STORIA DI GINO (2)

Intanto la guerra si sposta verso nord e così pure il reparto di cui Jean, Gino, è la simpatica mascotte. L’ambiente in cui egli è costretto a vivere poco si adatta, però, ad un bambino della sua età cosicché, seppure a malincuore, si decide di affidarlo alle cure ed alle attenzioni degli uomini dell’Oss (Office of Strategic Services), un servizio specialissimo e assai delicato che disponeva di ampi mezzi e che, per quanto fosse talvolta impegnato in azioni molto rischiose, di solito godeva di ampia libertà. Jean non ha difficoltà ad adattarsi alla nuova situazione, trovando anche qui affetto e simpatia da parte di tutti.
Quando il reparto giunge nei pressi di Ravenna, va ad installarsi in una villa di Coccolia solitamente frequentata da un giovane del luogo, Antonio Farneti, il quale, con un nucleo di volontari italiani, aveva compiuto missioni per conto dell’Oss nei territori ancora occupati dai tedeschi. Jean familiarizza subito con Antonio e, soprattutto, con la sua fidanzata, Rina Zaccaria, che prende in simpatia il bambino venendone ricambiata: del resto, è la prima donna che Jean incontra sulla sua strada da diversi mesi a quella parte.
Un po’ per volta Jean finisce con l’entrare del tutto nella vita di Rina, nella cui casa ormai dorme e mangia, cosicché il giorno in cui il reparto deve per forza di cose spostarsi ancora più a nord, verso Verona, lui ci rimane molto male nel doverla lasciare.
Intanto la guerra finisce e per il reparto dell’Oss che ha “adottato” Jean arriva l’ordine di spostarsi in Estremo Oriente, in Giappone. Che fare del bambino? A chi affidarlo? Inevitabilmente si pensa a Rina Zaccaria, la quale, naturalmente, non se lo lascia ripetere due volte. E’ il 10 maggio 1945.
Antonio e Rina, che nel frattempo si sono sposati e trasferiti a Ravenna, prendono ad aver cura di Jean — intanto “ribattezzato” Gino — come se fosse un figlio loro. Ed è per loro una gran gioia vedere il bambino crescere a vista d’occhio, vivace ed intelligente.
Ma c’è un neo: Gino per la burocrazia non esiste. Scrive Tino Dalla Valle: «Aveva fame, e allora c’era ancora il razionamento alimentare, ma per Gino — solamente Gino, così senza un cognome — non si poteva avere una tessera. Poi, ormai cresciuto, bisognò mandarlo alle scuole e queste lo accolsero ma senza iscriverlo poiché Gino non figurava da alcuna parte.
“Egli non seppe niente di tutto questo fino a quando, alla fine dell’anno, andato per vedere i propri voti si accorse con stupore che il suo nome non figurava fra quelli dei compagni. La scuola lo aveva accolto col nome di Gino Farneti, gli aveva dato le pagelle per i trimestri tollerando qualche piccolo trucco, ma non poteva segnarlo sui propri registri ufficiali poiché Gino, ufficialmente, non era mai nato! »[1]
Quel giorno Gino andò a casa piangente e ci volle tutta la pazienza di “mamma” Rina per consolarlo.
Pazienza, tanta, tante innocenti bugie e piccoli stratagemmi furono le armi cui Antonio e Rina fecero ricorso perché Gino non si sentisse diverso dagli altri. Ma i giovani sposi si interessarono anche a cercare di rintracciare se non i genitori almeno qualche parente del bambino, facendo perciò pubblicare una sua foto sui giornali ed interessando un po’ tutte le questure del centro sud. Però senza alcun risultato anche se, dirà Antonio Farneti, più di qualcuno andò a vedere il bambino cercando di rintracciare, ma inutilmente, qualche segno particolare sul suo corpo che potesse consentire di identificare in Gino il proprio figlio, anche lui disperso per via della guerra.
La pratica per l’adozione intanto ristagnava non essendovi una legge cui potersi riferire per l’originale e particolare circostanza e dare così a Gino uno stato civile. Tutto ciò fino a quando il Procuratore della Repubblica di Ravenna non trovò un caso analogo riferito ad un bersagliere che dopo la prima guerra mondiale aveva adottato un fanciullo disperso. Su questa base, il tribunale di Ravenna diede a Gino il cognome di Antonio, che fu designato come tutore, ma con la “t” raddoppiata: Farnetti. Ed al comune venne anche redatto l’atto di nascita ma con l’indicazione del solo anno, il 1939. Quanto al giorno ed al mese, i coniugi Farneti presero a festeggiarne il compleanno il 10 maggio, ovvero il giorno in cui il reparto dell’Oss lo aveva affidato a loro, e così hanno continuato a fare per gli anni a venire, man mano che Gino cresceva ed incominciava ad aiutare “papà” Antonio nel suo negozio di pezzi di ricambio per auto e dopo ancora.
