Dalle epidemie storiche nella valle del Liri alla prima in mondovisione

Se c’è ancora in giro qualcuno che visse sulla propria pelle la dolorosa esperienza dell’epidemia malarica che afflisse le popolazioni della Valle del Liri all’indomani delle tragiche e lunghe vicende della Seconda guerra mondiale, che nel territorio provocò molti danni e tanto sconforto, riecheggia ancora da qualche parte il ricordo dei racconti di chi non c’è più a proposito di quell’altra grande epidemia, la spagnola, che, a margine della Grande guerra, mieté vittime un po’ dappertutto. Andando ancora a ritroso nel tempo, nella sola Cassino, quando ancora si chiamava San Germano, tra il 1782 ed il 1787 sarebbero morte per malaria ben 1.346 persone; circa un secolo dopo, nel 1882, il senatore Luigi Torelli qualifica sia la valle del Liri che quella del Sacco, ad altissimo rischio malarico. Ad Aquino, poi, dove per buona metà dell’Ottocento, tra gli anni Trenta e Ottanta, i decessi si aggiravano su una media annuale di una quarantina di unità — la popolazione superava di poco i duemila abitanti — tra il 1879 e il 1880 il loro numero crebbe fino a 207 unità (131 più 76), fenomeno, peraltro, verificatosi anche in altri comuni del territorio. Ma perché? Perché pare che in quel 1879 ci siano state tante di quelle piogge con conseguente esondazione dei corsi d’acqua ed inevitabile formazione di tutta una serie stagni che, con l’arrivo dell’estate, sarebbero divenuti luoghi di villeggiatura per la gioia delle zanzare. Senza dimenticare i giorni della peste del 1656, evento verificatosi un paio di anni dopo un violento terremoto, che, scrive Pasquale Cayro (Storia sacra e profana…, p. 292), «in Napoli, ed in altre contrade del Regno cagionò la morte a tante migliaia di persone e giunse fin’a Monticelli, Casale di Roccaguglielma (non si cita San Pietro in Curulis perché in quel tempo non ricadeva nella Diocesi di Aquino ma sotto la giurisdizione spirituale dell’abbazia di Montecassino, nda) e salve furono le altre popolazioni della Diocesi presso lo Stato Ponteficio; ma certamente non furono attaccate da questo pestifero male San Giovanni Incarico e Pico» . Tant’è che gli abitanti di questi due comuni, timorosi, pretesero dal comune signore del tempo che impedisse il traffico ai Roccaguglielmani, ed a quei de’ Casali San Pietro, e Monticello, come infettati di contagio, il quale non ancor’era cessato a ventiquattro Decembre mille secento cinquantasette» (Cayro, idem). Se si considera che il tutto sarebbe iniziato, almeno in zona, nel mese di giugno dell’anno precedente, non dovette trattarsi di una passeggiata ma fu, piuttosto, una dura e lunga esperienza anche in considerazione della situazione ambientale del tempo. Come Pico e San Giovanni Incarico, anche buona parte della Diocesi di Aquino e di quella di Sora, dovette avere la ventura di venirne fuori senza gravi conseguenze. Forse anche grazie ad una protezione divina da parte della Madonna di Loreto alla quale il duca del tempo, Ugo Boncompagni, fece un voto solenne ed un dono importante. Ma non per tutti fu così: ad Ausonia si contarono oltre 700 vittime, 771 a Coreno Ausonio, 450 a Sant’Apollinare, 247 a Sant’Andrea, 164 a Pignataro, 83 a San Giorgio a Liri. E, almeno 500, fra Roccaguglielma, San Pietro in Curulis e Monticelli, ovvero l’attuale Esperia. Se è difficile dire come andò altrove, appena qualche indicazione potrebbe dedursi da un confronto fra i dati demografici, non sempre “omogenei”, dei tempi antecedenti e posteriori all’evento (1648 e 1669), e basati sui fuochi, ovvero sui componenti dei soli nuclei familiari soggetti a tassazione, mediamente composti tra le 4 e le 6 persone: crescono Aquino da 38 a 60 fuochi (da 190 a 300 abitanti), Pico da 66 a 147 (330/735), Piedimonte “della Badia” da 290 a 346 (1.450/1.730) e San Giovanni Incarico da 