LE FRASCHETTE, LUOGO DI DOLORE

Ma a Frosinone c’era o non c’era un campo di concentramento? A provocare il quesito fu, nel 1998, un passaggio di un libro di Arrigo Petacco pubblicato quell’anno, L’archivio segreto di Mussolini, nel quale l’autore riporta tra virgolette parte di «un lungo rapporto dell’OVRA (Opera Volontaria di Repressione Antifascista, nda) sull’attività politica-economica-amorosa del gerarca cremonese» Roberto Farinacci. Petacco scrive che questo rapporto «è del 1940 e contiene l’elenco completo delle sue malefatte(di Farinacci, nda), dalle speculazioni ‘della banda Farinacci, Varenna, Candiani, sempre sotto accusa quando c’è uno scandalo’, ai suoi intrallazzi per favorire gli ebrei ricchi mentre nel contempo manifesta il proprio antisemitismo facendo ‘rinchiudere nel campo di concentramento di Frosinone due giovani israeliti, Vito e Salvatore Fano, di Roma, colpevoli di avere rivolto la parola a due ragazze ariane’»[1].
Ora, se queste cose Petacco le avesse scritte lui, evidentemente non ci sarebbero stati problemi per saperne di più; dal momento, però, che di esse egli ne è il semplice trascrittore, è difficile che possa darne ulteriori delucidazioni.
Non resta, allora, che ipotizzare qualche soluzione. Della presenza di un campo di concentramento a Frosinone, inteso come città, tracce non ce ne sono. Né pare vi sia cenno alcuno nel libro di P. Francesco Tatarelli La morte viene dall’alto” [2], la più esaustiva pubblicazione sulle vicende di guerra capitate al capoluogo.
Può, dunque, ragionevolmente supporsi che potrebbe trattarsi, piuttosto, del campo di concentramento delle Fraschette, un’ampia fascia di territorio ad ovest di Alatri «delimitata da grosse mura» dove vennero costruite «174 baracche, di cui un centinaio attrezzate a dormitorio»[3]. Esso venne realizzato «dopo l’occupazione e lo smembramento della Jugoslavia, nel 1941», quando, scrive Mario Costantini, «all’Italia andò parte della Slovenia, il litorale dalmato della Croazia, il Montenegro ed il Kosovo. Seguì una vera e propria operazione di ‘pulizia etnica’, con la massiccia migrazione forzata di parte di quelle popolazioni (500.000 persone circa) verso campi di internamento realizzati in Italia e in Albania. Alcuni furono realizzati a Cairo Monte Notte, Fossalon di Grado, Gonars, Grumello al Piano, Lanciano, Lipari, Monigo, Renicci ed Alatri. Questi campi erano gestiti al di fuori delle disposizioni normative in materia, con il risultato di alti indici di mortalità e condizioni di vita raccapriccianti».
Quello delle Fraschette è un problema che emerge nell’estate del 1943, quando, come scrivo in un mio libro[4], «sono suoi ‘ospiti’ oltre 5.000 persone fra croati, slavi, sloveni, montenegrini, albanesi e tripolini italiani».
A creare le maggiori preoccupazioni è, però, la presenza di «un numero rilevante di bambini» ai quali, scrive don Giuseppe Capone, manca la benché minima assistenza, «quell’assistenza di cui avrebbero avuto estremo bisogno. La mortalità nel campo, specialmente tra i piccoli, era grande. I fanciulli infatti erano privi di ogni cura e lasciati per tutta la giornata in balia di se stessi. La ristrettezza delle baracche induceva le mamme a spingerli fuori» [5].
Ed è proprio grazie all’impegno del vescovo di Alatri, mons. Edoardo Facchini, se gli internati delle Fraschette possono beneficiare, dal 18 luglio del 1943, dell’assistenza e delle attenzioni di una sparuta pattuglia di suore Giuseppine “capitanata” da madre Mercedes Agostini.
