VENDETTA! TREMENDA VENDETTA!

Da briganti a emigranti: un percorso obbligato. Sempre che le cose non andavano diversamente: ad esempio, non si finisse ammazzati.
Storie del Sud datate seconda metà dell’Ottocento dove per Sud deve intendersi quel Regno delle Due Sicilie che i piemontesi vennero a prendersi con la forza e con l’inganno promettendo mari e monti, come se ne fossimo privi, ma in realtà lasciando tutto come prima. Anzi, peggio di prima. Del resto, il Gattopardo sintetizzò egregiamente quella situazione che oggi, peraltro, incomincia a trovare insospettabili ed autorevoli conferme. Si arriva addirittura ad ammettere che «la borghesia del Nord costruì l’immagine ‘africana’ del Sud» (Panorama. Anno XXXIX. N. 45. 8 novembre 2001. Pagina 237), conclusione emersa di recente in un convegno organizzato dalla Fondazione Agnelli ma già anticipata sin dal 1864 da Alessandro Bianco di Saint-Jorioz nel suo libro sul brigantaggio alla frontiera pontificia.
Da briganti a emigranti, dunque. Un percorso obbligato che, senza sollecito alcuno, spontaneamente, la gente del Sud fu costretta a percorrere. Mille e mille rivoli di origine diversa per destinazioni di cui si conosceva men che niente. Al di qua e al di là dell’Oceano.
Uno di questi rivoli nasceva a Pastena — terra dove il brigantaggio costituì un fenomeno di rilevante importanza ancorché poco noto — e si concludeva generalmente nel Colorado. Nelle miniere del Colorado. Come fosse stata decisa questa meta, vai a saperlo. Sta di fatto che un cronista del tempo non può non notare che qui «la popolazione attiva — diciamo così — è solo formata da donne». Infatti, «gli uomini, i giovani, tipi robusti e forti di montanari, non appena hanno messo insieme il gruzzolo che loro permetta di recarsi in America, partono per far fortuna».
Così fece, forse verso la fine del 1895, anche Gaetano Longo, classe 1872, che era stato militare in fanteria e, quindi, congedato da caporale. Da un paio d’anni aveva sposato Annunziata Lucente, vent’anni non ancora compiuti, che già da un po’ aveva messo in cinta. Per regolare la situazione, cioè per condurla all’altare, Gaetano, però, non si accontentò della dote pattuita. Pretese il doppio. Cosicché la madre di Annunziata dovette sottoporsi a non pochi sacrifici per accontentare il futuro genero e sistemare la figlia. La nascita di Antonio, avvenuta qualche tempo dopo il matrimonio, apparve comunque il naturale suggello ad uno stato di cose che a quel tempo probabilmente rientrava nella normalità. Non molto tempo dopo, quindi, la decisione di Gaetano di partire per gli Stati Uniti d’America. Ed un solo fine, comune, peraltro, a tutti quelli che partivano: ‘fare fortuna’ e tornare a Pastena con un pugno di dollari in tasca.
Dopo le naturali e scontate difficoltà iniziali, le cose evidentemente presero ad andargli bene se a novembre del 1899 egli inviò al sindaco di Pastena, Mattia Bartolomucci, «seicentoquarantalire in oro», poco meno di tre milioni e mezzo di oggi, con l’incarico di acquistare un certo pezzo di terra. Ma l’affare non si concluse ed il sindaco, evidentemente d’accordo con Gaetano, diede allora le 40 lire, «più il guadagno sul cambio», ad Annunziata mentre depositò le altre 600 presso la Cassa di risparmio; ancora qualche mese ed a marzo del 1900 Gaetano inviò al sindaco «altre cinquecentoquaranta lire»: 400 da depositare per «completare le mille lire» e 140 da dare alla propria madre.
E per Annunziata? Per Annunziata niente. Ma perché? Riferiscono le cronache che, essendo «di temperamento oltremodo sensuale, si era abbandonata a facili amori, che ebbero le loro conseguenze. Difatti restò incinta. Dapprincipio poté celare il suo stato, ma venne il giorno in cui ciò non fu più possibile»; Dante Grossi, poi, aggiunge che a «spingerla fra le braccia di un amante contadino furono i parenti stessi della fedifraga, probabilmente scontenti dell’affrettato matrimonio che Gaetano aveva voluto contrarre»[1].
La notizia varcò l’Oceano e giunse, naturalmente, alle orecchie dei pastenesi che lavoravano con Gaetano. Al quale, invece, ebbe cura di parteciparla un suo compare di Lenola, certo Celeste, invero molto generoso nel fornire anche i dettagli di ciò che Annunziata andava facendo.
