CIAK, SI GIRA: “BOMBARDATE CASTELNUOVO!”

Seconda guerra mondiale, giugno ’44 inoltrato. La linea del fronte della campagna d’Italia è a nord di Roma, ben oltre Roma. La capitale era stata liberata il giorno 4 di quel mese a conclusione di una incomprensibile fase di stallo che aveva visto l’esercito alleato a lungo arenato nella piana del Rapido. Proprio quello stesso giorno le truppe alleate che erano rimaste acquartierate nel versante molisano delle Mainarde completavano il loro periodo di riposo per tornare di nuovo in prima linea.
Il loro riferimento in questa zona dominata dal monte Marrone (1.770 m.) era Castelnuovo, Castelnuovo a Volturno, frazione di Rocchetta al Volturno, un villaggio adagiato sulle pendici del monte detto anche lui Castelnuovo (1.170 m.) a circa 700 metri sul mare. Prima della guerra i residenti non superavano le settecento unità; in quell’ultimo scorcio della primavera del ’44 erano meno del dieci per cento: i più di quelli che mancavano erano rifugiati nei dintorni, oppure sfollati altrove o, peggio, si trovavano ancora nella condizione di deportati.
Tra i presenti c’era Vincenzo Martino che, come in quel tempo era costume, gli alleati avevano nominato sindaco sul campo ed al quale, proprio in virtù di tale incarico, avevano affidato in consegna varie cose «tra cui armi, cannoncini, mitragliatrici e munizioni» che lui, con la diligenza di chi responsabilmente onora l’impegno assunto, aveva provveduto a sistemare in alcuni magazzini o nelle case abbandonate.
Insomma, tutto lasciava supporre che con quel 4 giugno si chiudeva la fase connessa agli eventi bellici, eventi che, peraltro, per Castelnuovo non erano stati così catastrofici come, invece, per il territorio più o meno prossimo: i danni, infatti, potevano dirsi limitati a sole quattro abitazioni che erano state bersaglio dei colpi di cannone sparati dai tedeschi. Tutto sommato, ci si poteva accontentare.
Era tempo, insomma, di guardare avanti.
Così, però, non fu. Infatti, «la mattina del 5 giugno», avrebbe poi raccontato il sindaco Martino, «vedemmo una jeep arrampicarsi sui tornanti della nostra strada. Un ufficiale inglese, un tenente, venne a parlare con me e mi disse che il paese doveva essere sgombrato subito. Tutti gli abitanti dovevano abbandonare il paese per una decina di giorni perché si doveva procedere ad una disinfestazione sanitaria. Gli abitanti che erano appena rientrati dalle montagne e quelli che come me erano rimasti nascosti nelle montagne qui attorno non volevano naturalmente saperne. Io dissi che non potevo andarmene perché ero custode del materiale lasciato dagli alleati. Ma questi nuovi soldati non vollero sentire ragioni. Mi rilasciarono una ricevuta per il materiale che avevo raccolto nei quattro magazzini (ricevuta che poi ho consegnato al Ministero a Roma) e mi scrissero su un pezzo di carta di quaderno una specie di ordine di sgombro: ‘si ordina la evacuazione del paese di Castelnuovo per la durata di dieci giorni perché si deve procedere ad una disinfestazione generale’, che firmò lo stesso tenente. Poi ci caricarono tutti sui camion, proprio come mesi prima avevano fatto i tedeschi, e ci portarono nel vicino paese di Rocchetta.
«Il giorno dopo cominciarono ad arrivare i soldati, colonne di carri armati riempivano i tornanti della vallata e batterie di cannoni furono piazzate sulla strada e sui contrafforti proprio contro Castelnuovo. Nessuno di noi ci capiva niente, ma speravamo che tutto finisse in fretta per tornare alle nostre case».
Nei giorni a venire l’accesso a Castelnuovo è rigorosamente vietato. E se qualcuno prova appena a sbirciare, se scoperto viene allontanato senza tanti complimenti. Come capita il 16 giugno all’insegnante Ettore Rufo, rientrato in zona proprio in quei giorni, che con altri tentò di entrare a Castelnuovo o, quanto meno, di vedere cosa stesse accadendo: «A Rocchetta ci avevano detto che era impossibile arrivarci. La strada infatti era bloccata da autocolonne di carri armati e da soldati di tutte le razze. Quando i soldati ci scorsero cominciarono a minacciarci e poi con un camion ci portarono a Rocchetta senza darci alcuna spiegazione. Lungo la strada incrociammo trasporti di truppe e ancora carri armati. Ci parve di riconoscere alcuni tedeschi, ma sul momento credemmo di sbagliare».
