bone che, dopo l’esilio romano, si sposta­va tra la cap­i­tale francese e Vien­na, il quale pare lo rim­proverasse affet­tu­osa­mente per aver­lo ‘tra­di­to’. Ma Domeni­co gli fece capire che bisog­na­va pur vivere mer­i­tan­dosi cosi il dono di alcu­ni marenghi che, tor­na­to a Castel­n­uo­vo, avrebbe uti­liz­za­to per aprire un negozio in piaz­za Roma, una sor­ta di bazar con annes­sa can­ti­na, poi suc­ce­du­tosi di padre in figlio e tut­to­ra in attiv­ità. Un’epigrafe ne tes­ti­mo­nia l’origine: ‘A[nno]. D[omini] 1886 D[omenico]. C[oja].’

Morì diver­si anni dopo, forse nel 1903, «con 6.000 lire di debiti»tant’è che «il figlio Gio­van­ni dovette emi­grare in Amer­i­ca per guadagnare la som­ma ed estinguere il tutto».

 

© Costan­ti­no Jadeco­la, 2013.

 

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