Fulvio Roiter e le gradevoli sorprese

Dal Lido di Venezia, dove abitualmente vive, alle sponde del Liri e del Sacco.
Poteva sembrare un assurdo. Invece, tutto è stato, forse, più facile del previsto. Un colpo di telefono, appena il tempo per una conoscenza «a volo d’uccello» del soggetto da fotografare e poi l’ok a Massimo Slruffi, Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Frosinone, che gli aveva commissionato un libro fotografico sulla Ciociaria.
Fulvio Roiter è d’accordo. «Ma ad una condizione: voglio libertà assoluta! Non per vanità né per presa di posizione. Ma perché trovo che ognuno può esprimersi al massimo quando è libero».
Nasce così l’avventura ciociara del grande fotografo veneziano che da oltre trent’anni propone libri meravigliosi tra i quali vale la pena citare «Ombrie, terre de saint Francois» (1955), «Naquane» (1966). «Essere Venezia» (1977), «Il Cantico delle Creature» (1982), «Terra d’Abruzzo» (1983).
Per Roiter, la scoperta della Ciociaria è una gradevole sorpresa: «Del Lazio conoscevo, a parte Roma, tutta la parte più a nord di Rieti perché avevo avuto, molti anni fa, un grande amore a Poggio Mirteto e quindi bazzicavo l’alto Lazio…».
-… Ma sapeva, ad esempio, di Montecassino?
- «Montecassino avevo sempre voglia di vederlo ma siccome sapevo che era stato tutto rifatto — sapevo della guerra, sapevo del dramma — temevo, vedendolo, di rimanerne deluso. ‘Se gli anni passano, acquista un po’di patina’, mi dicevo. Poi, però, l’impatto è stato grande».
- E cos’altro ancora l’ha impressionato della Ciociaria?
- «In assoluto, Castro dei Volsci. Perché nessuno me ne aveva parlato ed io sono un rabdomante. Sono come un cane da tartufi. Quel giorno, con Ugo Iannazzi, il mio eccezionale “cicerone” si doveva andare da Frosinone a Montecassino. Prendo la carta e vedo che poco lontano dall’autostrada c’è questo nome: Castro dei Volsci. Un nome affascinante! Zanzibar mi affascina, poi, Zanzibar è uno schifo. Così Valparaiso… Noi siamo vittime di questo: ci sono dei nomi che hanno un carisma. Bene, andiamo a Castro dei Volsci e trovo la più bella sorpresa di tutti i viaggi fatti in Ciociaria. Anche altri paesi, per esempio Fumone, sono bellissimi. Ecco, dopo Castro dei Volsci metterei Fumone».
- E degli altri centri della Ciociaria di grande tradizione storica quale impressione ha tratto?
- «Devo dire che paesi ricchi di storia, come Anagni, che visti dall’aereo o visti da lontano hanno una compattezza architettonica stupenda, quando incomincio ad avvicinarmi ed entro dentro è faticosissimo, se non quasi impossibile, fotografarli nella loro interezza. Devo frazionare il soggetto e cogliere delle angolazioni, mettere, come dire, al servizio dell’immagine tutta l’esperienza, tutto quello che è il linguaggio dell’immagine, tutta quella che è la sintesi acquisita in trentacinque anni di magistero fotografico».
- Il territorio nel suo insieme come lo ha trovato?
- «Quello ha ancora delle riserve, delle cose molto belle. Molto dipende dalla luce. Ma questo è un fatto comune al mio lavoro di fotografo. La Toscana è bellissima però se arrivo là un giorno quando il cielo è pulito, è azzurro, è insignificante, quel paesaggio non mi dice niente o mi dice poco. Questo vale anche per la Ciociaria. Mi ricordo quella giornata con una grande turbolenza. C’era un cielo che cominciava a mettersi in movimento e minacciava di piovere. Era il mese di aprile. ‘Guarda che non può durare’, mi dissi. Improvvisamente il cielo si ruppe creando delle architetture talmente straordinarie che in cinque, sei ore si fecero tre, quattrocento chilometri spostandoci, per esempio, da Acquafondata ad Aquino perché sapevo che senza nuvole temporalesche e minacciose Aquino, con quei due torrioni, non era fotografabile. Ed io volevo, dovevo avere due pagine su Aquino. Perché è inconcepibile in un libro sulla Ciociaria, che ha Aquino, non parlare di Aquino. Perché la gente s’interessa quando l’immagine è valida. Altrimenti non legge. Siamo dei pigri. Io spingo con l’immagine chi guarda il libro ad interessarsi a leggere, quindi a scoprire. Perché vede l’immagine e dice: ‘Cos’è ‘sta roba? Che bello!’ Poi corre a vedere le didascalie delle pagine 11 e 12 e scopre che è Aquino. Aquino richiama San Tommaso. San Tommaso richiama la «Summa». E via di questo passo. Tenga peraltro presente che ad Aquino non c’è niente. Cioè, c’è molto poco di fotografabile. Ed è stato per me veramente uno sforzo notevole: fotografare Casamari è un gioco da bambini, fotografare Aquino è un sesto grado superiore. Perché c’è non soltanto una discrepanza ma c’è un abisso, meglio ancora, tra l’idea letteraria di Aquino e la realtà fotografica di Aquino. Io non posso fare l’Aquino attuale; la devo legare all’Aquino di allora».