Della storia di Gino, nei suoi luoghi di origine se ne venne a sapere già sul finire del 1945 attraverso Il Rapido, un settimanalepubblicato a Cassino: «Un bambino biondo con occhi neri è stato raccolto alla periferia di Cassino dalle truppe canadesi. Egli non ha mai saputo dire con precisione il suo nome e non ricorda con esattezza il luogo dove abitava. I canadesi, che lo chiamavano Gino Brighegli, lo portarono con loro e lo lasciarono a Coccolia (Ravenna) il 10 maggio 1945. Da quel giorno è stato raccolto dalla famiglia di Antonio Farneti, Via Ravegnana 64, Coccolia. Ha circa sei anni di età, è robusto, fiorente, biondo con occhi neri».[2]
Un paio di mesi dopo, il giornale pubblica una foto del bambino ed altre notizie sulle vicende capitategli: «Il bambino ha oggi circa sei anni, è biondo, robusto. Fu raccolto a Cassino da truppe canadesi all’epoca della battaglia (primavera 1944) e dai canadesi fu poi consegnato a soldati americani che lo tennero per circa un anno fin quando, cioè, dovettero rimpatriare. Il 5 maggio del 1945 il bambino fu affidato ad Antonio Farneti che se ne prese cura, mandandolo anche a scuola.
«A seguito della pubblicazione nel n. 3 del ‘Rapido’ si presentò al Farneti tal Lanciano Filippo da Cassino il quale avrebbe riconosciuto nel bambino un suo nipote! Il padre del bambino sarebbe morto tragicamente durante le operazioni belliche ma la madre sarebbe vivente e si troverebbe ora sfollata in Sicilia. (…) Il Lanciano Filippo ha dichiarato di essere reduce dalla prigionia e di trovarsi ora sfollato a Torrice (Frosinone)» [3]
Sulla base di queste informazioni fornite da Il Rapido, accingendomi a pubblicare il mio libro Mal’aria (1998), pensai dicontattare il signor Antonio Farneti per sapere qualcosa di più sul «bambino biondo con occhi neri». Le mie attese non andarono deluse cosicché, grazie proprio alla cortesia ed alla disponibilità del signor Farneti e grazie alle informazioni fornitemi, quelle che a quel tempo si conoscevano, fui nella condizione di poter ricostruire le vicende capitate a Gino con il corredo di una serie di foto.
Ipotizzai, allora, avendo come riferimento gli eventi bellici della primavera avanzata del 1944, che il bambino poteva essere stato individuato mentre vagava, smarrito ed in lacrime, in un «villaggio bombardato nella zona di Pontecorvo», località nelle cui vicinanze era stato molto violento lo scontro tra i tedeschi e le truppe canadesi, peraltro dirottate sul fronte di Cassino solo verso la fine di aprile.
Che, invece, le cose erano andate in tutt’altro modo son venuto a saperlo solo una quindicina di anni dopo, ovvero verso la metà di luglio di quest’anno di grazia 2012 quando, per il tramite del direttore della biblioteca comunale di Frosinone Angelo D’Agostini, vengo contattato dalla professoressa Mariangela Rondinelli di Bagnacavallo, in provincia di Ravenna, che da qualche anno si sta interessando alla storia di Gino, la quale mi dice di avere importanti novità sulla storia di Gino e chiede la mia collaborazione insieme a quella di altri amici (Paolo Sbarbada, Maurizio Federico, Gianni Blasi) per alcune verifiche in loco. Lei, che ha letto il mio I giorni della Hitler (2009), libro nel quale ho riproposto la storia di Gino già pubblicata in Mal’aria, mi dice, in sostanza, che i canadesi il bambino lo avrebbero trovato non già in un villaggio presso Pontecorvo, o Cassino che dir si voglia, bensì presso Frosinone. Il cognome, poi, non sarebbe Brighegli bensì Brigalia ovvero Bragalia.
Da Brigalia o Bragalia a Bragaglia il passo è breve; di conseguenza, è anche più facilmente individuabile l’area dove questo cognome è diffuso: Frosinone e zone circostanti. Chissà perché, forse per un riflesso mutuato dalla notizia di quel Lanciano Filippo di Cassino ma sfollato a Torrice che era andato a Ravenna per vedere se il bambino di cui parlavano i giornali fosse un suo parente, chissà perché ma Torrice, con Pofi ed Arnara, è da subito tra i paesi ipotizzati come patria di Gino.
