LUIGI ANDREOZZI ULTIMO ATTO

LUIGI ANDREOZZI ULTIMO ATTO

Lui­gi Andreozzi vis­to da Lan­fran­co Materiale

Se a quel tem­po ci fos­sero sta­ti i gior­nali del­la sera, quei quo­tid­i­ani dif­fusi nel pomerig­gio nelle gran­di cit­tà fino a quan­do l’avvento del­la tele­vi­sione non ne decretò la fine, ebbene, se a quel tem­po ci fos­se sta­to a Roma un gior­nale del genere — la prin­ci­pale carat­ter­is­ti­ca era cos­ti­tui­ta dai grossi titoli ad effet­to “sparati” su nove colonne in pri­ma pag­i­na —  non è esclu­so che un cer­to giorno del­la fine di luglio del 1867 avrebbe  pro­pos­to, con l’evidenza di cui si è det­to, un tito­lo del genere: «Il brig­ante Andreozzi ucciso a Prosse­di». Dall’occhiello, ovvero quel rigo che pre­cede il tito­lo, si sarebbe saputo che «autori del clam­oroso gesto sono sta­ti i gen­dar­mi pon­tif­i­ci al coman­do del sot­tote­nente Bar­toli­ni» men­tre il sot­toti­to­lo avrebbe a sua vol­ta for­ni­to ulte­ri­ori, indis­pens­abili infor­mazioni: «Oltre il tris­te­mente noto capo ban­da orig­i­nario di Pas­te­na in Reg­no, autore di almeno 59 omi­ci­di nonché di stupri, fer­i­men­ti, fur­ti e ricat­ti, analo­ga sorte han­no subito tre suoi sub­al­terni, tra cui il fratel­lo Toma­so; altri due, invece, sono sta­ti trat­ti in arresto». Quan­to al resto, ovvi­a­mente, «tut­ti i par­ti­co­lari in cronaca».

Abbi­amo notizia da Frosi­none — il “pez­zo” avrebbe sicu­ra­mente avu­to questo “incip­it” — che nel­la notte tra giovedì 25 e ven­erdì 26 scor­so a Prosse­di, un cen­tro abi­ta­to non lon­tano dal capolu­o­go cio­cia­ro, le truppe pon­ti­f­i­cie si sono rese pro­tag­o­niste di una bril­lante oper­azione di polizia che si è con­clusa con l’uccisione di uno dei più fero­ci brig­an­ti che negli ulti­mi anni ha infes­ta­to il ter­ri­to­rio del­la fron­tiera tra il mar Tir­reno e l’agro sora­no e di alcu­ni suoi con­niven­ti: si trat­ta di Lui­gi Andreozzi, 27 anni, orig­i­nario di Pas­te­na, un comune del­la provin­cia di Ter­ra di Lavoro nel Reg­no d’Italia; con lui sono rimasti uccisi il fratel­lo Toma­so, Gio­van­ni Abbate­co­la e Gio­van­ni Notarangeli men­tre sono sta­ti trat­ti in arresto e subito tradot­ti nelle carceri del­la roc­ca di Cec­ca­no Vin­cen­zo Mag­a­li e Pao­lo Tur­co, un bersagliere orig­i­nario di Lec­ce che da qualche tem­po si era dato al brigantaggio.

L’operazione, pre­dis­pos­ta dal mag­giore Leopol­do Lau­ri, da un paio di anni respon­s­abile delle attiv­ità final­iz­zate a reprimere il brig­an­tag­gio nelle province di Marit­ti­ma e di Cam­pagna, è sta­ta mate­rial­mente con­dot­ta dal sot­tote­nente Car­lo Bar­toli­ni che si è avval­so degli uomi­ni del­la sua colon­na mobile, di quel­li del­la gen­darme­ria di Pis­ter­zo coman­dati dal vice brigadiere Cesare Miari nonché del­la briga­ta dei cac­cia­tori di stan­za a Prosse­di gui­dati dal mares­cial­lo Lui­gi Cacciari.

