IL RECUPERO DEI CADAVERI DOPO LA GUERRA

Quando finalmente arrivò alla stazione di Roccasecca, non con il treno ma a piedi — casa sua, infatti, era da quelle parti — l’unica cosa che costituì per lui motivo di attrazione fu il silenzio che gravava sulla zona, un silenzio rotto ad intervalli regolari dallo sbuffare di una locomotiva.
Ma più che da questo sbuffare Marc’Antonio rimase attratto da quello strano silenzio cosicché, un po’ perché doveva comunque passarci per andare a casa — che era a via del Querceto, detta anche vicolo degli Sgherri — un po’ perché quel silenzio sapeva tanto d’irreale, affrettò il passo, entrò nell’edificio della stazione e ne uscì dall’altra parte, dov’erano i binari.
La locomotiva continuava a sbuffare. Ma non era sola: si portava dietro parecchi vagoni stracolmi di militari tedeschi e, da come il convoglio era posizionato, non ci voleva più di tanto per capire che era diretto al sud.
Era l’indomani, giorno più giorno meno, dell’8 settembre 1943. Marc’Antonio Rezza, vent’anni, sebbene fosse in possesso della sola licenza elementare, tra il ’41 e il ’42 aveva lavorato alla BPD di Colleferro come analista chimico. Poi, più che la guerra, il servizio militare. Lo stava espletando a Perugia da circa tre mesi quando l’armistizio convinse anche lui che l’unica cosa da fare, a quel punto, era tornare a casa.
Come Dio volle arrivò a Roma. Di qui, però, non riuscì a trovare niente di meglio che il trenino delle vicinali: quello per Fiuggi, per intenderci. Cosicché da Fiuggi a Roccasecca aveva dovuto farsela a piedi.
Ora, trovarsi al cospetto di quel convoglio stracolmo di soldati — alcuni erano addirittura “ai bordi” della locomotiva — e restare impietrito fu per Marc’Antonio un tutt’uno. Del resto, ben sapeva come stavano le cose. Ma cosa fare, allora, per sbloccare quella situazione?
Con molta cautela, trattenendo il fiato in gola, cominciò ad indietreggiare lentamente, anche se gli sembrò di capire che nessuno se lo filava. Ma la prudenza, si sa, non è mai troppa.
Non appena ritenne che il “pericolo” fosse passato, schizzò via e guadagnò finalmente la strada di casa.
I giorni a venire furono vissuti nell’incertezza delle circostanze finché il 23 ottobre la consueta monotonia venne bruscamente interrotta dal bombardamento della stazione di Roccasecca ad opera di aerei alleati impegnati a distruggere le postazioni strategiche per evitare che i tedeschi potessero servirsene. Quando accadde, come del resto sovente capitava, Marc’Antonio stava lavorando nei campi con papà Domenico e mamma Francesca (Di Rollo). Appena il tempo di tornare in casa e si entrò nel vivo del finimondo: le mucche, nella stalla, “rompono la capezza” e fuggono via; la sorella Tomasina, che sta accudendo al forno, viene letteralmente sepolta dalla brace del forno stesso; l’altra sorella Antonietta, che si trova in un’altra camera, la ritrovano sotto un cumulo di macerie; Marc’Antonio, invece, rimedia una ferita alla testa.
Vari eventi ma soprattutto il fatto che i tedeschi predispongano in zona, che è quella altrimenti detta “Campo del medico”, cucine da campo e batterie d’artiglieria consigliano la famiglia Rezza a guadagnare la più protetta zona di Caprile, almeno così la ritengono, dove si “stabiliscono” all’Ornale Cupo, una grotta molto profonda e vasta, che anche altri utilizzano come rifugio.
Ad evitare il peggio, ovvero ad evitare di correre il rischio di essere catturati dai tedeschi che in quel tempo vanno a caccia di uomini per utilizzarli nella costruzione della linea Gustav , in sette — otto si nascondono in una grotta nella grotta, quella detta “Colamattei”, il cui accesso è protetto da un grosso masso: il giorno lo passano giocando a carte; la notte, invece, escono all’aria anche per soddisfare, come suol dirsi, i cosiddetti bisogni fisiologici.
Tutto fila liscio, si fa per dire, fino a quando i tedeschi non individuano il nascondiglio. Sono momenti molto drammatici: mentre uno degli occupanti, Andrea Vicini, mostra ai tedeschi il suo documento d’identità, ovvero la tessera di ferroviere, gli altri, dopo essersi scambiato un cenno d’intesa, ne approfittano per scappare via.
La reazione dei tedeschi, che sono appostati tutt’intorno alla grotta, non si fa attendere. Marc’Antonio, in particolare, prende a correre per la mulattiera che scende verso Caprile dove, a un certo punto, viene invitato ad entrare in casa da una anziana donna che stazionava sull’uscio e che aveva seguito l’evolversi della situazione.
