A ISOLETTA, UNA VOLTA, C’ERA UN CASTELLO.

A ISOLETTA, UNA VOLTA, C’ERA UN CASTELLO.

Il ter­zo mil­len­nio era inizia­to da alcu­ni mesi quan­do, nel cor­so dei lavori con­nes­si alla real­iz­zazione del­la fer­rovia per i treni ad alta veloc­ità, nell’approccio con l’area des­ti­na­ta ad ospitare una vari­ante alla statale 82 del­la Valle del Liri, altri­men­ti nota come Civi­ta Far­nese, che avrebbe evi­ta­to il traf­fi­co nell’abitato di Iso­let­ta, emersero le strut­ture di base di quel­lo che era sta­to sino a ses­santac­inque anni pri­ma una impo­nente strut­tura vol­gar­mente nota come “il palaz­zo” ma che, invece, van­ta­va non indif­fer­en­ti quar­ti di nobiltà per essere sta­to costru­ito con evi­den­ti fini strate­gi­ci a pro­tezione di un pas­sag­gio obbli­ga­to che lo face­vano dunque cat­a­log­a­re piut­tosto come castello.

Pos­to a mar­gine del fiume Liri, in prossim­ità del ponte che mette in col­lega­men­to le due sponde, un tem­po dominio di una “scafa”, e a un tiro di schiop­po dal­la con­fluen­za delle acque del Sac­co, il suo sito è grosso modo oggi local­iz­z­abile, per chi proviene da San Gio­van­ni Incar­i­co, all’imbocco del­la gal­le­ria ovvero alla sua usci­ta per chi, invece, proviene da Ceprano. 

Un’occasione, insom­ma che non può non sti­mo­lare di immag­inare la situ­azione al tem­po in cui l’edificio era anco­ra “in vita” ed il ponte era quel­lo fat­to costru­ire da Fer­di­nan­do II di Bor­bone a metà Otto­cen­to, nel con­testo del­la real­iz­zazione del­la Civi­ta Far­nese, carat­ter­iz­za­to, tra l’altro, dal­la pre­sen­za di quat­tro aper­ture per favorire il deflus­so delle acque del fiume in caso di piena la cui for­ma «è tut­ta nuo­va e spe­ciale, cioè quel­la del giglio Bor­bon­i­co, essendo l’estremità di cias­cun traforo, che è alto pal­mi 18 e del­la larghez­za mas­si­ma di pal­mi 14, rivesti­ta dall’una e dall’altra fronte del ponte da pezzi d’intaglio di pietra traverti­no maestrevol­mente lavorati». 

Poi arrivò la guer­ra, la Sec­on­da guer­ra mon­di­ale, e, il 25 mag­gio del ’44, ed i tedeschi in riti­ra­ta, nel rispet­to di una ele­mentare strate­gia bel­li­ca, non trovarono niente di meglio da fare che far­lo saltare in aria cer­can­do in tal modo di ritar­dare l’inseguimento degli alleati. 

Un bel bot­to che, tut­tavia, non scalfì il non lon­tano castel­lo ma solo per­ché, una deci­na di anni pri­ma, un «capo­mas­tro mura­tore» che neces­si­ta­va di pietre ave­va pen­sato bene di uti­liz­zare quelle del castel­lo antic­i­pan­do così i tedeschi, ovvero toglien­do loro la sod­dis­fazione di distruggerlo. 

Può sem­brare stra­no ma andò pro­prio così: un castel­lo dis­trut­to non da un even­to bel­li­co, come qua­si sem­pre capi­ta, ma da un mura­tore in cer­ca di pietre. 

Per­al­tro, quan­do si conob­bero le inten­zioni del «capo­mas­tro mura­tore», ovvi­a­mente la cosa sus­citò indig­nazione e proteste non solo tra la popo­lazione locale. Ma a nul­la valsero. Come a nul­la valse il man­ca­to “nul­la osta” del­la Sovrin­ten­den­za alle Anti­chità e Belle Arti che, «oppor­tu­na­mente inter­es­sa­ta», dichiar­a­va «essere l’edificio di grande inter­esse stori­co e artis­ti­co» Quiri­no Zan­ot­ti, questo il nome del demoli­tore, fre­gan­dosene di tut­to e di tut­ti, sec­on­do un dif­fu­so cos­tume del tem­po — “Me ne frego!”, un clas­si­co — com­pì la nefas­ta inizia­ti­va assi­cu­ran­dosi così un pos­to nel­la storia. 

