13 / LA NOSTRA GUERRA / CACCIA ALL’UOMO
Vittorio Miele, Il cranio è ormai schiuso (Della serie ‘Testimonianze’)
Di quanto si salva dai bombardamenti alleati sono, talvolta, gli stessi tedeschi a provocarne la distruzione. A Cassino, ad esempio, la mattina del 10 ottobre, minano numerose case che fiancheggiano la Casilina ed altre, di campagna, nella pianura lungo il Vilneo. Ma cose del genere non accadono solo quel giorno. Vittorio Miele, all’epoca sedicenne, racconta: «una mattina, alcuni militari tedeschi ci imposero, senza mezzi termini, di abbandonare al più presto la nostra casa. Rassegnati, uscimmo ma senza avere una meta precisa. Alla fine, prendemmo la strada per Montecassino. Dopo alcune centinaia di metri ci fermammo per riposarci un po’: fu allora che vedemmo la nostra casa, da poco abbandonata, saltare in aria dopo che era stata minata dai tedeschi.»
Che questi, con iniziative del genere, intendano in qualche modo ostacolare l’avanzata degli alleati, sembra, lì per lì, l’ipotesi più logica. Ma quando viene rilevata l’attuazione di un massiccio spostamento di truppe dal nord al centro-sud per dar man forte a quelle già presenti intorno a Cassino, o giù di lì, appare chiaro, agli occhi dei comandanti alleati, che il loro esercito prima o poi sarebbe venuto a trovarsi di fronte ad una resistenza più che energica. Tanto energica che la V armata, dopo aver attraversato con notevoli difficoltà il Volturno, sebbene il 25 ottobre fosse a soli 45 chilometri da Cassino, sarebbe giunta nelle sue vicinanze soltanto un paio di mesi più tardi. Passato il Volturno, infatti, gli alleati sono costretti a superare dapprima la linea Barbara e, poi, la linea Reinhard, che dal Garigliano, transitando per i monti Camino e Maggiore, sale fino alle Mainarde, in prossimità de La Meta.
Ma la vera, insormontabile barriera sarebbe stata la linea Gustav. Ispirata probabilmente dallo stesso Hitler, che da Berlino ordina al feldmaresciallo Kesselring, comandante in capo delle forze armate tedesche, di fermare ad ogni costo il nemico, essa è costituita da una fascia larga non meno di dodici chilometri che taglia l’Italia in due dal Tirreno all’Adriatico, ovvero dalla foce del Garigliano a quella del Sangro, seguendo il corso dei due fiumi o di altri minori, come ad esempio il Rapido, e le alture che si susseguono con varia altimetria margine di essi. Si scavano anfratti nella roccia, si ampliano quelli già esistenti, si minano le sponde dei fiumi, si creano fortini seminterrati, si fortificano i ruderi delle case, si camuffa ogni difesa rendendo impercettibile qualsiasi confronto con gli ambienti più prossimi. Inoltre, si predispongono nidi di mitragliatrici dietro spuntoni di roccia, casematte mobili protette da corazze d’acciaio di dodici millimetri di spessore e trainabili, sistemi di allarme per la tutela delle postazioni.
Un soldato francese fatto prigioniero dai tedeschi alla fine di gennaio ’44, durante la battaglia per la conquista di colle Belvedere, presso Terelle, ma che, poi, il 4 febbraio. riesce a liberarsi durante il caos conseguente un bombardamento alleato, ragguaglia i suoi superiori sullo stato delle difese tedesche che egli ha avuto occasione di poter constatare di persona essendo stato adibito, durante la breve prigionia, al trasporto delle munizioni. Ne riferisce Fred Majdalany: «Lungo le cime a nord e a ovest dell’abbazia (Quote 444, 593, 569 e Colle S. Angelo) c’erano postazioni di mitragliatrici protette sui fianchi e in alto da una corazza d’acciaio e con sacchi a terra davanti e dietro. Sulla cresta di certe alture c’erano mortai camuffati e protetti da tronchi d’albero, coi tre uomini addetti ben trincerati.
«(…) Fra le armi più micidiali dei tedeschi c’era il Nebelwerfer, un mortaio a sei canne che sparava sei bombe contemporaneamente. Durante la traiettoria questo grappolo di proiettili emetteva un rumorio caratteristico, una specie di urlo lamentoso, che aumentava notevolmente la tensione nervosa nell’attesa del colpo. I Nebelwerfer, a forma di cannoncini, stavano ben nascosti nel fianco del monte, su uno spiazzo aperto per il tiro dal pendio. Anche l’osservatore addetto a dirigere il tiro era ben trincerato, e poteva scrutare da una feritoia tagliata nella roccia.»
Le “novità” non finiscono qui. Ad esempio, scrive ancora Majdalany, i tedeschi elaborano «una bomba di mortaio che scoppiava al livello del terreno, e perciò con un raggio di azione notevolmente più ampio. Anche le mine antiuomo furono perfezionate. Si cominciò a fare uso sempre più crescente di ordigni esplosivi in legno, soprattutto la tremenda mina schu, che ha l’esplosivo contenuto in una cassetta e scoppia quando qualcuno vi cammina sopra, portandogli via il piede netto. Queste mine di legno, oltre tutto, non si possono individuare a mezzo dei detector. Nelle difese tedesche di Cassino, le mine furono l’arma più micidiale. Quando gli americani guadarono il Rapido, si trovarono dinanzi un campo minato lungo tre chilometri.»
