A.G.Bracaglia vs T. Landolfi: una polemica che fece epoca

Si è riproposta alla mia attenzione in questi tempi di “domiciliari c/v” una polemica giornalistica che negli anni Cinquanta del scorso in un certo senso vivacizzò quanto meno la provincia di Frosinone anche per lo spessore dei suoi protagonisti: Tommaso Landolfi, il grande scrittore di Pico, e Anton Giulio Bracaglia, regista e critico cinematografico di Frosinone. Il tutto, per un articolo che Landolfi aveva pubblicato su il settimanale Il Mondo ed il cui contenuto non era stato per niente gradito da Bragaglia che ne fece oggetto di una lettera indirizzata al direttore della Gazzetta Ciociara, Giulio Celletti, cui, ovviamente, fece seguito la replica di Landolfi, anch’essa in forma di lettera indirizzata, però, a Mario Pannunzio, direttore de Il Mondo. Insomma, una polemica a un certo livello che, proprio per questo, mi è sembrato opportuno riproporre in questo sito certo di far cosa gradita sia a chi la questione era già nota sia a chi la ignorava (c.j.).
I CONTRAFFORTI DI FROSINONE
di Tommaso Landolfi
Non è che a Roma ci sia penuria di luoghi squallidi e soffusi di ciò che appunto si chiama il «gialletto romano», tutt’altro. Ma nessuno forse eguaglia quel gran viale romanamente nominato, da certe caserme di duemila anni fa e di oggi, Castro Pretorio. Qui, oltre a tutto, stanno fianco a fianco in interminabili file quegli ignobili veicoli che dicono «corriere», e che assicurano il trasporto dei passeggeri verso non meno squallide province; qui da un lato si aprono le biglietterie con pensilina d’una grande impresa di codesti trasporti; di innanzi a cui parte ogni tanto una di codeste corriere, tra risonare di tetre e slentate favelle. Con sussiego e greca al berretto un impiegato dell’impresa si pone davanti al carrozzone partente e fa la chiama dei numeri, lasciando a mano a mano salire i passeggeri; quanto ai ritardatari, alle ceste di schiamazzanti polli, ai fazzoletti a quadri gonfi di ortaglie, alle latte d’olio che stilleranno sulle spalle o sulle scarpe dei viaggiatori, trovino poi il loro posto come possono e se possono. «A signò, dove andiamo?», chiede il fattorino a un’ultima grassona che accorre trascinando una valigia legata collo spago. «Tengo da andà a Ferentino» risponde quella senza fiato. «Va bè, salire davanti». E così ci si avvia traballando per strade senza volto, per sottopassaggi da suicidio e, come effetto del movimento, umanità e animalità cominciano a sistemarsi (o, con locuzione da gallofilo, a “tassarsi») sul fondo della corriera. Ma a Porta Maggiore, fermata e nuovo assalto.
Finalmente, ecco che il carrozzone corre fuor di città, gareggiando coi tranvai delle vicinali e attraversando chissà che Borgata Finocchio o che Tufello; ecco che i mangiatori di aranci imprendono la loro appiccicosa bisogna sputando semi dappertutto; ed ecco che il primo bambino, sgranando gli occhi e diventando verde, principia a vomitare, s’intende tra le gambe dei viaggiatori compassionanti, tosto imitato da qualche dama di stinco peloso. Finché una ripicchiata professoressa di scuole medie con servettina a lato non salti su a redarguire il personale e le vomitanti stesse: «Care mie, se vi fa male la macchina, perché non prendete il treno? » (il vomito continua allora dal finestrino).
E così alla men peggio si raggiunge la città che con felice eufemismo è stata definita la capitale della Ciociaria; dove per oggi ci fermeremo un momento. Con felice eufemismo, perché non è intanto chi non veda che ha un brutto nome: Frosinone. I suoi partigiani medesimi devono confessare la sgradevole impressione indotta da questo falso accrescitivo (per tenere il linguaggio degli enimmisti). Frosinone! Certo bisogna fare appello al proprio senso filologico e alla propria dottrina (generatori, ognuno lo sa, di compostezza spirituale) per non sentirsi respinti da un tal nome, che par fatto apposta per evocare facce aduste e camuse di pacchiane con relativo fazzoletto da capo (come in certi pittori della realtà), insomma tutto quanto si dà di uggioso, declamatorio e cieco; in particolare occorre richiamarsi alla erudita memoria che esso nome sarà forse, invece, un antico ablativo, e il bellator Frusino d’un altrettanto antico scrittore. Peraltro, nella eufemistica perifrasi non è contenuto un nome magari più brutto di quello da evitare? E del resto il senso filologico va unito a quello storico, sicché come dimenticare che nel teatro popolare romanesco, quello da periferia, c’era sempre, prima che il fascismo attribuisse a questa città grado di capoluogo, qualche personaggio che per far sghignazzare gli spettatori e coprire un altro di ridicolo gli chiedeva se fosse di Frosinone?
