41 / LA NOSTRA GUERRA / ATTACCO ALLA GUSTAV
La sera dell’11 maggio il sole tramonta una quindicina di minuti dopo le venti. Il cielo è chiaro e stellato. La luna non è ancora uscita dalla sua tana. Ma di lì a poco più di tre ore ci sarà anch’essa.
Al mattino, nessuno ci avrebbe scommesso: pur essendoci stato il sole per diversi giorni, l’11 maggio si annuncia nuvoloso. Piove, addirittura. E, nel pomeriggio, stagna sulla zona una fastidiosa foschia.
Per i tedeschi non è un giorno diverso dagli altri. Del resto, dalla fine di marzo sul fronte domina un’irreale tranquillità rotta, di tanto in tanto, dallo sporadico fuoco delle artiglierie.
Tra gli alleati, invece, si riesce a malapena a reprimere una diffusa tensione anche se non sono pochi quelli che riescono a dormire in previsione dei giorni immediatamente a venire quando, di sicuro, non ci sarà tempo nemmeno per sedersi a riposare.
Sta, infatti, per scattare l’offensiva alleata. Quella buona. Che dopo i clamorosi fallimenti dei mesi passati consentirà, finalmente, l’apertura della porta da cui si accede alla valle del Liri. Ovvero, della strada per Roma.
E perché questa volta l’operazione — che è stata battezzata “Diadem” — sia coronata da successo, gli alleati vi si dedicano con puntiglioso impegno, lavorandoci per sei settimane, a partire dal 24 marzo, e concentrando sui circa 30 chilometri che separano Cassino dal mare oltre gli uomini della V anche quelli dell’VIII armata a cui disposizione vengono messi centinaia di pezzi di artiglieria: qualcuno dice 1.600; qualche altro 2.000.
Una cosa è certa: l’operazione si svolge nella massima segretezza. Top secret.
Scrive Winston Churchill: «Il raggruppamento delle nostre forze in Italia ebbe luogo nel massimo segreto: tutto il possibile fu fatto per nascondere i movimenti l nemico e per trarlo in inganno. Quando il raggruppamento fu completo il generale Clark, comandante della 5 armata, si trovò ad avere oltre 7 divisioni, di cui quattro francesi, schierate sul fronte dal Tirreno al fiume Liri; da questo punto il fronte, che continuava oltre Cassino tra i monti appenninici, era tenuta dall’8 armata, ora agli ordini del generale Leese, con forze equivalenti a circa 12 divisioni. Altre sei erano state ammassate sulla testa di ponte di Anzio, pronte a balzar fuori al momento opportuno; sul settore adriatico erano schierate forze pari ad appena 3 divisioni. In complesso gli Alleati schieravano oltre 28 divisioni.
«Di fronte ad esse c’erano 23 divisioni tedesche; ma le nostre finte, tra cui la minaccia di uno sbarco a Civitavecchia (il porto marittimo di Roma) avevano disorientato così bene Kesserlingche le sue forze si trovavano assai sparse. Tra Cassino e il mare, dove sarebbero stati sferrati i nostri colpi più violenti, erano schierate appena quattro divisioni, mentre le riserve erano sparpagliate e lontane».
Ma i tedeschi non sono rimasti con le mani in mano e, seppure “disorientati” da un eventuale sbarco a Civitavecchia, tuttavia, hanno pensato a rafforzare le loro postazioni nella valle del Liri iniziando a costruire sin da Natale una seconda linea difensiva dieci chilometri dietro la Gustav: la linea Hitler.
Fred Majdalanyspiega di cosa si tratta: «Profonda quasi un chilometro, consisteva dei soliti campi minati, di fosse anticarro, di reticolati, di casematte, molte delle quali erano torrette di carri armati affondate nel terreno e munite del micidiale cannone da 88 mm. Questa linea, che dal massiccio centrale passava per Piedimonte attraverso la valle del Liri, doveva contrastare una possibile infiltrazione nemica oltre la linea Gustav. Le due linee funzionavano come una porta oscillante, il cui perno era il Monte di Cassino. Se forzata, poteva oscillare, attraverso la valle invasa, fino alla linea Hitler, fermo restando il Monte di Cassino come cardine e punto fermo. Poi poteva essere staccata dai gangheri e collocata, due o tre chilometri indietro, su un nuovo cardine, Piedimonte; e Piedimonte, antica città-fortezza su una collina rocciosa, sarebbe diventata un nuovo Montecassino».