Gaetano non ci pensò due volte e col primo vapore tornò a Pastena dove, in cuor suo, mai lontanamente aveva pensato di tornare in quel modo. Era l’11 giugno 1900 quando arrivò in paese ma si guardò ben dal farsi vedere in giro. Gli unici contatti gli ebbe con la madre della moglie dalla quale seppe che Annunziata era a Roma «per sgravarsi». Cosicché anche lui andò nella capitale.
La cosa, però, non sfuggì ai carabinieri di Pico, che avevano, ed hanno ancora oggi, giurisdizione su Pastena, dove una stazione non c’è mai stata, ed il brigadiere Bianco Carlucci pensò bene di telegrafare a Roma. Convocato presso «la questura dell’Esquilino», Gaetano assicurò di aver perdonato la moglie e quando di lì a qualche giorno tornò a Pastena, anche se non tornò a vivere con lei, sembrò davvero rassegnato a ciò che gli era capitato mostrandosi addirittura molto cordiale nei confronti di Annunziata allorché gli capitava di incontrarla per via. Sembrava che ogni rancore fosse ormai sopito tant’è che non erano pochi coloro i quali non avrebbero esitato a scommettere su una riappacificazione fra i due anche perché più di qualche notte Gaetano l’aveva passata con Annunziata, a casa di questa. Pare, tuttavia, che nelle ore passate insieme, Gaetano si facesse raccontare da Annunziata, come dire, per filo e per segno, di quelle sue avventura di cui tutta Pastena, e non solo Pastena, parlava; il suo interesse maggiore, però, era per i nomi di coloro che avevano avuto occasione di frequentarla.
Uno di quei giorni, intanto, venne a far visita a Gaetano Celeste, il compare di Lenola, che a Pastena, era considerato una specie di stregone: «vanta la potenza misteriosa di certe erbe e di certe polverine di sua fabbricazione per la guarigione dei mali, conversa coi santi e coi diavoli, predice il futuro, indovina il passato e… corbella il prossimo». I due stettero a lungo a parlare all’ombra di un pianta di fico e non è da escludersi che proprio in questa circostanza Gaetano esponesse al compare in che modo aveva deciso di attuare la sua vendetta. «Il compare, però, malgrado la sua confidenza coi diavoli, trovò che questa era più terribile di quello che si possa concepire anche da un demone e fu udito sconsigliarlo».
Il suo parere, tuttavia, non interferì minimamente nel programma che Gaetano di sicuro aveva già abbozzato quando ancora si trovava negli Stati Uniti se è vero che tra le cose che aveva portato con se c’era un fucile da caccia calibro 16, «a percussione centrale», che a Pastena non se ne era mai visto di uguali; poi, verso la fine di agosto, sempre dall’«America» gli era giunto una cassetta contenente «ferro senza valore» — questo, infatti, era il contenuto che si dichiarava — ma che in realtà custodiva una rivoltella a cinque colpi calibro 9, impugnatura di osso nero cesellata, ed una consistente scorta di proiettili sia per il fucile che per la rivoltella: «il piombo delle cartuccie da fucile era quello chiamato da caprioli, i proiettili della rivoltella erano scheggiati in modo da rendere qualsiasi ferita, se non mortale, pericolosa».
Quel martedì 13 settembre dell’ultimo anno del diciannovesimo secolo Gaetano uscì di casa di buon ora armato di tutto punto: cartucciera doppia intorno alla vita, fucile ad «armacollo» e rivoltella in tasca.
In un viottolo di campagna nella zona di Ponte Nuovo s’imbatte in Giovanni Mattarocci, 21 anni, uno di quelli che avrebbe avuto una relazione con Annunziata: fra i due c’è una discussione molto animata che ben presto viene conclusa da un colpo di fucile sparato a bruciapelo da Gaetano in faccia al suo interlocutore. Che, fulminato, stramazza al suolo.
Con tutta calma, come se niente fosse accaduto, Gaetano continua per la sua strada dirigendosi verso un lavatoio a circa tre miglia da Pastena dove era sicuro di incontrato la moglie. Annunziata, infatti, era lì per lavare la biancheria di un certo Bartolomucci e con lei c’era anche una sua amica, Luigia Longo. Fu proprio questa ad accorgersi per prima dell’arrivo di Gaetano ed avvertì Annunziata. Che, però, lì per lì restò del tutto indifferente. Ma appena dopo, quando si trovò il marito di fronte, per di più armato, all’istante mutò atteggiamento. E appena dopo cercò protezione riparando dietro Luigia ed aggrappandosi alle sue spalle.