168 a 181 (840/905); calano, invece, Arce scende da 334 a 325 (1.670/1.625), Castrocielo da 201 a 138, (1.005/690), Colle San Magno da 181 a 146 (905/730), Roccasecca da 495 a 325 (2.475/1.625), Santopadre da 141 a 104 (705/520) e Terelle da 180 a 141 (900/705). Ma, al di là di queste informazioni, che di sicuro saranno gradite a quella modesta pattuglia di persone cui non dispiace essere informata sulle proprie radici e sulla propria terra, sarà il caso di ritornare sulla malaria “malignant” del secondo dopoguerra che fino a ieri ha costituito per molti, o per averla vissuta in prima persona o averne avuto dolorose testimonianze, una indimenticabile e ineguagliabile esperienza ma anche un doloroso punto fermo. E si era certi, si pensava, che, dati i tempi e le circostanze, mai sarebbero state sperimentate epidemie di eguale o diversa portata. Ci è toccato, invece, addirittura di vivere la prima epidemia in mondovisione o, se volete, resocontata minuto per minuto, alla stregua delle partite di calcio di una volta, al punto che sappiamo tutto, o quasi, di ciò che è accaduto a Wuhan o in provincia di Hubei, nella lontana Cina, di cui sino all’altro ieri ignoravamo addirittura l’esistenza, mentre, forse, siamo all’oscuro che il nostro vicino di casa è passato a miglior vita. Intanto, sempre in tv, tuttologi di tutte le specie dissertano su ogni cosa, i sindaci hanno scoperto la forza di penetrazione dei social e si sono inventati personali mini emittenti via facebook e buontemponi di entrambi i sessi, per forza di cose “ai domiciliari”, dal balcone di casa affidano a balli e canti presunti poteri scaramantici cui la D’Urso non lesina il supporto di una diretta semmai contestuale a quell’altro canale che in quel momento trasmette le strazianti immagini di una lunga teoria di camion militari carichi di bare “trasferite” senza quel naturale ed umano conforto di familiari e di amici, cui fino a ieri si era adusi per rispetto, devozione o dovere, o di un bel funerale. Senza renderci ancora conto, come ha evidenziato Papa Francesco durante il momento di preghiera straordinario sul sagrato di Piazza San Pietro nel pomeriggio di venerdì 27 marzo, che «con la tempesta, è caduto il trucco di quegli stereotipi con cui mascheravamo i nostri “ego”, sempre preoccupati della propria immagine». La speranza è che la drammatica circostanza ci serva da lezione se è vero che «il buono non è conosciuto, se il peggio non è venuto» (Fonte: Sig.a Graziella Di Gasparro). È vero: siamo tutti sulla stessa barca. E sebbene ancora non si intraveda la luce in fondo al tunnel, comincia a farsi forte il desiderio di venirne fuori il prima possibile. Di giungere presto a riva, anche se consapevoli che il “dopo”, talvolta, è peggiore del “prima”. Lo abbiamo già sperimentato “dopo la guerra”, quando, però, al di là del “brutto”, ci furono, grazie a Dio, quanto meno, seppur flebili ma comunque confortanti segnali che lasciavano trasparire momenti migliori: ad esempio, l’Ospedale “Del Prete” di Pontecorvo, l’unico rimasto operativo in questo scorcio di territorio fuso dalle bombe, e gli uomini e le donne che aggredirono e distrussero il morbo di allora. E ricordare, con devozione e con rispetto, insieme ai molti anonimi che operarono, combatterono e condivisero quell’altra battaglia, personaggi come Alberto Coluzzi, Roberto Jacovacci, Michele Notaro e Adriana Borghetti.
© Costantino Jadecola, 28 marzo 2020).
4 Replies to “Dalle epidemie storiche nella valle del Liri alla prima in mondovisione”
Interessante articolo sull’epidemie storiche della Valle del Liri. È stato uno stimolo a consultare varie fonti e verificare quello che è avvenuto in quegli anni anche nel mio paese. Grazie per il suo lavoro soprattutto in questi tempi in cui abbiamo bisogno di certezze!
Grazie
Grazie per aver ricordato mio padre.
Lo merita