LI CHIAMAVANO BRIGANTI / QUESTIONE D’ETÀ
Amaseno, un tempo San Lorenzo.
Il secondo editto Pericoli sulla repressione del brigantaggio, promulgato il 18 marzo 1867, assicurava la salvezza della vita ed «ulteriori tratti di Sovrana Clemenza» a quei malviventi che, nel termine di quindici giorni, a partire dal quinto dalla pubblicazione dell’editto, si fossero consegnati alla giustizia.
Tra le altre, furono aperte trattative per la costituzione della banda capitanata da Augusto Panici di San Lorenzo (Amaseno) e di quella di Francesco Petricola, detto Brigantozzo, di Sonnino, che, riunitesi per questo scopo, tra la fine di marzo ed i primi di aprile stazionarono sulla montagna di Roccasecca dei Volsci, non mancando di fare, di tanto in tanto, una capatina in paese. Approssimandosi, intanto, il termine ultimo previsto dalla legge alcuni si consegnarono, altri no. Tra costoro, Rocco Mastrantonj di Pofi, Carmine Roberti, detto Brunetto, di Sonnino, ed il suo compaesano Tommaso Colapietro che, rimasti a Roccasecca dei Volsci, inevitabilmente finirono nel mirino delle forze dell’ordine tant’è che già la sera del 7 aprile furono catturati.
Perquisiti, si legge nelle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. 70 e 77), indosso al Mastrantonj vennero trovati «scudi tre e venti di rame; scudi undici di argento romani; scudi venti e bajocchi venti in papetti e mezzi paoli; due napoleoni di argento; due anelli di oro con pietre; un orecchino di oro; due anelli di oro alle dita; un cava-palle; otto zinnette; un sigillo d’argento; un crocefisso ed una medaglia di argento; due scatole con 91 cariche da rivolta; cento e una cariche da fucile; un taschino di polvere con varie palle; una cartucciera di pelle con cariche; uno scialle da donna; un porta-capsul».
Carmine Roberti, invece, possedeva «un cava-zinnette; una camicia da munizione col n. 3220 di matricola; una mutanda simile col n. 3276; due paoli e cinque papetti di argento; un taschino con varie palle ed un cava-palle».
Sottoposto ad interrogatorio, Rocco Mastrantonj confessa che solo da qualche tempo si era dato al brigantaggio unendosi al capobanda Luigiotto di Fondi il quale «teneva sotto di sé dieci o dodici persone tutte del Regno». Durante la sua permanenza in quella banda, che durò circa due mesi, venne commesso il ricatto di un ragazzo, il cui nome, però, il brigante non seppe indicare; dichiarò, invece, che niente gli venne dato del riscatto incassato, pari a duecento scudi, cosicché dopo qualche tempo «se ne partisse portando seco 1’armamento consistente in una doppietta ed una pistola a due colpi». Trovati sulla sua strada alcuni campagnoli che si erano dati anch’essi al brigantaggio, si unì loro, «dietro chiamata ricevuta dal capo, ch’era il detto Petricola ossia Brigantozzo», e col quale c’erano anche «Vincenzo Maggiarra, un suo figliastro di nome Francesco, un tal Carboni di Sonnino, ed un Supinese, e con essi si aggirasse tra Roccasecca dei Volsci e Regno». In ultimo, Rocco Mastrantonj ci tiene a chiarire «che in tutto il tempo che appartenne al Brigantaggio non commettesse delitti, avendo solo compartecipato alla divisione del denaro ricevuto dalla Banda Petricola in seguito del ricatto di Paolo Polini da essa commesso».
Carmine Roberti, dal canto suo, sostiene che le somme di denaro trovategli indosso provenivano dalla vendita di alcune «vaccine» di proprietà avvenuta in Sonnino, facendo quindi rilevare che nessuna opposizione era stata fatta alla «forza» che cercava di arrestarli, sia da lui che dal suo compagno. Aggiunse, quindi, che circa un mese e mezzo indietro, avendo saputo che contro di lui «pendesse ordine d’arresto per aver portate cibarie ai Briganti», si decise a «darsi anche esso alla loro vita unendosi al Capo Brigantozzo che aveva sotto di se vari altri individui».
Sull’attività della banda, che generalmente si aggirava «ora per le montagne di Terracina ed ora in quelle di Sonnino e Roccasecca dei Volsci» Roberti racconta che nel mese di febbraio venne commesso il ricatto di due sonninesi «Domenico il Zoppo e Gaspare N. dopo il rilascio de’ quali ebbero una sessantina di scudi, che credette mandati da loro» mentre in seguito vi fu quello del «Ministro di casa Polverosi in Fossanova, di nome Paolo, che fu rilasciato non sa per qual prezzo, essendogli toccato di sua porzione circa cinquanta scudi in oro ed in argento».