- «Scostati che ti debbo ammazzare», le gridò Gaetano. Lei, di rimando, supplicò il perdono. Ma l’invocazione si perse nell’aria. A Gaetano non ci volle molto per immobilizzare Luigia. Poi puntò la rivoltella alla gola della moglie e sparò. Annunziata cadde con le braccia ancora alzate in segno di una vana protezione mentre Luigia rimase come inchiodata dove si trovava. Gaetano le puntò il fucile contro ma poi evidentemente si rese conto che non era nella sua lista e proseguì il cammino sulla strada della vendetta.
Il successivo obiettivo era Luigi Mattarocci, 40 anni, nessun grado di parentela con Giovannino, la prima vittima, ma, come Giovannino, anche lui amante di Annunziata. Lo trovò intento al lavoro dei campi nel suo podere insieme al fratello Gaspare (52) ed alla moglie di questi, Angela (55): due colpi di fucile ebbero come destinatari i due fratelli; Angela, inorridita, corse verso casa e si chiuse la porta dietro. Ma Gaetano, che l’aveva inseguita, con un violento calcio riuscì ad aprirla e, una volta dentro, sparò sulla donna che cadde priva di vita nel focolare.
La successiva vittima avrebbe dovuto essere il padre di Giovannino Mattarocci. Ma per sua fortuna non era in casa. C’era, invece, la figlia Giovannina, 23 anni, «bellissima e formosa giovane» in predicato per diventare modella a Roma, richiesta da alcuni pittori, che piangeva per la tragica fine del fratello. Quando si trovò Gaetano di fronte, naturalmente inveì contro di lui «con parole roventi». Ma Gaetano, senza scomporsi, per tutta risposta le esplose un colpo contro che sfracellò la testa della ragazza: «Giacché non ho trovato tuo padre, ammazzo te!», fu il commento.
Ma la vendetta non si era ancora conclusa. Si recò, infatti, nel podere di Giuseppe Persicone, 58 anni, il cui figlio Gennaro, 38, «altro e speciale favorito» di ‘Nunziata’, era proprio lì a portata di mano. Anzi di fucile. Gaetano sparò un paio di colpi, stavolta, per fortuna, non proprio precisi: Gennaro, ferito, era finito in un piccolo burrone che era alle sue spalle. Gli spari, tuttavia, insospettiscono i genitori di Gennaro, Giuseppe e Annamaria De Angelis, che si precipitano a vedere cosa è accaduto. Ma tutti e due vengono freddati da altrettanti colpi. Poi Gaetano si accorge che Gennaro non è morto e gli spara contro altri due colpi. Anche questi, per fortuna, non mortali.
E quindi la volta di un altro membro della stessa famiglia, Vincenzo, 50 anni, il quale, però, evita i primi due colpi che Gaetano gli spara nascondendosi dietro una quercia; poi, profittando che l’assassino è impegnato a ricaricare il fucile, fugge a gambe levate verso Pastena.
Nei piani di Gaetano dovrebbe essere, a questo punto, Domenico Peloso con il quale c’erano vecchi ancori. Ma mentre si avvia verso la sua abitazione il caso vuole che egli incroci sul suo cammino Fabiana Saraceno, 25 anni, «con la quale aveva amoreggiato prima di prender moglie».
- Se mi avessi sposato tutto questo non sarebbe accaduto. Dammi la mano! le dice Gaetano.
Ma la donna, già a conoscenza di ciò che il suo interlocutore aveva fatto, «si ritrae con raccapriccio».
- Non vuoi darmi la mano? Bene, allora ti lascio un ricordo!
Estrae la rivoltella, la punta alla testa di Fabiana ed esplode un colpo. Ma la donna è sollecita a schivarlo e resta solo leggermente ferita all’avambraccio.
A questo punto la consueta tranquillità tanto brutalmente sconvolta torna a riappropriarsi di quei luoghi segnati nel volgere di una giornata da otto morti e due feriti. E di Gaetano si perde ogni traccia.
Da Pico intervengono i carabinieri, che qualcuno, intanto, si è preso la briga di andare ad avvertire. Ma sono appena tre cosicché il brigadiere Bianco Carlucci, una volta giunto a Pastena si vede costretto per forza di cose a rinforzare le schiere, si fa per dire, arruolando una quindicina di volontari. Il sindaco Bartolomucci, nonostante sia ammalato, non esita anche lui a darsi da fare; arriva, poi, il capitano dei carabinieri, cav. Ugo Federighini.