E si costruiscono anche strade. Così, ad esempio, la Atina-Terelle o la Casalattico-Mortale. Quest’ultima, scrive Italo Fortuna, «doveva servire, come servì, a collegare le retrovie con Terelle attraverso la montagna, per alimentare così il fronte nel settore di Montecassino. E servì pure ai paracadutisti che avevano strenuamente tenuto le posizioni per oltre cinque mesi per ripiegare silenziosamente nella notte quando fu dato l’ordine della ritirata direttamente da Berlino.»
Ma per realizzare tutto ciò non bastano, evidentemente, i soli uomini dell’organizzazione Todt — che si mette in movimento nella seconda metà di ottobre — o quelli del XIV corpo corazzato della X armata, quest’ultimi al comando del generale von Senger und Etterlin, incaricati dell’intera operazione.
Occorre, perciò, manodopera. Manodopera che l’organizzazione Todt tenta di reclutare per il tramite di apposite ditte, corrispondendo, peraltro, un regolare compenso. Che, però, non sono granchédi stimolo. Per cui, visto che nessuno offre la propria volontaria collaborazione, inizia una specie di safari: la caccia all’uomo.
Anagni. Nel suo diario, in data 30 settembre padre Igino Basiliciannota: «I tedeschi iniziano a razziare gli uomini (già l’hanno fatto a Sgurgola), perché nessuno o quasi si presenta al servizio del lavoro, preferendo darsi alla macchia.»
Ad Acquafondata una mattina i tedeschi catturano tre uomini che, fatto strano, a sera riaccompagnano in paese. Racconta il dott. Giovanni Battista De Filippis: «I tre ci riferirono di essere stati a lavorare a Sant’Elia, in uno scavo, e di avere avuto vitto e sigarette; e persino la promessa di una paga, purchési fossero fatti trovare pronti, con altri idonei al lavoro, il mattino seguente. Spiegai ai paesani queste finezze: una trappola per adescarci, vista la nostra resistenza passiva. Pochi mi capirono ma la paura trattenne gli altri. All’appuntamento non si presentarono nemmeno i tre del giorno prima ed i tedeschi che col loro espediente si aspettavano di trovare un bel mucchio d’uomini da incarrettare, ripartirono col camion vuoto.»
Il 20 ottobre del ’43 è una data che Guerino Patriarcadi Ferentino non ha mai dimenticato: per due uova si ritrova a lavorare alle difese tedesche. Andò così: quella mattina, racconta Guerino, «mi recai al laboratorio di scope di proprietà di Ercole Pompeoin S. Agata. Sapevo che nelle vicinanze c’era un forestiero che in cambio di sigarette ‘Nazionali’ chiedeva uova. Io mi ero procurato cento uova per barattarle; lo sconosciuto le contò e disse che erano 98. Ero sicuro che fossero cento. Conta e riconta, ecco che arrivano i tedeschi: per due misere uova mi trovai anch’io in mezzo alla retata.».
Con Guerino Patriarca vengono catturati anche «Ezio Incelli,Virgilio Bianchi, Giuseppe Rossi, il quale tentò la fuga verso porta S. Agata ma dovette desistere perchéi tedeschi gli spararono dietro e cosìanche lui fu costretto a subire la nostra stessa sorte.» Ma a Rocca d’Evandro, destinazione del viaggio, di Ferentino ce ne sono anche altri: «Bartolomeo Mangiapelo, Romeo Celardi, Ulderico Pompeo, Giovanni Incelli, Orlando La Marra, Giovanni Palombo, Giuseppe Giorgi(figlio del mugnaio), Alessandro Pompeo, Renato Ciocchetti, Benito Galassi». Ogni giorno fanno la spola fra Rocca d’Evandro e Mignano, per scavare fosse anticarro tra la Casilina e la ferrovia. Finché una notte, verso la fine di ottobre, dopo un bombardamento, arriva l’occasione per fuggire e tornare a Ferentino.
A Morolo c’è una caccia all’uomo il 31 ottobre. Ne riferisce Franco Caporossi: «I soldati che occupano la stazioncina ferroviaria chiedono da giorni al Commissario prefettizio Nestore Fiaschettialcuni operai. Stanchi delle inutili promesse salgono in paese e, pistole in pugno, fanno scattare la tecnica del rastrellamento.» Ma i più se la danno a gambe.
Va “molto meglio” a Sgurgola il 6 novembre, il giorno della festa di San Leonardo, ovvero della grande fiera che ancora l’anno prima era stata all’altezza della tradizione richiamando un gran numero di persone. Quel giorno del ’43 è, invece, tutt’altra cosa: peraltro, anche grigio e piovoso. A movimentarlo provvede un nutrito gruppo di soldati tedeschi che, confidando sulla sorpresa, rastrellano un centinaio di uomini che portano ad Isola Liri a scavare trincee.
Anche Franco Valentedi Isola del Liri è vittima di un rastrellamento: caricato su un camion, viene portato a Rocca d’Evandro, quasi sulla linea del fronte. Racconta Vincenzina Pinelli: «Nel pomeriggio del 3 dicembre 1943, i malcapitati stanno scavando le trincee in prima linea. Ad un tratto si scatena da parte degli anglo-americani un vivo cannoneggiamento di artiglieria e un mitragliamento a bassa quota di aerei da caccia. Il ragazzo ha solo 16 anni e vuole vivere. Non ha alcun dovere da compiere, non ha scelto di affrontare la morte e, istintivamente, si mette a fuggire per un sentiero impervio. Non va lontano: una raffica di mitragliatrice partita da una postazione tedesca stronca all’istante la sua giovane vita. Avrà gridato? Se ne sarà reso conto?»
(13, continua)
© Costantino Jadecola, 1993.