Infine, Roberti riferisce che un giorno del mese di marzo appena passato «si trovasse con i compagni comprensivamente al Mastrantonj ad un combattimento colla Forza presso il casino del Sig. Alessandro Maggi di Sonnino, in cui rimase ucciso un Gendarme».
Se queste furono le ammissioni fatte dagli inquisiti, altro ancora si seppe sia dalle dichiarazioni di alcuni testimoni. Come, ad esempio, che Rocco Mastrantonj sarebbe stato responsabile anche di altri delitti, quale quello per «ricatto e stupro violento» commesso il 5 marzo precedente «ad offesa» della giovane sonninese Lucia De Santis che accusò Mastrantonj, da essa riconosciuto, come uno degli autori del delitto o che gl’inquisiti Mastrantonj e Roberti avrebbero preso parte ad combattimento avvenuto tra la Forza ed i Briganti la sera del 15 Marzo sudetto nel Casino Maggi presso Sonnino, colla uccisione del Gendarme Pasquale Martini e ferimento dello Squadrigliere Luigi Carboni. Gli stessi, inoltre, sarebbero stati fra coloro che avrebbero usato » violenza ad alcune donne intente a cogliere le olive in un terreno di Pasquale Bernabai di Sonnino discacciandole da quel luogo». Sempre lo stesso giorno, inoltre, venne commesso nella stessa località per opera di sei «incogniti Briganti» il ricatto dei fratelli Francesco e Camillo De Angelis che furono poi rilasciati mediante lo sborso di scudi 116. E via di seguito.
Ci sono poi le denunce di Marc’Antonio Capone e di Rosa Balserani di Roccasecca dei Volsci secondo le quali «verso le ore due di notte della Domenica 7 corrente, nel restituirsi il primo alla propria abitazione fosse seguito da due Briganti armati di doppiette e vestiti, uno di panni di lana oscuri semplici, e l’altro guarniti di piccoli bottoni di metallo bianco, il secondo de’ quali lo richiese di scudi cento, che ridusse poi a cinquanta minacciandolo di condurlo alla Montagna».
Ma, si legge ancora nella denuncia, non avendo egli la somma richiesta, «fosse costretta sua moglie portarsi in giro per accozzare un po’ di quel denaro, che fu consegnato ai detti Briganti, non sa in che quantità, consistente in monete di argento e rame, fra cui varie piastre, colonnati, e papetti; che quindi l’obbligassero ad aprire un’arca da dove tolsero un Baccalà, ordinandogli di recarsi nella seguente mattina a Piperno per acquistargli otto fazzuoletti colorati e due paja di cioce e pezze. Che verso la stessa ora si presentasse in casa della Balserani un Brigante corrispondente nella descrizione anche del vestiario al secondo dei suddetti, armato di doppietta e coltelli il quale la ricercasse del padre; e rispostogli che trovavasi a Piperno, volesse del pane, prosciutto, e quattordici uova che si portò con sé».
I due denuncianti ritengono autori di queste estorsioni Mastrantonj e Roberti ma i due lo negano. Pur tuttavia c’è da pensare «che realmente ne fossero stati gli autori, avendo il primo ammesso di aver mangiato nella casa del Papi, dove si recarono, certo pane e prosciutto che avevano portato con loro da fuori; ed il secondo che, prima di entrare in Roccasecca dei Volsci, nella sera di quella Domenica, essendosi fermato a soddisfare un’urgenza corporale, i suoi compagni Mastrantonj e Tommaso, si recassero in una casa dove si fecero dare delle uova e non sa se qualche altra cosa». Sempre «in casa del Papi mangiassero una frittata fatta colle uova suddette e con prosciutto che non sa chi lo somministrasse; e che su di una tavola esistente in quella casa vedesse un baccalà, senza sapere come vi si trovasse».
Mercoledì 24 aprile 1867 il tribunale di Frosinone per le cause di brigantaggio nelle province di Frosinone e Velletri — Raffaele Parisi presidente, Onorato Scifelli e Pancrazio Lazzarini giudici, Niccola Marchioni giudice deputato, Massimo Pocobelli e Gio. Battista Mazzoli capitani giudici, coll’intervento di Agapito Rossetti fiscale militare e Pietro Fortuna difensore dei rei, S. Bottacci cancelliere sostituto — è adunato nella sala delle udienze per proporre, discutere, e giudicare la causa di «Brigantaggio in Conventico1a armata» contro «Rocco Mastrantonj del fu Giuseppe di anni 20, di condizione pastore, celibe , nativo di Pofi, e domiciliato in Sonnino, e Carmine Roberti del fu Filippo di anni 19, Caprajo, celibe, nato e domiciliato in Sonnino».