Era da cir­ca due mesi che Lui­gi Andreozzi col­lab­o­ra­va con le forze gov­er­na­tive nel­la repres­sione del brig­an­tag­gio a segui­to di un accor­do in base al quale avrebbe offer­to tale suo con­trib­u­to per un peri­o­do di tem­po non supe­ri­ore ad un anno; in cam­bio, avrebbe ben­e­fi­ci­a­to, insieme ai suoi, del per­dono totale, dell’amnistia per i reati commes­si e del­la pos­si­bil­ità di pot­er­si quin­di sta­bilire, ulti­ma­to il peri­o­do di col­lab­o­razione,  in un paese del­la provin­cia di Frosinone. 

Affida­to insieme ai suoi alla colon­na mobile coman­da­ta dal sot­tote­nente Bar­toli­ni, l’unica oper­azione che gra­zie al suo aiu­to si era potu­ta com­piere era sta­ta quel­la che ave­va por­ta­to all’uccisione del feroce capoban­da Maz­za. Poi, però, il man­ca­to rag­giung­i­men­to di altri obi­et­tivi ave­va con­tribuito a ren­dere sem­pre più conc­re­ta l’ipotesi che Andreozzi si stesse ricre­den­do di quel suo “pen­ti­men­to” e, di con­seguen­za, stesse covan­do in cuor suo l’idea di tornare all’antico “mestiere”; d’altro can­to, sarebbe anche emer­so che l’uccisione del Maz­za era da met­ter­si in relazione ad una rec­i­p­ro­ca antipa­tia fra i due e che il brig­ante di Pas­te­na ave­va approf­itta­to di quel­la sua par­ti­co­lare “pro­tezione” per elim­inare l’antagonista.

La deci­sione di pre­venire un even­tuale ripen­sa­men­to da parte del brig­ante ma soprat­tut­to  l’orientamento del gov­er­no pon­tif­i­cio, che sem­br­erebbe deciso a far­la fini­ta una vol­ta per tutte con il brig­an­tag­gio, sareb­bero all’origine dell’operazione di polizia su cui si riferisce e che ha avu­to come sce­nario la locan­da Iori, la cosid­det­ta “Oste­ria di Prosse­di”, ubi­ca­ta sul­la via Marit­ti­ma non lon­tano dal cen­tro abi­ta­to e poco dis­cos­ta dal­la bel­la fontana fat­ta costru­ire da Papa Benedet­to XIII nel 1727. Pro­prio qui, quel­la notte, era­no ospi­tati, insieme ad alcu­ni mil­i­tari, Andreozzi ed i suoi com­pag­ni tranne l’ex bersagliere Pao­lo Tur­co il quale, nel cli­ma di col­lab­o­razione con le forze dell’ordine, con­sol­ida­to da almeno due mesi di con­viven­za, ave­va deciso di pas­sare la notte nel­la caser­ma del­la briga­ta dei cac­cia­tori: per forza di cose, dunque, è sta­to il  pri­mo ad essere mes­so fuori gio­co anche se non è sta­to facile far­lo arren­dere all’evidenza dei fatti.

Una vol­ta “sis­tem­ato” il brig­ante Tur­co, il sot­tote­nente Bar­toli­ni rag­giunge­va la locan­da Iori per por­tar­si quin­di nel­lo stan­zone dove anche lui avrebbe dovu­to riposare: qui, rac­con­terà l’ufficiale, «in un let­to dormi­va solo l’Andreozzi Lui­gi, in altro l’Abbatecola col Notarangeli, nel ter­zo sta­va il Mag­a­li con l’Andreozzi Tom­ma­so, ma quest’ultimo, essendo di turno a veg­liare, passeg­gia­va conci­ta­to per la cam­era col fucile a ban­doliera ed il revolver in  pug­no»[1].