O mura di Volterra, o mura pelasgiche e ciclopiche, o spalti di Ninive e di Tebe, rocche del deserto, che siete voi appetto a questi potenti contrafforti che sostengono una gialla casuccia in «stile novecento» o un gessoso palazzotto pubblico in littorio? Giacché Frosinone è posta in cima a una collina che strapiomba da tutte le parti (della sua incantevole posizione mi sarà grato informare più oltre) e anche per costruire un vespasiano c’è bisogno di erigere prima una massiccia muraglia. E ben vero che da qualche anno la città si va espandendo anche a piè della collina, verso un luogo nel cui nome la volgare parola «osteria» bizzarramente si allea a un nobile casato, con dovizia di acche e di dittonghi alla latina; e che in ogni caso queste imponenti costruzioni son pegni edificanti della umana operosità.
Tuttavia, tanti contrafforti e controscarpe e speroni si può ben dire che sostengano il mero nulla. È difficile trovare in Italia una città che non offra alcuna testimonianza dei suoi gloriosi passati, che non si adorni di vestigia romane o etrusche od osche o marrucine, o almeno di una bicocca, di una modesta casipola medioevale; difficile ma, come la nostra Frosinone dimostra, non impossibile. E dunque tutta la sua storia dov’è andata a finire? Fra l’altro non sono qui nati (salvo errore) un certo santo Ormisda, forse un papa Silverio e, in tempi recenti, quel gran patriota dal cui cognome Garibaldi che è Garibaldi trasse il nome di battesimo d’un suo figliuolo, intendo il Ricciotti? E, nei tempi calamitosi, i bravi frosinonesi (pardon: frusinati) si saranno pure difesi dagli assalti di tutte le soldataglie che scorrevano la loro valle: e dov’è allora quel briccico di castello o di fortezza, alle brutte quel rudere crollante che l’ultimo paesino italiano gelosamente custodisce? Ahimè, a Frosinone troverete, lungo quel budellino di strada che va su e giù per la città inabissandosi e impennandosi, magari belle botteghe con tutte le novità della capitale, magari bei caffè, senza contare tutte le varietà dell’architettura contemporanea, ma mai un pezzo di muro che vi ricordi tempi meno tristi e fornisca argomento alla vostra pensosità. Lo stesso Bertarelli (o i continuatori della sua opera), sempre tanto pieno di buona volontà, giunto a Frosinone non trova nulla da vedere, salvo (per la verità) pretesi avanzi romanici del campanile. «Frosinone… è centro agricolo e mercato di bestiame importante… », così press’a poco se la cava la Guida Breve. E però da dire che io sto trascrivendo dall’edizione del ’39 (XVII): chissà che nel frattempo la città non si sia innobilita con effetto retroattivo? Per esempio, a Frosinone si attribuisce oggi non so che premio di pittura, di cui il malaugurato viaggiatore scorge gli annunzi su striscioni tesi tra casa e casa, e inoltre si pubblica una gazzetta ciociara o della Ciociaria che ha perfino qualcosa come una terza pagina.
Eppure, secondo ancora dice il Bertarelli o il bertarellesco, Frosinone davvero giace «in splendida posizione panoramica»: con meravigliosa vista su una piana d’oro, su dolci e fronzuti colli che qua e là rammentano i toscani, di fronte agli arditi e azzurri Lepini. Ma perché poi tento di rubare il mestiere ad altri meglio qualificati? Una semplice quartina ne dirà più di quanto io potrei fare. Ne fu a suo tempo autore un giovane avvocato del posto, in seguito passato alla politica e da ultimo più o men forzatamente tornato alla sua avvocatura; l’intera composizione fu premiata in un concorso, ben a ragione. Ma ecco senza più la quartina: «Ogni sera gliu sole alloc’ a balle (cioè: laggiù) ‑Prima de s’addurmì ce benedice — D’ore doventa tutta chesta valle — E gli cellitte (aliasgli uccellini) cantane felice… ». (Si avverta però che cito a memoria e che non ho molta pratica di queste grafie né di questa lingua). Quartina che ho riportato volentieri, quasi a scusarmi di qualche asprezza che può essere veduta nel presente articolo, perché bene lumeggia la convivialità, la larghezza di cuore, infine il senso di poesia di questi abitanti, che taluno si ostina a tenere per rozzi.