Eseguiti i preliminari di rito, vengono quindi ascoltate le conclusioni del «Fiscale Militare», «il quale fa in voto che 1’Inquisito Mastrantonj fosse punito a termini dell’Art. 4 della Legge Edittale dei 7 Decembre 1865 ed Art. 1 della successiva 18 Marzo 1867», mentre per quanto riguarda Carmine Roberti, «non scorgendosi regolare la fede battesimale», chiede che la sua posizione venga stralciata per consentire ulteriori accertamenti.
Dopo le deduzioni della difesa viene emessa la sentenza che, dopo aver ripercorso le vicende riferite, condanna Rocco Mastrantonj alla pena comminata dall’articolo 4 dell’editto Pericoli del 7 dicembre 1865, ovvero la pena di morte e dall’articolo 1 dell’editto del 18 marzo 1867 oltre, beninteso, ai danni ed alle spese, «da liquidarsi per chi di ragione e nelle forme prescritte».
Lo stesso Tribunale, il successivo 4 maggio discute la causa, anche questa con il titolo di «Brigantaggio in conventicola armata», contro Carmine Roberti del fu Filippo nato in Sonnino li 27 aprile 1849 ed ivi domiciliato, di condizione capraio, celibe, carcerato anche lui l’8 aprile 1867.
Il riferimento alla sentenza emanata dallo stesso tribunale nell’udienza del 24 aprile a carico di Rocco Mastrantonj ed al relativo processo verbale redatto nella medesima udienza è inevitabile. Solo che, in questo caso, non si arriva alla medesima conclusione: Roberti, infatti, è «favorito» per essere in «età minorile». È accaduto che, «mediante la identificazione della persona, essendo posto fuor d’ogni dubbio che egli sia Carmine Roberti figlio di Filippo Roberti e di Anna Capo Di-Ferro; è pure provato nel modo il più formale e solenne della fede parrocchiale riconosciuta e rimessa dal Vescovo Diocesano che essendo nato il 27 Aprile 1849 all’atto dell’arresto il giudicabile avesse venti giorni di meno degli anni dieciotto contemplati nel ripetuto Editto 18 Marzo».
La qualcosa comporta, buon per lui, oltre che l’applicazione dell’articolo 4 dell’editto Pericoli del 7 dicembre 1865 e dell’articolo 1 dell’altro editto Pericoli del 18 marzo 1867, anche quella dell’articolo 2 di quest’ultimo editto «posto in analogia dello Articolo 27 del Regolamento penale». Insomma, Carmine Roberti è condannato «ad espiare la pena della galera perpetua; colla condanna del medesimo ai danni e spese da liquidarsi per Chi e come di Legge».
L’11 maggio, il Tribunale di Frosinone decide che la sentenza di condanna alla pena capitale di Rocco Mastrantonj venga «mandata ad esecuzione, mediante fucilazione alle spalle, alle ore Sei antimeridiane del giorno di Giovedì Sedici corrente Maggio nell’esterno del Comune di S. Lorenzo» anche in considerazione del fatto che «il Ministeriale Dispaccio in data otto corrente Maggio Num. 37568. col quale viene partecipato che riferitasi nell’udienza del giorno medesimo al Santo Padre la surrichiamata Sentenza, la Santita’ Sua non aveva dato alcun ordine in contrario».
Ed «il 16 Maggio 1867 alle ore sei antimeridiane», in S. Lorenzo, riferisce il «cursore» Luigi Quadrozzi «il condannato Rocco Mastrantonj, scortato dalla Forza, è stato nell’ora sudetta tradotto al luogo del supplizio stabilito nella requisitoria Fiscale, ed ivi ha subito la pena mediante fucilazione alle spalle». A tal proposito, nel libro dei defunti della Collegiata di Santa Maria di Amaseno si legge che l’evento si concretizzò, di fatto, «nel prato del signor Principe Colonna e precisamente sotto le macerie dell’orto di San Rocco». E, ancora, che, prima di essere fucilato, Rocco Mastrantonj era stato «già convertito da due R. R. Padri Liquorini della Madonna delle Grazie di Frosinone» e che, «dopo la predica fatta dal P. Rettore del Rev.mo Capitolo, fu associato il cadavere e fu trasportato nell’Oratorio della Buona Morte ed ivi sepolto».
© Costantino Jadecola, 2004.