Il «let­tuc­cio» ris­er­va­to a Bar­toli­ni era in prossim­ità dell’unica fines­tra del locale, vici­no ad un tavo­lo. Ma il sottuf­fi­ciale non ne avrebbe fat­to uso pref­er­en­do met­ter­si a scri­vere; o, meglio, a far fin­ta di scri­vere. Così facen­do egli avrebbe avu­to un diret­to con­trol­lo del­la situ­azione ma avrebbe anche offer­to una suf­fi­ciente garanzia di tran­quil­lità al brig­ante incar­i­ca­to del turno di guardia suc­ces­si­vo a quel­lo che Toma­so Andreozzi sta­va com­pi­en­do per dis­toglier­lo dall’eseguire l’incombenza affi­datagli e, quin­di, far­lo restare a dormire: a vig­i­lare avrebbe provve­du­to lui stes­so come, del resto, tal­vol­ta era già accadu­to in pas­sato; oltre tut­to, c’erano ben cinque brig­an­ti a “vig­i­lare” su di lui. Dunque, di che preoccuparsi? 

«Gli sportel­li del­la mia fines­tra», rac­con­ta Bar­toli­ni, «dove­vano essere ermeti­ca­mente chiusi; al toc­co dopo la mez­zan­otte i sol­dati con­dot­ti dai grad­uati pian piano sareb­bero venu­ti ad appostar­si sot­to l’al­ber­go, dal­la por­ta del quale pri­ma di salire ave­vo tolto il chiavistello.

«Al momen­to oppor­tuno dove­vo aprire uno degli sportel­li  del­la fines­tra in modo che un rag­gio di luce del­la mia can­dela venisse proi­et­ta­to al di fuori.

«A quel seg­nale, men­tre una parte dei miei sol­dati sarebbe rimas­ta spie­ga­ta intorno il fab­bri­ca­to colle armi spia­nate pron­ti ad ogni eve­nien­za, 15 uomi­ni dove­vano salire cau­ta­mente per le scale, irrompere d’un trat­to nel­la cam­era, e sec­on­do le istruzioni chiare det­tagli­ate da me loro date in anteceden­za, lan­cia­r­si a pic­coli grup­pi di 3 sopra il brig­ante loro asseg­na­to, dis­ar­mar­lo e legar­lo. Io intan­to, col revolver in pug­no avrei tenu­to d’occhio l’operazione, ferma­mente deciso di bru­cia­re il cervel­lo al brig­ante che con una trop­po osti­na­ta resisten­za, avesse potu­to com­pro­met­tere il buon suc­ces­so dell’operazione.

«Per­suadere il Tom­ma­so d’an­dare a riposare, sarebbe sta­to fia­to e tem­po spre­ca­to, ma non cosi col Mag­a­li, che dove­va a sua vol­ta sur­rog­a­r­lo, e per il quale bas­ta­va solo un cen­no per­ché mi obbe­disse cieca­mente».

Un impre­vis­to rischia, però, di man­dare il piano in aria: intorno alla mez­zan­otte, infat­ti,  Toma­so Andreozzi, ulti­ma­to il suo turno di guardia, invece di andare a riposar­si esce dal­la stan­za. Bar­toli­ni, che ave­va nota­to nel com­por­ta­men­to del brig­ante qual­cosa di stra­no — «il suo con­teg­no, il suo fare agi­ta­to, alcune parole tronche che mor­mora­va men­tre passeg­gia­va con­vul­so per la cam­era, qua­si pre­sa­go del­la sorte che lo atten­de­va, chiaro dimostra­vano che ave­va serii sospet­ti” — non può fare a meno di seguir­lo. «Tom­ma­so, appi­at­ta­to poco dis­tante, cerca­va allon­ta­nar­si a pas­si furtivi per cor­rere ad avvis­are e sveg­liare i com­pag­ni. D’un bal­zo gli fui sopra”, rac­con­ta Bar­toli­ni, col­la destra l’afferrai per il col­lo, col­la sin­is­tra cer­cai turar­gli la boc­ca, men­tre con un abile colpo di ginoc­chio all’inguine lo feci stra­maz­zare in ter­ra. In un baleno gli piom­barono addos­so i sol­dati che lo imbavagliarono, lo legarono stret­ta­mente e lo trasci­narono via. 

