39 / LA NOSTRA STORIA / PASQUA DI GUERRA
Nonostante tutto, anche quell’anno arriva la settimana Santa. Ma, sottolinea Tancredi Grossi, «anche la Pasqua, come il Natale, passò quasi inavvertita, squallida. Il cannone sostituiva ancora le campane. La morte continuava a falciare vite umane».
E’ il 9 di aprile. Sette giorni prima è stata la Domenica delle Palme ma le testimonianze sul tradizionale ramoscello d’ulivo simbolo di pace sono oltremodo scarne. Sarebbe stato bello che alleati da una parte e tedeschi dall’altra se ne fossero scambiati. Ma, anche quel giorno, avevano tutt’altro da scambiarsi. Ed a Morolo poco mancò che proprio quella domenica 2 aprile non si verificasse una tragedia di consistenti proporzioni.
Racconta don Antonio Biondi: «Era venuta a Morolo una banda militare tedesca per offrire alle truppe un trattenimento musicale. Suonava magnificamente. Tutti i tedeschi liberi dal servizio, oltre un centinaio, si erano raccolti in Piazza Ernesto Biondi. C’erano tutti gli ufficiali comodamente e solennemente seduti come se fossero all’Opera di Berlino o di Vienna. Dietro gli ufficiali, i soldati. Costoro quasi tutti erano in piedi per insufficienza di sedie. Tuttavia più di un soldato aveva preferito svignarsela destramente in chiesa per assistere alla messa e ricevere i rami di olivo benedetti, delicato simbolo di fraternità, di letizia, di pace. Per un giorno Marte poteva cedere ad Apollo. Non mancavano neppure numerosi morolani dell’uno e dell’altro sesso.
«(…) C’era inoltre in quel giorno un sole tiepido, luminoso, ammaliante quale sa regalare il bel cielo primaverile d’Italia nei giorni in cui esso è di buon umore. Noi italiani siamo abituati ai tepori morbidi del ‘ministro maggior della natura’. I tedeschi, che non vi sono abituati, ne erano addirittura incantati, ammaliati, conquisi.
«(…) Ma bisogna pur dire che gli aviatori militari anglo-americani in tempo di guerra non sentono tenerezza alcuna neppure per la musica, neppure se indorata dal sole. Un villano apparecchio alleato (ma non alleato con i tedeschi o con gli americani) sibilando sgangheratamente, sbucò dai nostri monti simile a un uccellaccio da preda che si lanci su candidi agnelli pacificamente brucanti sul verde dei prati sotto un cielo d’oro. Parve a tutti che l’apparecchio, tanto si abbassò sulla piazza, volesse mietere le teste dei suonatori e degli uditori. Fu un attimo. Un attimo solo. Suonatori, strumenti musicali, morolani, ufficiali, soldati si mescolarono, si urtarono, si confusero, si ruzzolarono come al tocco di una maga dispettosa. tutti scappavano, anche carponi, aiutandosi con le mani chiamate in soccorso dei piedi.
«L’essenziale era scappare prima degli altri, più degli altri».
Ma non accade nulla. Né, però, il concerto viene ripreso, tanta e tale è stata la paura e lo spavento.
Quell’anno Giuliano di Roma ha il grande privilegio di veder celebrato nella sua collegiata il rito della benedizione dell’Olio Santo, una decisione presa dal vescovo Tommaso Leonetti- che tornava a Giuliano dopo la precedente visita del 15 dicembre del ‘43, allorché vi giunse a piedi da Ceccano, passando attraverso i monti, e dopo quella, immediatamente precedente, del 30 marzo — dal momento che i continui bombardamenti cui Ferentino è sottoposta impediscono di poterlo officiare nella sede della diocesi, così come è consuetudine.
Scrive don Alvaro Pietrantoniche il popolo di Giuliano di Roma (coadiuvano mons. Leonetti nella celebrazione una ventina di sacerdoti venuti da ogni parte della diocesi) «grato per l’onore che veniva fatto alla sua chiesa Collegiata, offrì per la benedizione l’olio, che in quel periodo era molto difficile da trovare, e donò il vino e l’agnello pasquale per il pranzo che mons. Sperduti offrì per tutti i sacerdoti presenti».