E con questa benigna immagine lasciamo in pace la povera Frosinone: la nostra corriera, ancor più carica di effluvi, ancor più ronzante di tetre calature, riprende ormai il suo viaggio. E stata ferma un quarto d’ora in un piazzale, e il venditore di gazose non ha mancato di salirvi rumorosamente, invitando tutti a rinfrescarsi, protestando che non fosse necessario pagar subito, che egli avrebbe fatto credito a chicchessia, e salutando i conoscenti con degli affettuosi «te possino» o, in caso di conoscenza intima, «te possino ammazzà». Quanto a me, sono sceso per sgranchirmi le gambe e, insegnato il paesaggio urbano, ho detto alla mia compagna di viaggio: «Pare proprio un quartiere di Roma» sorprendendo negli occhi di un passante un lampo d’orgoglio.
Fra poco dunque raggiungeremo Ceprano sul Liri (il Verde di Dante), cui la sorte coniugale di un personaggio del Rigoletto, oggetto dei lazzi appunto del protagonista, ha fatto una disgraziata nomea. Ma Ceprano era stazione confinaria al tempo del Borbone di benedetta memoria, e qui pertanto il Regno di Napoli ci apre le sue braccia, col calore della sua aria, il suo verde un che più intenso, la sua terra più ardente, la sua lingua più vivace. Siamo insomma a casa nostra. Già si profilano all’orizzonte le bizzarre e possenti sagome degli Aurunci (dietro cui è il mare di Formia e di Gaeta, i quartieri settentrionali della città di Napoli), ferite dagli apprestamenti e dal corso di un dannato acquedotto, già si intravede quel piccolo monte Pote che getta nondimeno un’ombra immane sulla mia casa.
Si. Che colpa ha un infelice dei capricci di un regime tirannico o delle mene di alcuni intriganti? Voglio dire che uno o due dei miei lettori, cioè in sostanza uno o due caritatevoli amici, possono aver udito del mio luogo d’origine e che esso fa attualmente parte della provincia di Frosinone; ebbene, figuriamoci se codesti si terranno dal commentare che, come non si dà profeta in patria, così non c’è patria che stia bene ai suoi figli. Eh no: oppure dovrei credere che i detti amici siano di coloro che d’ogni cosa non vedono se non l’aspetto amministrativo? Senza dubbio il mio paese, che era sempre stato nella provincia di Caserta, è attualmente nella provincia di Frosinone. Ma che perciò? Né la sua lingua, prima che il triste evento si producesse, né le sue tradizioni ebbero mai nulla a che vedere con ciò che ancora qualche vecchio chiama «lo stato romano»: di qua Longobardi, Normanni, Angioini, di là papi e loro accoliti; di qua una lingua di tipo napoletano-abbruzzese, di là una specie di romanesco suburbano; a non tener conto poi di tutto il resto. Si intenda comunque: io non sto ponendo qui una questione più o meno personale, ma prendendo le parti di tutti quei paesi e di tutti quelli che un dissennato potere ha strappato o allontanato dal loro centro naturale. Che poi questi paesi abbandonati al nemico vadano sposando, per la bestiale insensibilità di molti loro abitanti, i costumi dell’attuale capoluogo, è altro discorso: tutto si perde a questo mondo, «tutto svanisce come bruma o sogno».
Ma non la prendiamo così sul tragico. Se non che, per finire, io vorrei ancora che i miei sia pur benevoli detrattori, coloro che si divertono a qualificare me o altri miei compagni d’esilio di ciociari, rispondessero a questa triplice domanda: che colpa, daccapo, ha un pover’uomo se, amministrativamente parlando, il suo paese appartiene alla provincia di Frosinone? Un po’ di lealtà vi si chiede, amici miei, e soprattutto un po’ di carità (Da “Il Mondo”. A. VI, n. 31, 3 agosto 1954)
I “FURORI” DI UN CIOCIARO “IMPARIGINITO”
di Anton Giulio Bracaglia
…Tommaso Landolfi, invece, si vergogna se, sorridendo, gli danno del «ciociaro». Questo Landolfi, che io non avevo mai sentito menzionare, è ciociaro di sette pelli, giacché tu mi dici che è nativo di Pico, per la ragione che la Ciociaria arriva fino agli Aurunci e si conserva originale coi propri caratteri soprattutto nelle montagne. Questo Landolfi si vergogna di essere ciociaro come se fosse gobbo o figlio di N.N. Egli si ribella al criterio generale e sostiene Campania la natia Pico. Qui la polemica non avrebbe fine se la ricominciassimo dopo le contese tra De Libero ciociaro di Fondi e patriota fanatico e Michele Biancale ciociaro di Sora, traditore della Patria. Senonché questo giornalista Landolfi che non onora la Patria ciociara come fa Vittorio Zincone, vive avvelenato a causa della sua