Appena dopo la porta, però, il solaio mancava del tutto. Al suo posto c’era, invece, un lungo tavolone mobile che consentiva di accedere all’interno dell’abitazione per cui, una volta utilizzato, poteva essere ritirato e nascosto: Marc’Antonio se ne avvide appena in tempo e passò le successive due ore “sepolto” tra fascine di rami di vite col terrore di essere scoperto dalle pattuglie tedesche che, in verità, più di una volta aprirono il portoncino ma, vista la mancanza del pavimento, desistettero dall’andare oltre.
Cessato il pericolo, la successiva tappa della famiglia Rezza fu Santopadre, dove attese la fine della guerra per poi tornare a Roccasecca, a “casa”.
E qui, un certo giorno, ricompare Rocco, fratello di Marc’Antonio: era andato, a suo tempo, a combattere in Africa; successivamente si era aggregato agli alleati per conto dei quali svolgeva il compito ingrato ma molto ben remunerato di becchino. Rocco chiede al fratello se vuole seguirlo in quel lavoro e siccome a quei tempi in giro non si trovava non solo niente di meglio ma niente di niente Marc’Antonio aderisce senza esitare alla proposta del fratello. Entrambi raggiungono Caianello, sede della base operativa, dove Marc’Antonio per un paio di giorni viene iniziato al lavoro propostogli dal fratello: si tratta, in sostanza, di recuperare non solo i cadaveri dei soldati che avevano fatto parte dell’esercito alleato e la cui collocazione era stata documentata dai commilitoni che avevano provveduto alla provvisoria sepoltura ma anche tutti gli altri in cui ci si imbatteva. L’abbigliamento per espletare tale ingrato compito era costituito da stivaloni del tipo di quelli usati dai pescatori ma ancora più lunghi (arrivavano sino al braccio); iniezioni, pillole e sigarette, invece, dovevano proteggerli da pericolosi contagi e dal puzzo dei cadaveri ormai in avanzata fase di decomposizione.
Per Marc’Antonio questa attività al servizio degli alleati — poi fu anche guardiano del cimitero di Caianello finché i morti non vennero trasferiti a quello di Nettuno — durò circa quattro anni beneficiando di un compenso mensile di circa 45.000 lire che per quei tempi non erano niente male, anzi. I primi interventi li compì sulle pendici di Montecassino, verso Caira, dove, oltre ai cadaveri, non era raro imbattersi in volumi evidentemente trafugati dalla biblioteca del monastero benedettino. I corpi recuperati venivano posti in sacchi di cotone – che come lenzuola, peraltro, non erano niente male — e poi trasferiti e quindi sepolti nel cimitero provvisorio di Caianello; quelli rinvenuti in posizione “impossibile” per un recupero “dignitoso”, dove, cioè, non si poteva accedere con i mezzi, venivano fatti rotolare sulle pendici della montagna. Un particolare li accomunava tutti: questi morti raccolti in montagna erano letteralmente bianchi per via della polvere della roccia stritolata dalle bombe che si era accumulata su di essi.
Marc’Antonio ne recuperò una decina anche presso il cimitero provvisorio tedesco di Roccasecca e ancora nella zona di Roccasecca recuperò anche gli equipaggi degli aerei alleati che nel bombardamento della stazione del 23 ottobre ’43 si erano scontrati in volo: di uno di essi faceva parte anche una donna identificata dalla piastrina per Bianca Maria Caruso.
L’ultima missione Marc’Antonio la compì sulle Mainarde nel recupero dei corpi degli occupanti, pare dodici persone, di un aereo militare in volo tra Napoli e Pescara. Di questo aereo che in una giornata di nebbia andò a schiantarsi contro la cima della Metuccia (2.105 m.), tra Pizzone e Picinisco, ovvero tra Molise e Lazio, non tutti sono disposti a parlare. Anzi, tutt’altro. Qualche ammissione, ma a mezza bocca, e niente più: nel versante molisano ti dicono che furono quelli di Picinisco a fare “man bassa”; in quello laziale, invece, ti dicono che quando la notizia arrivò a Picinisco. dell’aereo erano rimasti solo i corpi degli occupanti, qualcuno addirittura ad una certa distanza dai resti dell’aereo segno che, ferito, aveva cercato soccorso.
L’aereo pare trasportasse una cassaforte. Che, ovviamente, non venne trovata. Come non vennero trovati i motori dell’aereo. Ma quello che soprattutto fece uscir dai gangheri gli americani fu la sparizione delle piastrine degli occupanti. Pare che le “ricerche” si concentrarono su Pizzone dove, a parte ripetuti annunci anche con l’affissione di manifesti, da Napoli sarebbe addirittura intervenuta la polizia militare che avrebbe minacciato a brutto muso la popolazione del piccolo abitato: secondo una fonte, per quelle minacce una persona sarebbe addirittura morta. Alla fine, comunque, le piastrine sarebbero ricomparse ed alcuni bambini le avrebbero consegnate all’autorità militare. Dopo che il parroco aveva fatto suonare le campane.
© Costantino Jadecola, 2000.