AQUINO, L’ARCO SEMISOMMERSO

Dedicato a Valeria
Antonio era a Cassino. E qui, nella villa di Marco Terenzio Varrone fraudolentemente occupata, conduceva un genere di vita che, alcuni secoli dopo, in termini estremamente semplificativi, sarebbe stata definita «dolce».
L’occasione della presenza nella zona dell’amante di Cleopatra, che era oltretutto un grosso personaggio politico c militare, spinse ovviamente i cittadini dei centri limitrofi a ripetute visite di cortesia. Ma per quanto cortesi esse fossero non furono per niente gradite dal «nostro», distratto, com’era, da quelli che erano i motivi di fondo dei suoi ozi cassinati.
Anche una delegazione di Aquinati fu tra quelle accolte in malo modo. Tuttavia questi, dimentichi ben presto della scorrettezza subita, non esitarono a tributare ugualmente fastosi onori ad Antonio che, una volta soddisfatto del soggiorno cassinate, per la via Latina si accingeva a tornare a Roma.
Ed in una notte, a cavallo di quella strada, poco fuori dell’abitato sud di Aquino, eressero un arco di trionfo di eccellente fattura artistica ed architettonica che il personaggio cui esso era dedicato, sebbene essenzialmente dedito a ben altri tipi di bellezze, ne rimase fortemente incantato tanto da scusarsi con gli Aquinati per la scorrettezza ad essi riservata qualche giorno prima.
Cicerone, che come è noto non aveva in gran simpatia Antonio, annotò: «…Casino salutatum veniebant, Aquino, Interamna: ad missus est nemo… Cum inde Romam proficiens ad Aquinum accederet, obviam ei processit, ut est frequens municipium, magna sane multitudo, et iste operta lectica latus per oppidum est ut mortuus. Stulte Aquinates; sed tamen in via habitabant!» (Philipp. II. 41).
Pur essendo convinto che il popolo riservi i più grossi onori proprio a coloro i quali calpestano più prepotentemente gli altrui diritti — è un male di sempre — non ritengo debba darsi molto credito alla storia dell’arco eretto in una notte, tutto sommato una graziosa favoletta alimentata dalla sempre fervida fantasia popolare ben felice di averle potuto dare un fondamento di validità interpretando abbastanza liberamente la citata frase dell’Arpinate.
Che essa, invece, si riferisca alle feste fatte dagli Aquinati in occasione del passaggio di Antonio, è forse cosa più veritiera.
D’altro canto, ove gli Aquinati effettivamente avessero realizzato l’arco nel volgere di una notte, ritengo che l’ira di Cicerone verso di loro sarebbe andata molto più lontana di un semplice «Stulte Aquinates» e senza la giustificazione del «sed tamen in via habitabant!»
L’origine dell’arco del quale intendo parlare è evidentemente diversa, anche se ignorata, come pure è ignorato il fatto se esso fosse un vero e proprio «arco di trionfo» e non, invece, un monumento avente tutt’altra destinazione.
Un tal genere di supposizione viene fatta da Eliseo Grossi che scrive: «Questo avanzo (l’arco, nda) trovasi fuori le mura, su d’un rialzo dominante la via Latina, la quale passava lì sotto, volgendo poi a destra per proseguire verso Cassino. Ora si comprende benissimo che si sia edificato un arco di trionfo fuori le mura, ma non si riesce a comprendere la ragione per la quale sia stato scelto un sito fuor di mano c quasi nascosto a quelli che passavano per la via Latina.
«Per osservare questo monumento bisognava recarsi proprio lì sul posto e col deliberato proposito, ma siccome gli archi trionfali non erano costruiti per tenerli nascosti, ci pare più probabile l’ipotesi che sia questo l’avanzo di un Nynphaeum annesso forse alle terme, che non dovevano mancare in una città come Aquino, che era per giunta così ricca di acque»[1].
Pur non mettendo per niente in dubbio la validità dell’ipotesi secondo cui delle terme si sarebbero trovate nella zona prossima all’arco – del resto, avanzi di vasche e di condutture di piombo sono state localizzate in quel luogo – che, non dimentichiamo, è strettamente prossimo alla Chiesa della Madonna della Libera, all’epoca cui ci riferiamo tempio pagano dedicato ad Ercole liberatore o, addirittura, necropoli, pur aderendo in qualche modo alla citata ipotesi, dicevo, non posso esimermi dal far rilevare un grosso infortunio capitato al Grossi, all’inizio del secolo, e ad alcuni suoi grossolani plagiari, successivamente.
Egli, difatti, ci tiene tanto a sottolineare il fatto che l’arco sorgeva fuor di mano, «su d’un rialzo dominante la via Latina» e «quasi nascosto a quelli che passavano per la via Latina» da dimenticare, stranamente in verità, che l’arco era a cavallo proprio della via in questione, cosa generalmente nota e, d’altro canto, autorevolmente definita dal prof. Michelangelo Cagiano de Azevedo, il più illustre e profondo studioso di cose aquinati.