Inizia una vera e propria caccia all’uomo mentre il terrore domina su Pastena e nelle campagne circostanti. L’oscurità della notte non semplifica le cose. Anzi, accresce i timori.
E’ una situazione di stallo dagli sviluppi imprevedibili. Se ne rende perfettamente conto il capitano Federighini che a quel punto ritiene sia ormai il caso di allertare le stazioni dei carabinieri, quanto meno quelle intorno a Pastena con ordini che necessariamente dovevano essere ‘trasmessi’ a mano.
Manca giusto un quarto d’ora alla mezzanotte di quel tragico 13 settembre quando tre colpi di arma da fuoco riecheggiano per la piana di Pastena. Ma è difficile stabilire da dove provengano. Lo si saprà solo qualche ora dopo, all’alba, quando due contadini, correndo all’impazzata, andranno a riferire al sindaco Bartolomucci, che era con il capitano Federighini, che Gaetano Longo si era suicidato all’ingresso del cimitero.
«Giaceva sul fianco sinistro con le braccia volte in alto. Dalla gola correva un rivolo di sangue che aveva formato una specie di pozzanghera sotto il corpo». E così rimase fino a quando da Cassino non giunse il giudice istruttore, «il cav. Francesco Basso venuto sollecitamente sul luogo col cancelliere Ferdinando Di Giovanni», per eseguire i rilievi di legge.
Intanto, ad osservare con più attenzione il cadavere di Gaetano Longo qualcuno notò che nel suo abbigliamento mancava di sicuro la giacca ed il panciotto che altri assicurarono egli indossasse quando il giorno prima era uscito di casa.
Ma ci si rese anche conto che mancavano addirittura le armi. Sia il fucile che la rivoltella. Si convenne che il fucile l’avrebbe potuto gettar via lui stesso prima dell’insano gesto. Però, come l’avrebbe potuto compiere se mancava anche la rivoltella? Di questa, peraltro, «si trovò solo un pezzo della lastra di osso che copriva l’impugnatura dell’arma, e niente altro».
In tasca, poi, gli trovarono solo un portamonete con dentro due lire e mezzo quando un pò tutti sapevano che al suo ritorno a Pastena, a giugno, aveva ritirato dalla Cassa di risparmio le mille lire che suo tempo erano state versate per suo conto dal sindaco Bartolomuci.
A quel punto, inevitabilmente, si affacciavano un paio di ipotesi: o che qualcuno avesse derubato Gaetano Longo appena dopo ucciso di tutto ciò che possedeva o che lo stesso Longo, prima di compiere l’insano gesto, avesse di persona dato ogni cosa al suo compare di Lenola o a qualche altro. Ma in questo rimaneva pur sempre la scomparsa della rivoltella che, di conseguenza portava necessariamente a propendere per la prima ipotesi.
Che l’assassino-suicida, dopo aver ferito Fabiana, si sia recato a Lenola dal suo amico ‘stregone’, Celeste, viene dato per scontato da Dante Grossi il quale aggiunge che Gaetano avrebbe addirittura imposto al compare di seguirlo a Pastena dove avrebbe dovuto completare l’opera iniziata al mattino. Suo malgrado, Celeste fu costretto ad accettare anche perché, probabilmente, non aveva altra possibilità di scelta: «Il loro cammino», scrive Grossi, «ebbe termine davanti al cancello del cimitero; e in quel punto il pluriomicida intimò al compare di togliergli la vita». Con il fucile o con la rivoltella? L’autopsia, che sarà eseguita su tutti i cadaveri dai dottori Oreste Del Foco, Anacleto Grossi e Ettore De Vivo, tutti e tre di Cassino, dirà solo, dopo che il cranio di Gaetano era stato segato, che su una parete di esso si era schiacciato il proiettile rinvenuto nella materia cerebrale.
Fu, allora, il fattucchiere di Lenola a far sparire giacca, panciotto, armi e tutto il resto? Non sparì, invece, oltre al portafoglio, senza soldi, e ad una «cartata» di cartucce per la rivoltella, un taccuino sul quale, a lapis, Gaetano annotò una sorta di testamento ovvero, come scrissero allora i giornali, «un importante documento umano»: «Spiego alla giustizia italiana, che non da ragione a chi la tiene ma che da ragione alle p… perché è una legge fessa quella italiana mentre in Frangia e America quando un povero omo è sperso pel mondo guadagnando un pezzo di pane per la famiglia la schifosa donna lo carica pure di corna. In Frangia e in America gli si permette di denunziarla cioè a dire allontanarla permanentemente e no come la schifosa leggio italiana che dopo che la donna tradisce il marito la garantisce pure, questa leggio la chiamo leggio p… issima. E perciò io non trovando giustizia l’ammazzo tutte quante ste p… ecc…
«Egregia Gran Corte io parlo a voi e vi spiego perché? Ho commesso questo fatto. Stamane mi sono incontrato in S. Belardino con mia moglie alla quale sono ditto: che se sete venuta a fare lei, sono venuta per questo motivo, o voi ammazzate a me o io ammazzo a voi ed io egregia giustizia ho creduto di ammazzare lei. Non imputate altre persone perché sono stato io solo tutto venne per parte nostra.