Ma Kesserling è anche preoccupato dalle ingenti forze alleate presenti ad Anzio cosicché sin da marzo ci si è messi all’opera per creare una terza linea difensiva, la Cesare, sui colli Albani, nel caso in cui sia la Gustav che la Hitler avessero ceduto agli alleati.
Che costoro prima o poi avrebbero attaccato in forze, è scontato. Si tratta solo di vedere quando ciò sarebbe accaduto. Ma che lo facciano la notte dell’11 maggio è probabilmente al di là e al di fuori di ogni logica e di ogni previsione.
Infatti, il generale von Senger, che comanda il 14.mo corpo corazzato tedesco, è in licenza in Germania ed in licenza si trova anche il generale von Vietinghoff, che comanda la decima armata.
Von Senger, poi, prima di partire, ha dato precise disposizioni perché la sua armata sia pronta a respingere eventuali attacchi dal 24 maggio in poi.
Accade, così, che tra Cassino e il mare, dove gli alleati avrebbero sferrato gli attacchi più violenti, ci sarebbero state schierate appena quattro divisioni tedesche. Fossero state di più, l’esito della battaglia difficilmente sarebbe stato diverso, essendovi di fatto, a favore degli alleati, una superiorità numerica di tre a uno oltre l’elemento sorpresa, quanto a luogo e tempo dell’attacco. Che, non a caso, viene definito «il capolavoro di Alexander» il quale, per realizzarlo, s’ispira ad un principio di Orazio Nelson: «Solo il numero annienta».
E, ad Alexander, l’11 maggio Churchill telegrafa in questi termini: «Tutti i nostri pensieri e le nostre speranze vi accompagnano in quella che spero e credo sarà una battaglia decisiva, combattuta sino allo spasimo, avendo come obiettivo la distruzione completa delle forze armate nemiche a sud di Roma».
La risposta di Alexander è immediata: «I nostri piani e preparativi sono ormai a punto e tutto è pronto. Abbiamo la viva speranza e la ferma intenzione di conseguire il nostro obiettivo, cioè la distruzione delle forze nemiche a sud di Roma. Ci attendiamo combattimenti estremamente duri e aspri e siamo pronti ad affrontarli. Vi trasmetterò al momento dell’inizio dell’attacco la parola convenzionale».
Intanto l’artiglieria agisce senza entusiasmo. Poi, verso sera, da entrambe le parti il fuoco cessa del tutto. Fred Majdalany annota: «Sul Monte di Cassino e sulla valle calò un silenzio strano, innaturale: un silenzio grave, come su una nave quando si fermano i motori. Ma in quella circostanza era misterioso, opprimente. Solo una volta, dal giorno di Natale, i cannoni di Cassino avevano taciuto per più di qualche minuto: la mattina di Pasqua, quando d’ambo le parti vi fu una spontanea sospensione del fuoco. I reparti britannici allora in linea avevano avuto l’ordine di non sparare prima di mezzogiorno, a meno che non fosse il nemico a cominciare. Il nemico non aveva sparato, e la mattina passò nel silenzio. Ma questa volta era diverso».
I tedeschi sospendono il fuoco delle loro artiglierie perché nella notte che sta per calare, intendono attuare un movimento di reparti. Ma per gli alleati, che ignorano la cosa, è un altro motivo che contribuisce ad accrescere la tensione che hanno in corpo. Perciò, soprattutto per rompere quel silenzio irreale che grava su di essi, di tanto in tanto sparano qualche colpo.
E’ notte fonda da tempo quando, al convenuto segnale trasmesso da Londra dalla BBC, si scatena il finimondo. Sono le 23 in punto. Riferisce Majdalany: «1600 cannoni squarciarono la notte, e cominciò un bombardamento di quaranta minuti su ogni comando, su ogni batteria, su ogni posizione difensiva dei tedeschi. Dietro, fin dove giungeva lo sguardo degli uomini di prima linea, si scorgeva un profilo tremolante di monti sconvolti; davanti, echeggiando e riecheggiando per valli e burroni gli schianti delle bombe, si udiva un unico continuo riverbero di tuono, contrappuntato solo dal rantolo delle bombe che solcavano il cielo a centinaia.