«Sen­za perdere un istante, cor­rem­mo all’al­ber­go, e salite in men che si dice le scale irrompem­mo nel­la camera.

«I brig­an­ti sveg­liati di sopras­salto com­in­cia­rono a tirare colpi di fuo­co all’impazzata, ma i miei sol­dati cam­mi­nan­do car­poni schivan­do i colpi furono loro sopra. Nacque allo­ra una fiera e ter­ri­bile col­lut­tazione, a colpi di pug­nale, a cal­ciate di fucile e a colpi di revolver.

«Il Notarangeli cadde per il pri­mo fer­i­to, e nel men­tre cer­ca­va colpire col suo coltel­lo un solda­to, gli sfol­go­rarono il cranio con quat­tro o cinque colpi di cara­bi­na. L’Abbatecola, che rote­an­do il fucile come una maz­za ave­va mes­so a ter­ra due sol­dati, cade­va a sua vol­ta col­la gola squar­ci­a­ta, ed ucciso anche lui a schiop­pet­tate, a bruciapelo.

«Lui­gi Andreozzi, intan­to che io lo ave­va fer­i­to con due colpi di revolver, con uno sfor­zo dis­per­a­to si svin­colò dai due sol­dati che lo ave­vano affer­ra­to e mi si slan­ciò addos­so come una bel­va. Io ave­vo get­ta­to il revolver per­ché scari­co dei colpi da me esplosi, ed impug­na­to un grosso coltel­lo inglese da cac­cia, che ave­vo sem­pre al lato, gli menai con tut­ta forza tale un fend­ente da spac­car­gli il viso in modo che l’occhio sin­istro gli schiz­zò dall’orbita, e dal­l’im­mane feri­ta alla guan­cia si vede­vano le mas­celle scop­erte con i den­ti che scric­chi­ola­vano in un’estrema con­vul­sione. Il Mag­a­li, fu fat­to pri­gion­iero fer­i­to leg­ger­mente».

Toma­so Andreozzi, che era sta­to intan­to  trasfer­i­to nel­la caser­ma dove già si trova­va Pao­lo Tur­co, nonos­tante fos­se ammanet­ta­to e nonos­tante fos­se «guarda­to a vista da due sol­dati in una cam­era, quan­do questi meno se l’aspettavano, con uno slan­cio da gat­topar­do, balzò sul davan­za­le del­la fines­tra, e da quel­lo in stra­da. Alle gri­da ed ai due colpi che gli esplosero invano dietro i sol­dati che ave­van­lo in cus­to­dia accor­si», rac­con­ta Bar­toli­ni, « e vedu­to fug­gire il Tom­ma­so con i capel­li irti sul­la fronte, ruggen­do come una bel­va, gli esplosi nel lato sin­istro ambedue i colpi del mio Lefaucheux, e che lo resero cada­v­ere all’istante»; sec­on­do un’altra fonte, dopo di ciò, Bar­toli­ni gli avrebbe spac­ca­ta la tes­ta col cal­cio del fucile. 

Pao­lo Tur­co e Vin­cen­zo Mag­a­li, gli uni­ci due super­sti­ti, sono imme­di­ata­mente «tradot­ti alla Roc­ca di Cec­ca­no e rinchiusi in sep­a­rate seg­rete coi cep­pi ai pie­di»; i cadav­eri dei quat­tro brig­an­ti uccisi, invece,  ven­gono trasfer­i­ti in aper­ta cam­pagna in atte­sa degli accer­ta­men­ti del caso da parte di un medico. 