Quan­to alle pietre, pare che gran parte di esse siano state «riu­ti­liz­zate nel­la real­iz­zazione del­la mas­s­ic­cia­ta del­la vari­ante del­la via Casili­na, costru­i­ta pro­prio in quegli anni, insieme con un nuo­vo ponte sul Liri, per evitare l’attraversamento del cen­tro di Cepra­no men­tre altre sareb­bero state usate per erigere «il muro che sor­regge il can­cel­lo che dà acces­so al super­bo viale di cipres­si che con­duce alla vil­la ex-Fer­rari dal­la via Casili­na, in prossim­ità di Ceprano.

Del castel­lo fat­to costru­ire da Leonar­do del­la Rovere e poi demoli­to alcu­ni sec­oli dopo da Quiri­no Zan­ot­ti, a parte alcu­ni reper­ti emer­si durante i lavori  di cui si è det­to all’inizio, ci è per­venu­ta tes­ti­mo­ni­an­za solo attra­ver­so qualche raris­si­ma immag­ine fotografi­ca che tes­ti­mo­nia appun­to la sua felice posizione strate­gi­ca che assi­cu­ra­va il con­trol­lo di un impor­tante pas­sag­gio sul Liri. 

L’edificio, essendo in prossim­ità del con­fine con lo Sta­to pon­tif­i­cio, anche dopo la procla­mazione del Reg­no d’Italia (1861), è ogget­to di par­ti­co­lare atten­zione da parte dei Bor­bone tant’è che Fer­di­nan­do II lo fece rin­forzare «con quat­tro mas­s­ic­ce tor­ri mer­late, sulle quali fece piaz­zare dieci can­noni a dife­sa del­la con­tin­ua minac­cia di inva­sione da arte del vicinis­si­mo Sta­to pon­tif­i­cio col quale, pur con­ser­van­do ottime relazioni, il pru­dente Sovra­no preferi­va restare sem­pre in posizione difen­si­va per qual­si­asi even­tuale irruzione nel suo territorio».

Tra l’altro, il castel­lo sarà teatro, l’11 novem­bre 1861, di un vio­len­to scon­tro tra i sol­dati piemon­te­si che lo pre­sidi­a­vano ed una ban­da di cir­ca quat­tro­cen­to brig­an­ti capeg­gia­ta da Lui­gi Alonzi, alias Chi­avone, con­clu­sosi con la vit­to­ria di quest’ultimi che, alla fine, si impos­ses­sarono del­la strut­tura: bilan­cio del­lo scon­tro, otto sol­dati piemon­te­si e quat­tro brig­an­ti morti.

Con l’unificazione nazionale il castel­lo, per­sa la sua fun­zione strate­gi­ca, fu acquis­ta­to da un indus­tri­ale milanese, Francesco Com­pagnoni, che lo uti­liz­zò per deposi­tarvi il petro­lio che veni­va estrat­to dalle vicine miniere di San Gio­van­ni Incar­i­co. Poi, alla sua morte, gli ere­di decis­ero di dis­far­si del castel­lo cos­ic­ché l’edificio, dopo vari pas­sag­gi, finì per essere acquisi­to da Quiri­no Zan­ot­ti, il «capo­mas­tro mura­tore» che, nell’allucinate impoten­za delle fascis­tis­sime “autorità” del tem­po, legò per sem­pre il suo nome alla dis­truzione di una memo­ria che avrebbe potu­to essere una sig­ni­fica­ti­va tes­ti­mo­ni­an­za di una impor­tante pag­i­na di sto­ria del territorio.

© Costan­ti­no Jadeco­la, 2021.

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