Arriva il 17 giugno. Quella mattina, avrebbe poi raccontato Rufo, che in futuro sarà vice sindaco di Rocchetta con delega per Castelnuovo, «fummo svegliati dal cupo rumore delle cannonate. Pensammo che si trattasse delle esercitazioni alle quali qualcuno aveva accennato e corremmo a guardare dalle colline che ci sono di fronte al nostro paese. Le cannonate erano dirette verso le montagne, ma a poco a poco ci accorgemmo che le batterie avevano aggiustato il tiro proprio contro le nostre case. Non credevamo ai nostri occhi: sotto i colpi di cannone dei carri armati e delle batterie da montagna il nostro paese, che la guerra aveva miracolosamente risparmiato, stava crollando, una casa alla volta, fra nuvole di calcinacci, crepitio di armi, rombo di carri armati. Vedemmo il campanile della chiesa troncato a metà da una cannonata rovinare giù…».
Il tutto durò un paio d’ore, non di più. Quindi, soldati e mezzi sparirono dietro le colline. Quelli che avevano assistito “alla battaglia”- quelli che erano di Castelnuovo ma anche quelli che di Castelnuovo non erano — inevitabilmente rimasero increduli e sconvolti e ce ne volle prima che si ridestassero da un vero stato di choc: quel villaggio che la guerra aveva risparmiato lasciando traccia del suo passaggio appena in un pugno di abitazioni ora era letteralmente sventrato.
La gente di Castelnuovo per lungo tempo si chiese il perché di tutto questo senza tuttavia riuscire a darsi una risposta. Intanto la vita riprese lentamente: ci fu chi ebbe il coraggio di restare all’ombra delle Mainarde e chi, invece, quello di avventurarsi verso nuovi lidi al di là dell’oceano, negli Stati Uniti. E fu proprio da quest’ultimi che venne la risposta all’inquietante perché: la colsero, esterrefatti, in alcune sale cinematografiche di Filadelfia, di Boston, di Chicago, di Los Angeles.
Ma sentiamo ancora la testimonianza di Ettore Rufo: «Non erano trascorsi che tre o quattro anni che dall’America ci giunsero le prime lettere di parenti ed amici emigrati. Tommaso Pitassi, ad esempio, era a Filadelfia solo da pochi mesi. Entro in un cinema ove si proiettava un documentario sulla guerra in Italia. Una delle sequenze più vive, più drammatiche, era dedicata alla ‘battaglia di Castelnuovo, imprendibile caposaldo tedesco, conquistato dalle truppe corazzate e dai fanti dell’ottava armata’. Tommaso Pitassi era con noi sulla collina e sullo schermo rivide pari pari quel che i suoi occhi e la sua mente non avevano dimenticato».
E fu solo allora che si poté spiegare la presenza nel cielo di Castelnuovo, durante la “battaglia”, quel 17 giugno 1944, di un piccolo aereo, un ricognitore, a bordo del quale «credemmo di distinguere», avrebbe poi ricordato Ettore Rufo, »un operatore cinematografico che si sporgeva dal finestrino, con la macchina da presa puntata, per riprendere la battaglia»; e si spiegò così anche la presenza dei “tedeschi” intravisti dallo stesso Rufo: erano i protagonisti della scena in cui i “nemici” si arrendevano con le mani alzate.
Naturalmente la cosa non finì lì. Ci furono le rimostranze della gente di Castelnuovo che, però, in qualche misura si sentì addirittura rassicurata: «Ma perché vi preoccupate di un pugno di vecchie case? Ve le ricostruiremo migliori di prima e vi daremo anche mobili ed elettrodomestici!». «E’ proprio vero», pensarono in cuor loro i castelnovesi: non tutti i mali vengono per nuocere». Ed in quella attesa molti di essi si arrangiarono. Per anni.
Dal canto suo, la burocrazia non poteva lasciarsi scappare un boccone così succulento: si trattava di danni di guerra o di che cosa?
La pensò bene, invece, l’arciprete don Giovanni Penna che per evitare lungaggini e quant’altro, affermò che la sua chiesa, quella dell’Assunta, era stata distrutta dai tedeschi. Del resto, qualcosa del genere era accaduto anche per una non lontana abbazia. Solo che questa distruzione c’era stata alcuni secoli prima.
© Costantino Jadecola, 2001