Il cal­do del­la sta­gione avrebbe impos­to di sep­pel­lire quei cor­pi con estrema urgen­za e sen­za ulte­ri­ori indu­gi. Ma il clero di Prosse­di si sarebbe rifi­u­ta­to di offi­cia­re i riti fune­bri per via di un prece­dente di Andreozzi e com­pag­ni i quali, pri­ma di “cos­ti­tuir­si”, «arma­ta mano, ave­vano costret­to un Sac­er­dote a cel­e­brare mes­sa, dicen­do che vol­e­vano comu­ni­car­si; invece, impos­ses­satisi delle par­ti­cole con­sacrate, prat­i­ca­ta una inci­sione sul­la cos­cia sin­is­tra, v’introdussero le dette par­ti­cole e fecero in segui­to cica­triz­zare la feri­ta. Così cre­de­vano che essendosi inoc­u­la­to il cor­po ed il sangue di Cristo, sareb­bero sta­ti invul­ner­a­bili!! ».

Se, in quan­to sac­ri­leghi, il clero non volle occu­parsene, anche l’autorità civile se ne sarebbe lava­ta le mani. Cos­ic­ché, se questo era l’esempio che veni­va dall’alto, anche i prossedani, spaven­tati, «mal­gra­do minac­cie e promesse di ricom­pen­sa», avreb­bero nega­to  la benché min­i­ma col­lab­o­razione: «i con­ta­di­ni di Prosse­di si rifi­u­tarono di prestar­si per il sep­pel­li­men­to, benché l’Ufficiale offrisse loro 100 lire; e non vollero nem­meno portare le zappe e le pale per scav­are la fos­sa. Per indurli ad ubbidire ne furono bas­to­nati alcu­ni, ma inutil­mente». 

Cos­ic­ché quei cadav­eri rimasero esposti alla luce del sole per almeno un paio di giorni. Poi, «annoia­to, volen­do far­la fini­ta», rac­con­ta Bar­toli­ni, «ordi­nai che for­ma­to una specie di rogo si bru­ci­assero». Ma «la cre­mazione riuscì incom­ple­ta, e gli avanzi infor­mi dei cadav­eri ter­mi­narono coll’essere pas­to di numerosi cani di pas­tori, che attrat­ti dal­l’odore del­la carne bru­ci­a­ta disce­sero al piano e ne fecero banchet­to».

La notizia dell’uccisione di Lui­gi  Andreozzi e degli altri brig­an­ti si dif­fonde «rap­i­da­mente, provo­cando i più variati com­men­ti. Alcu­ni fau­tori del brig­an­tag­gio — che pur trop­po ve n’erano — gri­darono alla vio­lazione dell’amnistia», scrive Bar­toli­ni, «e giun­sero perfi­no ad accusar­mi di effer­ra­ta bar­baria». Comunque, che lo Sta­to pon­tif­i­cio avesse muta­to atteggia­men­to nei con­fron­ti del brig­an­tag­gio appare piut­tosto evi­dente. Ovvi­a­mente a Bar­toli­ni giun­gono attes­ta­ti di sim­pa­tia e le con­grat­u­lazioni non solo di ami­ci e col­leghi ma anche quelle di alcu­ni uffi­ciali ital­iani «di stazione lun­go il con­fine», che, egli scrive, «meco si ral­legravano d’aver tolto dal mon­do una bel­va che di uomo ne ave­va solo le sem­bianze». 

Però, che le cose siano andate pro­prio così come lui ce le rac­con­ta, c’è da dubitarne. Del resto non è che ci voglia un grosso acume per capire che Bar­toli­ni non trascu­ra occa­sione per evi­den­ziare il suo cor­ag­gio, la sua astuzia ed anche la sua forza. 

Come pure non può tac­er­si che la fine di Lui­gi Andreozzi sia sta­ta per­fet­ta­mente in lin­ea con le effer­atezze da lui com­piute nel­la sua breve ma con­sis­tente vita brig­an­tesca: a suo cari­co, infat­ti, sareb­bero da ascri­vere una lun­ga serie di stupri, fer­i­men­ti, fur­ti, ricat­ti e ben 59 omi­ci­di di cui, evi­den­zia Bar­toli­ni, rimasero vit­time, fra gli altri, «non poche donne, fan­ci­ul­li, fan­ci­ulle, dopo aver­le scon­ci­a­mente ed in modo innom­inabile vio­len­tate».