Questa conversazione con Fulvio Roiter ha come scenario l’Abbazia cistercense di Casamari in un tiepido pomeriggio di primavera. Il suo libro sulla Ciociaria e stato appena presentato. Tra gli altri c’è anche Giuseppe Bonaviri, lo scrittore siciliano d’origine ma ormai ciociaro d’adozione giunto ad un passo dal Premio Nobel. Del libro di Roiter ha firmato l’introduzione. Ma ha ancora qualcosa da aggiungere: «È una goccia d’oro, una bottiglia di vino buono».
Da quasi tutte le fotografie che Roiter ha raccolto nel suo libro sulla Ciociaria, dice ancora Bonaviri, traspare un rapporto con la terra che è «materno, profondo, ancestrale, terragno» e che ricorda allo scrittore quella «materna di Mineo, terra arroccata, ventosa, povera, piena d’ulivi»
Dal riferimento alla terra a quello ad epoche andate, il passo è breve. Si ricordano, così, altri non ciociari che alla Ciociaria si interessarono: Marianna Candidi Dionigi, Ferdinando Gregorovius, Bartolomeo Pinelli, Cesare Pascarella. Riferimenti che ben si collegano ad un obiettivo come quello di Roiter che scansa il presente e proietta nelle immagini una dimensione antica. Del resto, ha scritto Jean-Michel Folon, il noto disegnatore francese, che per Roiter «il XX secolo non esiste». Egli è «un personaggio che viaggia nel mondo impazzito e che riesce comunque sempre a tornare con delle immagini stupende».
Cosi ha fatto in questo suo viaggio in Ciociaria dal quale è «tornato» suggerendo, come ama dire, immagini e scorci diversi dal consueto e tali anche per i suoi abitanti. Tutto sommato, «una sintesi questa terra in chiave positiva».
Ma l’interesse di Roiter non si limita alla terra, all’ambiente, all’architettura. Per il fotografo veneziano anche l’elemento umano ha il suo valore, un valore che il suo obiettivo vivifica, fermando nel tempo dimensioni m via di estinzione.
Due bambini che giocano in un campo primaverile sulla via Maria, tra Frosinone e Isola Liri. Un anno dopo che Roiter ha immortalato quella scena, quel campo non è più così.
Il potatore di salice. Racconta l’architetto Iannazzi: «Stava almeno a mezzo chilometro da noi. A colpi di forbice avrebbe spogliato quell’albero in un attimo. Ebbene, Roiter saltando fossi, correndo tra i campi, è arrivato a trenta metri da quell’albero, ha piazzato il cavalletto ed è riuscito a fissare la scena». Roiter è soddisfatto, anche se mostra un certo disappunto per la sigaretta che il potatore stringe tra le labbra. «Ma non potevo pretendere troppo!»
Il vignaiolo di Castro dei Volsci. Un vecchio di 84 anni, «l’ultimo dei Moicani».
Ma nel cuore di Roiter resta una bambina di Guarcino dietro una tendina rossa: «Una cosa struggente e meravigliosa». Poi il vento che incomincia a scomporre la tenda e lei che ne vien fuori e, sullo sfondo, «la porta verde, la tenda rossa, il muro bianco…» Una sequenza di una decina di foto che Roiter assicura di pubblicare tutt’intera in un libro sui bambini.
Il gregge, infine. Ce n’è ancora qualcuno tra le colline ed i monti della Ciociaria. Roiter non poteva lasciarsi sfuggire una scena così e la foto del gregge è finita addirittura in copertina. Sintesi migliore per significare l’arcaicità della Ciociaria non poteva esserci. Ed anche le sue radici. «Perché credo» dice Roiter, «che il futuro dell’uomo è legato ad un ritorno alla terra. Non c’è niente da fare. Se andiamo avanti così, finiamo col suicidarci tutti!».
© Costantino Jadecola, 1986.