«Ottanta chilometri dietro il fronte, dove una divisione di riserva si teneva pronta a entrare in battaglia, un ufficiale non riusciva a prender sonno per il canto degli usignoli. Ma quella notte, tra il canto degli usignoli, egli avvertì, più che sentire, un altro suono: poco più che una debole vibrazione dell’atmosfera. Guardò l’orologio. Erano le undici. Era cominciata».
Da parte tedesca, c’è la testimonianza di Rudolf Böhmler: «Da Acquafondata fino al Tirreno si snodò un serpente di fuoco, e i colpi tuonarono da 2.000 cannoni. Lo spettacolo era imponente; i lampi guizzavano fin dove giungeva l’occhio, e il tuono scoppiava e si rifrangeva in continuazione contro le pareti rocciose.
« (…) Di nuovo migliaia di proiettili penetrarono nelle posizioni tedesche, l’artiglieria e le sedi dei comandi divennero nuovamente gli obiettivi dei più pesanti calibri alleati».
Non diversa la sensazione di altri testimoni. L’avvocato Tancredi Grossiche è a San Michele, una frazione di Cassino, racconta: «Erano le 23 precise quando cominciarono, da San Vittore del Lazio e da altri punti lontani, a tuonare i cannoni di grosso calibro. Subito dopo, da Cervaro, da Sant’Antonino, da San Michele, da Portella, da Sant’Elia Fiume Rapido, dalle montagne vicine, fecero eco i cannoni di medio e di piccolo calibro. Dopo cinque minuti, si scatenò un frastuono assordante, infernale, il cui epicentro era San Michele. La nostra casetta tremava come se fosse scossa da un terremoto prolungato.
«La grande offensiva era effettivamente cominciata con quel violentissimo attacco di artiglieria: si trattava di circa duemila bocche di fuoco che da tutte le direzioni tiravano simultaneamente sulle difese nemiche.
« (…) Mi trovai dinanzi a uno spettacolo terribile e meraviglioso. Per il raggio di parecchi chilometri, il cielo era una fantasmagoria di colori velocemente mobili che si intersecavano ovunque, illuminando a giorno San Michele e tutte le zone circostanti.
« (…) Attratto dalla grandiosità terribile dello spettacolo, mi scostai di alcuni metri dalla casa, e, assieme a Guido, mi posi addirittura in un punto completamente scoperto per poter meglio immergermi nella contemplazione dell’eccezionale visione. Avevo perduto affatto il senso del pericolo, e ammiravo l’inverosimile scenario in uno stato di estasi e di subcoscienza. I tiri erano diretti oltre Montecassino, su monte Cairo, su monte Cifalco, sulle zone circostanti le dette montagne, ed erano intrecciati in modo che ogni palmo di terra o di roccia rimanesse colpito».
Pietro Vassalli, che si trova a Collealto, una località tra Atina ed Alvito, racconta: «Si vedeva dal Pianoro un immenso bagliore fatto dalle segnalazioni luminose, dai razzi, dai colpi in arrivo e in partenza, dai vasti incendi elevantisi dai monti sovrastanti Atina e Sant’Elia Fiumerapido fino a Roccasecca, con un balenio continuo, come lampi durante l’uragano, si vedeva ovunque nell’orizzonte; l’ampio anfiteatro montuoso era illuminato in permanenza. Un cupo rombo diffuso, intermezzato dalle detonazioni dei colpi delle opposte artiglierie di diversi calibri e da diverse provenienze, delle innumerevoli mitragliatrici, era l’eco dell’immane tempesta di ferro e di fuoco che sconvolgeva il campo di battaglia, dove il terreno era battuto palmo per palmo dagli alleati. L’artiglieria tedesca rispondeva efficacemente, con calma, ma con minore intensità, nella proporzione di un colpo per ogni tre degli alleati.
«Il cielo si riempì di una densa foschia, in mezzo alla quale spuntava pallida la luna, muta testimone di tanta carneficina» (41, continua).
© Costantino Jadecola, 1994.