Ancora Morolo ma il giorno di Pasqua. Alla messa delle undici una buona metà della chiesa è occupata da soldati tedeschi. E la cosa suona abbastanza strana a chi come don Antonio Biondi era giunta voce che «all’approssimarsi di quella solennità ai militari era stata portata a conoscenza la proibizione di entrare nella chiesa di Morolo per la messa di Pasqua, pena quindici giorni di prigione, assicurando, al tempo stesso, che il lunedì seguente, quello che da noi in Italia si chiama pasquetta, sarebbe venuto a Morolo il cappellano per uno speciale servizio religioso».
Ma non era accaduto niente di più che una semplice revoca di quella disposizione proibitiva. Tutto qui.
A Campoli Appennino, dove un cappellano militare tedesco celebra tutti i giorni, l’ultima messa di Pasqua viene officiata dal parroco don Augusto Fracassicoadiuvato da due padri Passionisti. Riferisce Pasquale Mastroianniche a quella cerimonia «intervengono tutti i tedeschi, oltre agli sfollati. Qualcosa di veramente commovente. L’odio, è manifesto, ha fatto posto, anche se per poco, all’amore che, solo, affratella gli uomini d’ogni condizione e razza».
Don Crescenzo Marsella, il parroco di Settefrati, dopo molte peripezie è riuscito infine ad arrivare in territorio di Arpino dove, racconta, «il giorno di Pasqua, 9 Aprile, potei celebrare la S. Messa in un’edicola intitolata al SS. Crocifisso, capace appena di contenere sacerdote e inserviente. In compenso vi era sparsa sulla sodaglia circostante una immensa folla di sfollati da Terelle, Casalattico, Casalvieri, Piedimonte S. Germano, Cassino, Caira di Cassino, Roccasecca, S. Biagio Saracinisco, Atina, Villalatina, Aquino, ecc. ecc. Moltitudine veramente imponente su cui la mia parola di Sacerdote e compagno di sciagure, discendeva efficacissima, pioggia ristoratrice, balsamo di conforto e di speranze».
Dove non c’è una chiesa in cui incontrarsi, il rito della Pasqua lo si rinnova come meglio si può. Come dire: basta l’intenzione. E’ il caso, ad esempio, di questa ‘celebrazione’ di cui riferisce Carlo Baccari: «Verso mezzogiorno s’erano riuniti donne e uomini , la comunità di questo posto, presso la casa di Benedetto. Uscito a vedere di che si trattava, ho visto questo con un bicchiere d’acqua (benedetta?) con entro un rametto d’ulivo a fianco di Cipriani che leggeva delle preghiere in un libretto, mentre intorno ad essi la gente a capo scoperto ascoltava. Finita la preghiera, si sono messi tutti in ginocchio. Che succedeva? Ed ecco che Benedetto, l’anziano della comunità, preso il ramo d’ulivo, con esso benediva. Benediva tutti, girandosi lentamente intorno, attingendo ogni volta l’acqua dal bicchiere. A testa scoperta mi sono anch’io inginocchiato, presso la soglia della casa, mentre il vecchio ci benediva col rametto d’ulivo».
A Casamari, quella Pasqua del ’44 non gode della consueta solennità mentre il «concorso della gente» sia alle varie funzioni liturgiche che alla visita del sepolcro, scrive don Luigi De Benedetti, «è stato molto scarso».
Ma quel giorno accadono anche altre cose. Così, se a Patrica il ferimento di una giovane da parte di un interprete belga delle truppe tedesche getta il panico tra la popolazione, a Sant’Ambrogio sul Garigliano proprio quel giorno in cinque guadano il Garigliano e vanno dall’altra parte del fiume dove gli alleati stazionano ormai da tempo. Antonio Broccoli, i fratelli Giovannie Clemente Messore, Giovannino Messoreed Erasmo Pagliaro sono i protagonisti di questa avventura che, comunque, non è l’unica nel suo genere.
Quella Settimana Santa costituisce inoltre l’occasione perché il vescovo della diocesi di Ferentino, mons. Tommaso Leonetti, traendo spunto da ciò che ha avuto occasione di vedere in una visita compiuta nei vari comuni sottoposti alla sua giurisdizione pastorale, appena dopo invii una sua relazione sullo stato di salute della diocesi a mons. Domenico Tardini che è il segretario degli Affari Ecclesiastici Straordinari presso la Santa Sede.