origine rustica; e non si limita a rinnegarsi, ma sputa su tutto il nostro paese! Dovrebbe bastargli l’esempio di Biancale, benché suddito ribelle, che resta innamorato di tutte le varie terre e montagne, nostalgico di tutte le varie spiaggie e coste della Ciociaria Marittima. Dobbiamo credere all’evidenza! La nostra Maga Circe si diverte, ancora, a mutar gli uomini in animali! Questo Landolfi cova un rancore che diventa odio velenoso, rassomigliandolo a quei figli di contadini che disprezzano il proprio padre a causa delle «vestigia ruris». Io sono ciociaro e non ho paura di sembrare un cafone, giacché sono, invece, un elegantone impariginito fin dal principio del secolo, così sicuro del mio chic spirituale e materiale, da poter scrivere di Ciociaria come se parlassi di Versailles. Il Landolfi, al contrario, si sente la coda di paglia, sporca di strame, nel patir la qualifica di ciociaro, quasi fosse un marchio di infamia; e schizza fiele, pigliandosela persino con due papi di Frosinone, e chiamando un «certo S. Ormisda» il protettore della città rinascente. Landolfi passa per l’Osteria detta De Matthaeis, in zona già feudo di questo conte e perciò così denominata, chiedendosi, con sciocco sarcasmo, perché mai un’osteria porti un nome con acche e dittonghi. Mirando a provarci di non essere ciociaro, questo ciociaro «fa l’inglese al paese suo». Ma guarda che tipo da farsa alla Cekoff può diventare un «paesano di Pico», che si mette a fare il forestiero, turista per la propria regione, snobandola come se non l’avesse mai vista. Ciò che riconosco è la sua ignoranza della storia locale. E un peccato veniale. Ma non lo ostenti come una qualità! […] Caro Celletti, non ti offendere per il disprezzo espresso alla tua modesta gazzetta, lumicino di spiritualità nel buio culturale ciociaro (locale). Tu ti conforti con firme ben autorevoli, e sono una ventina, tutte nazionalmente più note di quella del Landolfi: alcune internazionali. Questo picone, pichino, o pichese, è un ciociaro nel vero senso satirico. Provincialissimo in fondo, teme di esserlo. Potremmo dire che ci dà la prova di ciociarità, proprio col fatto d’esser uno di quei tipi nostrani, barbarici e selvatici, che non si civilizzano nemmeno andando all’estero. La Ciociaria ne produce ancora, purtroppo! Uno è lui (Da La Gazzetta Ciociara. A. III, n. 18. 25 novembre 1955 )
LA CONTROREPLICA
di Tommaso Landolfi
Caro Pannunzio, per rispondere al mio articolo che tu intitolasti I contrafforti di Frosinone (Mondo del 25 ottobre) il direttore della Gazzetta ciociara (nel numero del 25 novembre) cede la parola al suo «illustre concittadino scrittore e regista Anton Giulio Bragaglia». Al quale ribattere nel merito sarebbe in ogni caso difficile, visto che il suo scritto, a parte alcune dotte premesse, un merito vero e proprio non ha, e che se l’ha è contraddittorio, e che del resto l’autore sembra aver letto male il mio articolo. Esso scritto si riduce insomma (come poi era da aspettarsi) a una serqua più o meno nutrita e più o meno ben distribuita di contumelie. Ora, tu intendi certo che non si tratta qui di incrociare spade di legno e che io potrei tenermi pago di aver fatto stizza ai ciociari (il giornale assicura infatti di aver avuto «tante e tante proteste da ogni parte della Provincia e fuori – sic»). Se di questa storiucola non si potesse dopo tutto fare un casetto di costume. Narra un amico che accadendogli, in un pubblico caffè e ad alta voce, di dir corna e vituperio dei toscani, con sbigottimento vide un gagliardo giovane levarsi da altro tavolo e venirgli addosso. Ma per esclamare: «Io son toscano: Lei l’ha proprio ragione». Né c’è bisogno di andarla a cercare tanto lontano, un po’ di civiltà: Libero de Libero (che proprio nello scritto in parola è definito «ciociaro di Fondi e patriota fanatico») scrivendomi di recente col solito affetto, soggiungeva «Il tuo articolo su Frosinone mi ha divertito enormemente». Ebbene, a mio giudizio quella di codesti due, se mai, è vera e anche profittevole carità di patria. Laddove le smanie dell’ «illustre concittadino, ecc. » non fanno che confermare me e i lettori bennati in quanto nel mio articolo era (e me ne pento) appena implicito. E con ciò ti ringrazio dell’ospitalità e per conto mio dichiaro definitivamente chiuso l’incidentino, qualunque altra contumelia al mio indirizzo dovesse prender forma in mente o in gazzetta ciociare (Da Il Mondo. A. VII, n. 51. 20 dicembre 1955).