«Finisco salutando il re e la regina, l’illustrissima bandiera e raccomando a re Vittorio che non facesse torto a mio figlio Antonio Longo.
«Voglio che mia madre comprasse il posto a camposanto, se non tiene soldi faccia debiti.
«Questo spiego e questi fatti li ho fatti oggi 13 settembre 1900».
Intanto gli stessi medici che hanno eseguito l’autopsia di Gaetano Longo la eseguono anche su quelli delle sue otto vittime che su rozze barelle improvvisate vennero depositati «alla rinfusa in una catapecchia che sta per crollare» del cimitero.
Due giorni dopo, il 15 settembre, sui giornali compaiono le prime, brevi frammentarie notizie sulla strage. Il 16, invece, «la tragedia di Pastena», ovvero «l’orrenda vendetta di un marito tradito», guadagna spazi molto più ampi ospitando i lunghi e dettagliati resoconti degli inviati speciali, come oggi si direbbe, ma che allora beneficiavano della citazione del solo cognome, tra parentesi, in apertura dell’articolo. Quello de Il Messaggero si chiamava Turchi ed è quello dal cui servizio sono stati ripresi alcuni dei ‘virgolettati’ citati.
Era partito da Roma presumibilmente nella tarda mattina del 14 settembre. Infatti alle 16,38 era riuscito a trasmettere al giornale, da Ceprano, l’essenziale, quattro, cinque righe, che chiudevano con questo messaggio: «Proseguo per Pastena».
Nell’articolo del giorno dopo, datato 15, la prima informazione che fornisce è questa: «Sono giunto a Pastena alle 5 di questa mattina». Dodici ore per 13 chilometri. In compenso Turchi resta impressionato da Pastena tant’è che il prologo del suo resoconto è tutto dedicato al paese ed ai suoi abitanti: «Il piccolo paese sorge nella cima di una collinetta tutta verde di ulivi e di querce circondata dall’alta montagna, brulla e sassosa.
«Le case stanno addossate alla roccia calcarea. Sono quasi tutte a un piano dall’apparenza triste e uniforme.
«Le vie del paese, se vie si possono chiamare i sentieri da capre che conducono alla piazza principale sono disseminate di sasso calcareo che logorato dalla pioggia si presenta aguzzo alle deboli e sottili suole di una scarpa cittadina.
«Questi inconvenienti del paese sono però largamente compensati dalla bellezza delle sue donne.
«Le donne di Pastena, dai capelli biondi bruciati dal sole, hanno nei lineamenti finissimi, nella carnagione abbronzata qualcosa di voluttuoso, di languido, che trionfa nel loro costume paesano. Vestono infatti col busto nero sopra la bianca camicia; hanno la gonna corta e i piedi calzati in ciocie benfatte e adattate alla gamba.
«In testa poi il panno bianco e sul davanti il grembiule nero».
Ma la vicenda che ha avuto per protagonista Gaetano Longo guadagna addirittura la copertina della Domenica del Corriere[2] – L’eccidio di Pastena. Una colossale vendetta familiare, questa la didascalia — con un disegno in cui il mitico Achille Beltrami raffigura il momento in cui Gaetano spara alla moglie mentre questa cerca di trovare protezione nascondendosi dietro l’amica Luigia mentre, sullo sfondo, si vede il cadavere della prima vittima, Giovannino Mattarocci.
Inevitabilmente, la tragedia di Pastena divenne, come allora era costume, una storia da cantastorie i quali, spostandosi sulle varie piazze in occasione delle fiere e dei mercati, raccontavano di uno che «Il tredici settembre / del millenovecento / armato fino ai denti / per le campagne andò…».
© Costantino Jadecola, 2002.
[1] Dante GROSSI, Pastena di Ciociaria. Edizioni SEAM, Roma 1994, pp.275 e segg. anche per le successive citazioni.
[2] 30 settembre 1900. Anno II, numero 39.