Ma il delit­to forse  il più crudele di tut­ti è cer­ta­mente quel­lo che viene ricorda­to con grande rac­capric­cio come l’eccidio di Fontana di San­ta Croce dal nome del­la local­ità dove esso si con­sumò. Sem­bra che Andreozzi e quel­li tra i suoi com­pag­ni orig­i­nari di Pas­te­na avessero deciso di abban­donare la vita sci­agu­ra­ta sino allo­ra con­dot­ta: a ritenere ver­i­tiera ques­ta deci­sione ci furono alcu­ni autorevoli cit­ta­di­ni di Pas­te­na, tra cui il coman­dante del­la guardia nazionale, il dott. Raf­faele De Lel­lis, ed il seg­re­tario comu­nale, Anni­bale Grossi, i quali, pro­prio per con­cretiz­zare i ter­mi­ni del­la ques­tione, decis­ero di incon­trare Andreozzi e i suoi com­pag­ni a Fontana di San­ta Croce, una local­ità mon­tana ai con­fi­ni fra Pas­te­na e Cas­tro (dei Volsci), ovvero fra il Reg­no d’Italia e lo Sta­to pontificio.

Era l’alba del 19 luglio 1865 quan­do la del­egazione di paste­n­e­si com­pos­ta, oltre che dal De Lel­lis  e dal Grossi, dall’assessore facente fun­zione da sin­da­co, Gre­go­rio De Lel­lis, dal figlio diciot­tenne e dal fratel­lo del dott. De Lel­lis, Ana­cle­to e Lui­gi, e, poi, da Anto­nio De Fil­ip­pis, ser­gente del­la guardia nazionale e mae­stro del­la locale scuo­la ele­mentare, Giuseppe De Fil­ip­pis, Carmine Cor­pol­un­go e Pietro Car­roc­cia, rispet­ti­va­mente luo­gote­nente, ser­gente e milite del­la guardia nazionale di Pas­te­na volsero alla vol­ta di Fontana di San­ta Croce.

Ma non tut­ti giun­sero al luo­go dell’appuntamento: lun­go il cam­mi­no, infat­ti, Gre­go­rio De Lel­lis, dichiarò di essere impos­si­bil­i­ta­to a pros­eguire ulte­ri­or­mente per via di un mal­ore e fece ritorno a Pas­te­na; gli altri, invece, giun­ti a Fontana di San­ta Croce — dove , per­al­tro, avreb­bero dovu­to cel­e­brare la “ric­on­cil­i­azione” con un banchet­to per il quale ave­vano anche por­ta­to parte del nec­es­sario — ben­e­fi­cia­rono di un’accoglienza che al momen­to parve piut­tosto cor­diale ma che, invece, di lì a poco, repenti­na­mente, dopo che qual­cuno ave­va grida­to «tradi­men­to!», si trasfor­mò in una «zuf­fa» a con­clu­sione del­la quale rimasero sul ter­reno il seg­re­tario comu­nale Anni­bale Grossi e l’insegnante Anto­nio De Filippis. 

Per la lib­er­azione degli altri ostag­gi si chiedono ai famil­iari con­sis­ten­ti somme che, però, non è facile reperire per intero. Ciò che si riesce ad inviare evi­den­te­mente non sod­dis­fa le attese dei brig­an­ti se qualche tem­po dopo si appren­derà che i sei “pri­gion­ieri”, dopo sevizie di vario genere, sono sta­ti  get­tati in un pre­cip­izio del monte delle Fate, fra Son­ni­no, Amaseno e Monte San Bia­gio, pre­cip­izio che la tradizione popo­lare bat­tezzerà col nome di “Rava dei pastenesi”.

© Costan­ti­no Jadeco­la, 2001.


[1] Car­lo BARTOLINI, Il brig­an­tag­gio del­lo Sta­to pon­tif­i­cio. (Copia anasta­t­i­ca  dell’edizione di Roma del 1897) Adel­mo Pol­la Edi­tore. Cer­chio (Aq), 1989. Anche per le suc­ces­sive citazioni.

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