Che il Grossi sia rimasto frastornato dal fatto che ai suoi tempi, come oggi, del resto, l’arco era a cavallo del torrente «Lcsognc» è cosa poco credibile, trattandosi di studioso valoroso e che certamente non ignorava che intorno al XIII secolo le acque del torrente in questione, che prima scendevano ad alimentare il maggiore dei tre laghi aquinati a sud dello stesso, non lontano dalla ferrovia Roma-Napoli, furono deviate e incanalate, per un certo tratto, sulla via Latina, proprio dove questa era onorata dalla presenza della magnifica costruzione.
Sebbene le proporzioni dell’arco siano modeste, non così è il suo aspetto che studiosi come il Romanelli, lo Huelsen, il Bartoli, il Cagiano de Azevedo e, a suo tempo, Giuliano da Sangallo hanno finito col riconoscere come uno dei più armoniosi esempi dell’architettura augustea, epoca alla quale lo si fa appunto risalire.
Posto dunque sulla via Latina, forse al limite della zona del pomerio della romana Aquinum, l’arco è, come ho detto, poco discosto dalla mole romanica del tempio voluto da Maria e Ottolina dei Conti di Aquino ed a sinistra della stessa, guardando la facciata.
Il luogo e appartato e quasi deserto. E l’arco si erge solitario fra un campo erboso, al limitare di siepi e di qualche pianta da frutto, nel cui mezzo scorrono veloci le acque del «Lesogne».
Le sue attuali, miserevoli condizioni non consentono uno studio approfondito particolarmente sugli elementi di base e quelli architettonici del coronamento che si ritiene siano precipitati nell’acqua. Essa, infatti, «ne nasconde le eleganti proporzioni per almeno due terzi, lasciandolo scoperto dall’imposta del fornice ai capitelli delle semicolonne esterne»[2].
Ma tali condizioni non sono di oggi. Già dal XIII secolo, evidentemente, quando l’acqua fu incanalata nel fornice dell’arco, incominciarono lentamente a maturarsi i presupposti perché esso, prima o poi, venisse semisommerso. E lo stesso Giuliano da Sangallo (1445–1516), che al tempo in cui lavorava nella vicina abbazia di Montecassino lo disegnò nel suo Taccuino senese, dovette probabilmente vederlo nelle medesime condizioni attuali.
E tale disegno, ma, più che di un disegno, trattasi di uno schizzo, è comunque risultato estremamente utile nello studio del monumento unitamente ai ruderi rimasti.
Come ho accennato, l’arco è a un solo fornice che si sviluppa da colonne di ordine ionico inquadrate in un complesso architettonico a timpano di ordine corinzio.
«Il fornice — scrive Cagiano de Azevedo — con una luce di m. 3.70, non poggia direttamente tulle quattro semicolonne ioniche angolari, bensì su di una mensola che corre su di ogni lato del passaggio, da colonna a colonna. L’archivolto del fornice è dato da una sola fila di blocchi a forma di cuneo, privi di qualsiasi cornice nel lato esterno. Strettamente addossate alle colonne minori sono le colonne corinzie che reggono l’epistilio tangente all’archivolto: esse sono due per ciascun angolo, con i capitelli addossati.
«Il disegno del Sangallo mostra come l’epistilio di questo ordine esterno fosse leggermente aggettante, a tre cornici, e come su di esso corresse un fregio liscio, sul quale poggiava un semplice ed elegante timpano triangolare»[3].
La fronte dell’arco misura m. 6,10 ed i fianchi misurano m. 1.70. Del basamento si ignora ogni cosa, nascosto com’è dalle acque e dalla folta vegetazione. La costruzione è realizzata nella consueta pietra locale, a grossi blocchi, accuratamente squadrati e adagiati l’uno sull’altro senza calce mentre i vari tamburi di ogni coppia di colonne sono ricavati dal medesimo blocco che spesso occupa tutto il fianco dell’arco.
Questo e. dunque, l’arco un tempo onorario, oggi semisommerso, di Aquino.
Innalzato forse per celebrare il passaggio di Marc’Antonio o chissà per cos’altro, potrebbe, in ultimo, anche non interessare. Quel che conta, invece, è che esso, pur essendo una delle più pregevoli testimonianze tramandatesi della romana Aquinum, resti abbandonato a se stesso dall’incuria degli uomini, pur tuttavia ancor oggi impegnati a costruire altri archi di trionfo per altri Marc’Antonio.
E sarà forse il fatto che al giorno d’oggi si cerca avidamente di cancellare ad ogni costo ogni traccia del passato più o meno recente che spinge gli uomini ad abbandonare a se stesso un arco che, al confronto di quelli di cartapesta eretti ai tempi nostri, potrebbe apparire come termine di paragone fortemente impegnativo.
© Costantino Jadecola, 1972 Strenna Ciociara
[1] Eliseo GROSSI, Aquinum. Ermanno Loeschcr & C., Roma, 1907, pag. 88.
[2] Michelangelo CAGIANO DE AZEVEDO, Aquinum. Istituto di Studi Romani Editore, Roma, 1949, p. 44.
[3] Idem, p. 45.