Il 14 aprile 1944 mons. Leonetti, dopo aver riferito sui più recenti bombardamenti su Ferentino ed accennato ad una sua visita in alcuni comuni della Diocesi, scrive: «In Ceccano, centro di diciassettemila abitanti, in quattro mesi non furono distribuiti che 600 grammi di generi alimentari a testa! Al cosi detto mercato nero un chilogrammo di farina (che poi non si sa di che cosa sia composta) si fa pagare 100, 120 e più lire. E’ pietosissimo lo spettacolo di uomini e specialmente di donne e ragazzi che fanno a piedi viaggi di giorni e di settimane per raggiungere le paludi pontine o le vicinanze del fronte di Cassino, spesso arrischiando la vita per bombardamenti e mitragliamenti, per scambiare qualche genere, talvolta gli ultimi capi di biancheria, con un po’ di granturco, o perfino di ghiande. In un luogo ho visto io con i miei occhi (tra gli altri miserandi spettacoli) donne, ragazzi, giovanette, macilenti e cenciosi, far ressa all’ingresso d’un forno della Sussistenza germanica per scambiare otto, dieci uova, con un tozzo di pane, esponendosi alle umiliazioni di insulti e scudisciate… Eppure, quella popolazione si stima, al confronto di altre vicine, fortunata perché, sia pure in quella maniera, riesce ad avere qualche pagnotta di pane.
«Non parliamo delle popolazioni deportate:è capitato che mamme sono giunte in questo centro di smistamento, che à Ferentino, coi bimbi lattanti morti sulle braccia, perché le povere madri, digiune da parecchi giorni, non avevano più latte; che una mamma giunse ferita da un colpo d’arma da fuoco, perché il bruto incaricato ella deportazione, sentendola gridare di spavento alle parole da lui rivoltele -’Lasciateli quei bimbi, ché sono destinati alla morte’- le sparò contro; che famiglie e fanciulli giungono completamente divise dai loro cari, o decimate, perché le persone vecchie, inferme, impedite di camminare, furono passate per le armi durante il viaggio…
«L’elenco potrebbe esser prolungato e documentato coi fatti controllati in tanti mesi dacché Ferentino è luogo di smistamento degli sfollati.
«Alcune migliaia di questi infelici si son sottratti alla vigilanza, e, non ostante i tentativi di rastrellamento, son rimasti e vivono miseramente in campagna, disposti (è loro confessione) piuttosto a morire in una stalla di fame e di stenti, che non a ricadere in quelle mani.
«Per l’onore di questa Città, debbo dire che sia le Autorità Comunali con a capo il Commissario Conte Antonio Miccinelli, come le famiglie tutte e Case Religiose (merita tra esse menzione e lode amplissima la Casa dei Servi della Carità di Don Guanella) si son prodigate a sollevare tante miserie, quantunque io stesso debba per quotidiana esperienza constatare la sproporzione ogni giorno più accentuata fra i mezzi, limitati, e le necessità, che sono sconfinate.
«(…) Non solo non si ottenne mai dalle Autorità Provinciali un aiuto efficace per il trasporto di generi alimentari, ma se ne hanno tuttora ostacoli…
«(…) Le sofferenze vanno così raggiungendo un punto che si potrebbe dire il limite estremo della sopportazione: e ciò con la prospettiva del peggio, del saccheggio, devastazione, deportazione, oltre il terrore quotidiano di altre quanto ingiustificate, tanto spaventose incursioni aeree.
«In mezzo a tante angosce è sempre più apprezzata l’opera indefessa del Santo Padre e della Sede Apostolica; e io debbo farmi eco della commossa riconoscenza dei miei sacerdoti e dei sacerdoti sfollati, che hanno beneficiato delle duemila SS. intenzioni di messe con l’elemosina di lire cinquanta che il Santo Padre, nella sua generosa bontà, assegnò a questa diocesi ora è un mese.
«Che il Signore conforti finalmente il cuore del Papa tanto afflitto per le dolorose conseguenze di una guerra ch’Egli aveva tanto sapientemente, quanto, purtroppo, invano deprecato!» (39, continua).
© Costantino Jadecola, 1994.