La conferma la ebbe Paolo Sbarbada quando andò a verificare gli atti di battesimo della parrocchia di San Pietro Apostolo di Torrice presso l’archivio della diocesi di Frosinone, Veroli e Ferentino dove appunto trovò che “Ginus” Bragaglia, nato il 26 aprile 1938, era stato battezzato in quella chiesa il primo maggio successivo dal parroco Egidio Vincenzi, padrini Francesco Lisi di Domenico e Angela Magliocco fu Sebastiano.
E ne ebbe ulteriore conferma, insieme a Maurizio Federico, nella ricerca presso l’anagrafe del comune di Torrice dove, grazie alla collaborazione della responsabile dell’ufficio, Katia Savo, risultò che Gino, figlio di Giuseppe e Filomena Fiacco, vi era stato registrato con il nome di Luigi «avanti a me Manni Giacinto podestà» sempre quel primo maggio del 1938. Ma risultava anche, per la cronaca, che era stato cancellato dagli stessi registri il 6 dicembre 1952 per “irreperibilità”.
Sta di fatto che il positivo esito della ricerca lo si poteva comunicare, con quale comprensibile emozione è facile intuire, alla professoressa Rondinelli proprio nell’immediata vigilia della sua partenza per Frosinone insieme a Gino per una visita già programmata a prescindere dall’esito della ricerca e che deve essere quindi adeguata agli importanti sviluppi intervenuti.
E nel pomeriggio di venerdì 19 ottobre Gino può finalmente conoscere i suoi parenti in località Cervona, proprio nel luogo dove era la casa dove lui aveva vissuto i suoi primi anni di vita.
Quella casa non c’è più. Al suo posto, nello stesso luogo, vi è ora una moderna costruzione dove vive suo nipote Francesco, figlio di Domenico, quel fratello più grande di lui di sedici anni di cui Gino ignorava l’esistenza e che purtroppo non ha potuto conoscere essendo morto nel 1995.
Ci sono, però, i suoi figli: Francesco, appunto, e, poi, Sebastiana e Filomena che abitano a Veroli e che non sono mancate all’appuntamento con lo zio. Cosa che, invece, non hanno potuto fare Giuseppina e Luciano, gli altri loro fratelli, perché emigrati in Canada così come Vincenzo morto anche lui.
Il giorno dopo, sabato, Gino si reca al cimitero di Torrice per rendere omaggio alla tomba dei suoi cari; poi, alle Valli di Aquino e, quindi, in prossimità del fiume Melfa, dalle parti di San Vito, dove, tra il 23 e il 25 maggio del 1944, le truppe canadesi sostennero duri ma vittoriosi scontri contro i tedeschi. Luoghi, cioè, che nell’immediatezza della fine delle ostilità Gino potrebbe avere avuto occasione di vedere. Del resto, secondo Gianni Blasi, quella foto con Mert e Red in costumi adamitici sullo sfondo di un dolce ondulare di colline potrebbe essere stata scattata ai margini di un campo di granone sulla Caragno, presso Ceprano. È siccome quello scatto, a detto dello stesso Gino, sarebbe del 6 luglio 1944, ciò confermerebbe che egli si muovesse nel territorio accompagnando i suoi amici canadesi nelle loro missioni.
La curiosità di Gino per quegli scorci che rivede dopo anni è grande.
Ed anche la commozione. Ma l’unico ricordo di allora che riesce a rivivere con gli occhi di oggi è probabilmente legato al tempo della fame: il campo di fave al di sopra della collina che degrada verso casa.
L’emozione, infine. «Ora quando mi chiedono qualcosa del mio passato», mi scrive Gino, «finalmente posso rispondere, di chi ero figlio e chi era mia mamma. A lei il mio pensiero più caro per il dolore che dovette subire, dico a lei, perché le mamme sole erano le più vulnerabili appesantite dalle responsabilità dei figli di come sfamarli e accudirli in tempi così drammatici» (2, fine).
© Costantino Jadecola, 2012.
[1] Un ragazzo di quattordici anni è nato ufficialmente da due mesi. In Carlino sera. 8 marzo 1954.
[2] Un bambino biondo con occhi neri. In Il Rapido. Anno I, numero 3. 17 dicembre 1945.
[3] Verso l’identificazione del bambino biondo ospitato a Coccolia. In Il Rapido Anno II, numero 3. 11 febbraio 1946.