LE SORGENTI DEL MELFA VISTE DA GABRIELE SMARGIASSI
di Sigismondo Castromediano.
L’amico Alberto Turinetti di Priero, studioso molto attento specialmente delle vicende che nel corso del secondo conflitto mondiale tormentarono il nostro territorio, mi ha inviato dalla sua Torino uno scritto del Duca Sigismondo Castromediano, che di seguito ho il piacere di proporvi, relativo ad un quadro di Gabriele Smargiassi raffigurante le sorgenti del Melfa e pubblicato in occasione nell’esposizione d’arte svoltasi nel 1864 nel capoluogo piemontese. Gabriele Smargiassi (Vasto, 22 luglio 1798- Napoli 12 maggio 1882) fu uno dei maggiori esponenti della Scuola di Posillipo ed ebbe tra i suoi allievi Alfonso Simonetti, il pittore che visse, si sposò e morì a Castrocielo (c.j.)

Povera non di numero, ma di opere predilette ho ritenuta in questo anno la Esposizione promotrice delle belle arti dì Torino, e ciò parmi avvenuto per due ragioni: la frequenza cioè, e la moltiplicità di cotali mostre in Italia, e lo astenersi che fanno dalle medesime i nostri artisti migliori, i quali rifuggono di confondersi colle stelle secondarie. Ma io invece, cogliendo la presente occasione, ne li rimprovero, e li esorto a più tenero affetto verso l’onor nazionale; avvegnacchè il comune degli uomini, e spezialmente dei forestieri di passaggio nel nostro paese, ne osservano soltanto la scorza, e ne giudicano appunto lo stato d’intelligenza, di civiltà e di gusto da tali superficialità.
Ma ecco uno di quei quadri chiamati di genere, il quale se di bellezze peregrine non largo, e per quanto altrove ne disseminò l’autore già noto da lunga pezza fuori e dentro la Penisola, supera di gran lunga molti altri visitati in questo sale. Lungo m. 1. 70, ed alto 1. 15, acquistollo Vittorio Emanuele II, che poscia ha donato alla Pinacoteca municipale torinese. In esso il cavaliere Smargiassi ci offre le origini del Melfi, o Melfa, od anche Melpa se vuolsi, non già presso Avellino nel Principato ulteriore, secondo che per errore notava il catalogo della esposizione, ma in quella parte dei nostri Appennini ove Terra di Lavoro s’inoltra negli Abruzzi.
Strabone ci lasciò descritto questo Melfi come gran fiume; ma oggi è divenuto torrente, che scaturito dalle fenditure d’una rupe al disopra dì Settefrati, e proprio ove chiamano Canneto nel Mandamento di Alvito, discende rovinoso per luoghi straripevoli, e seco trascina congerie immensa di ciottoli e di ghiaie, devastando larga campagna per confluire finalmente nel Liri.
E questo il luogo adunque che ci sta innanzi, il quale tuttocché aspro e selvatico, lo scorgiamo sparso di lussureggiante vegetazione, di faggi in particolare ivi prosperati colla maggiore simpatia. Oh il bel cielo splendido e trasparente, ch’è il cielo meridionale! Più lo si mira e più sprofonda, più sprofonda e più va oltre, e lo sguardo solletica a raggiungere l’infinito. Oh l’azzurro del mio cielo, zaffiro scintillante che dà moto e vita anche alle cose senza moto e senza vita! Lo Smargiassi l’ha voluto ritrarre e v’è riuscito; né valgono ad offuscarlo quell’abbondanza dì nuvole, che vi sparge e distende, le quali leggere più delle piume, o bianche più del cotone, paiono fatte a vieppiù a moltiplicare la intensità della luce. Ed ecco a sinistra della tela un masso gigantesco staccato dalla dietrostante montagna, che rotolato ivi rimarrà fin quando un nuovo cataclisma non voglia rivolgerlo altrove. Sterpi c pruneti qua e là cosparsi ne svariano l’asprezza e la scabrosità, e le acque fluiscono dai suoi piedi tacite e chete tra secche ove son canneti ed altre piante palustri. La varietà di questo luogo s’accresce per frane e fenditure, per pietre e viottoli serpeggianti, erbe e maccheti. Ed ecco dietro il masso testé, descritto innalzarsi maestosa a qualche distanza la montagna, ove la nebbia rapida salendo verso la vetta in nugolo ai raddensa Altra falda di monte stende a destra dello spettatore, e tra questa e quella si perdono lontane sinuosità, lontani avvallamenti e creste lontane, però come se mirate dall’alto in basso; imperciocché il davanti della scena è rappresentato sull’altura.
Ma da quelle distanze al piano ove cominciano le acque si frappone un filare di faggi, che altri ne nasconde dietro, e lievemente risalendo pella china finisce verso il dorso del masso che dicemmo. La freschezza e il verdeggiare smagliante di quelle foglie, l’ombra e il misterioso recesso v’invitano a restar con essi, e coi vostri pensieri, non che colla indefinibile armonia dei venticelli susurrata tra ramo e ramo. Alcun faggio cedendo alla potenza del sole s’arrossa, alcun altro spezzato dalla tempesta si frappone caduto, quasi ad indicare che le cose di quaggiù son fatte proprio per cadere.
Ho detto aspro, selvaggio e solitario questo luogo sol per essere di natura, e volle così ritrarlo l’autore. Pur non di manco a lui essendo noto, che la terra in ogni suo spazio fu creata pei viventi, solito è con bel garbo d’introdurre nelle suo pitture uomini ed animali, che se accessorii nei quadri di paesaggio, son vaghi e necessari, senza di che restano come qualche cosa di desolazione, anzi come qualche cosa ch’è negazione dello spirito. Ed ecco perché qui vi scontrate con quei due robusti contadini, che guadano a cavallo il fiumicello, e con quell’altro gruppo di pedoni vestiti del pittoresco costume dei dintorni; i quali se animano la tela non ne guastano il carattere.
Mi assicurano i pratici del paese, che quest’opera senza essere copia servile, ha una impronta di verità locale stupenda; perché appunto si dice arte quella che rileva il vero modificato, colla fantasia, e le linee , i piani e le masse, raggruppando con proporzioni ed accordi che nel fatto non hanno. E così che si rinviene il piacevole completo.
Il nostro artista anche qui è maestro di disegno o di prospettiva: franco e sicuro ad ogni tocco ricaccia e addentra gli oggetti secondo che vuole. Frappe, frastagli, giuochi di luce, ombre, penombre, tinte decise, velature, intonazione e riparto, son cose di pregio. E pure dicemmo non essere cotesto uno dei suoi migliori lavori, e perché? Non so se per bizzarria, ovvero sedotto dalle strambezze del tempo, qui cangiò di maniera non più distendendo ed unificando in un corpo solo le solite sue magiche tinte; ma chiazzando, quasi direi, e lasciandole sfuggite a pezzi da grasso pennello. Uomo anch’egli ha pagato cosi un tributo alla scuola cui piace l’affettazione e la trascuratezza, scuola che se sorprende un momento, non può durarla. Ne volete una prova? Agl’intendenti, che ammirarono le scaturigini del Melfi nello studio ove vennero dipinte, apparvero men belle rivedute qui nelle sale della Esposizione.