Appena passata la guerra, che anche alle Fraschette lascia le sue drammatiche testimonianze di morte e di dolore, «le baracche di cartone bruciato, ancora intrise di sangue dei Tripolini e dei Montenegrini, furono ricostruite», scrive, invece, il compianto Alberto Minnucci, «per internare profughi di tutte le razze. Vi furono distinti due campi: il famigerato ‘Campo 1’ per le ‘canaglie’ che non avrebbero potuto uscirne mai, e il ‘Campo 2’ per i tollerabili o recuperabili. Al centro sorse una cappella. Le due zone per il Padre Buono (mons. Facchini, nda) non furono che distinzione topografica: Egli si pose al centro dei figli prediletti per rivolgere agli uni e agli altri l’affetto e la parola di Dio, Padre di tutti».
«Dopo l’8 settembre 1943», scrive ancora Mario Costantini, «il campo non ebbe più sorveglianza esterna. Iniziarono saccheggi e distruzioni. I tedeschi operarono rastrellamenti in cerca dei giovani del campo. Il 22 febbraio 1944 venne impartito un primo ordine di partenza per gli internati rimasti al campo, ma i bombardamenti e la conseguente interruzione della linea ferroviaria verso Roma, indussero a rimandare il proposito. I tedeschi, in quell’occasione. arrestarono 7 soldati inglesi nascosti nel campo. Il 23 febbraio un bombardamento alleato procurò 7 morti e alcuni feriti. Gli internati vennero trasferiti ad Alatri ed ospitati presso l’Ente Conte Stampa. La sera del 25 febbraio dalla Piazza S. Maria Maggiore il primo gruppo di internati partì alla volta di Roma. La loro destinazione finale era il campo di concentramento di Fossoli, presso Carpi, dove giunsero il 2 marzo 1944».
La storia delle Fraschette, però, non finì lì. Dopo il 1944 il campo ospitò prima prigionieri tedeschi, poi profughi italiani di Istria, Dalmazia ed Africa e quindi quelli in fuga dai regimi comunisti, specialmente ungheresi. Fra i quali si ricorda la presenza dell’attaccante Lászió Kubala che occupa la 32ª posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo pubblicata dall’IFFHAS (la Federazione Internazionale di Storia e Statistica del Calcio) nel 2004 e di Isidoro Marsan cestista, allenatore di pallacanestro e imprenditore. Negli anni ’60, invece, fu la volta degli italiani residenti nelle ex-colonie a seguito dei decreti di espulsione degli immigrati europei che vennero rimpatriati a ondate almeno per un decennio.
Tornando alla notizia riportata da Arrigo Petacco, ci si chiede: ma si trattava di un concentramento vero e proprio o di posti di confino? Se così fosse l’attenzione dovrebbe spostarsi su San Donato Val Comino e Picinisco che, appunto, tali furono. Qui, infatti, per lungo tempo trovarono ospitalità molti ebrei, quasi tutti appartenenti a nazioni in guerra contro Germania e Italia: tra loro, Margarete Bloch, l’amante di Franz Kafka. Una triste storia la sua. Costretta a lasciare la Germania per motivi razziali, dopo varie peregrinazioni riesce infine a riparare a Firenze. Scoperta, è obbligata a trasferirsi con foglio di via a San Donato Val Comino. Una permanenza nel corso della quale maturò l’idea di convertirsi al cristianesimo — dettagli per i quali rimando al mio libro Linea Gustav[6] — prima di affrontare l’ultimo viaggio verso Auschwitz.
© Costantino Jadecola, 2002
[1] Arrigo PETACCO, L’archivio segreto di Mussolini. Mondadori. 1998, p. 28.
[2] Francesco TATARELLI La morte viene dall’alto. Casamari. 1978.
[3] AA. VV. Edoardo Facchini. Sacerdote, vescovo, patriota. A.P.C. Frosinone. 2005, p.61
[4] Costantino JADECOLA, Mal’aria. Centro di studi sorani “V. Patriarca”. Sora. 1999.
[5] Giuseppe CAPONE, La provvida mano. Casamari. 1973.
[6] Costantino JADECOLA, Linea Gustav. Centro di studi sorani “V. Patriarca”. Sora. 1994.