35 / LA NOSTRA STORIA / EROI
35 / LA NOSTRA STORIA / EROI
Il 23 marzo 1944, a Roma, in via Rasella, una colonna di soldati tedeschi, viene attaccata da un nucleo dei GAP, i gruppi comunisti di azione partigiana, del quale fanno parte, tra gli altri, Rosario Bentivegna, Carla Capponie Franco Calamandrei.
Se non fosse animata da qualche persona e da alcuni “spazzini” intenti alle pulizie, la strada sarebbe totalmente deserta. Presso palazzo Tittoni c’è una carretta di quelle usate per la raccolta della spazzatura. Ma in essa non c’è solo spazzatura: in una cassetta di acciaio ci sono dodici chili di esplosivo; un altro pacco di sei chili è collegato ad una miccia che può rimanere accesa per un minuto buono.
ScrivonoIndro Montanellie Mario Cervi: «Quel giorno i tedeschi erano in ritardo. Attesi per le 15, fecero udire il loro passo cadenzato solo verso le 15,30. Calamandrei si tolse il cappello (era il segnale convenuto), Bentivegna accese la miccia e si allontanò verso via Quattro Fontane dove lo aspettava Carla Capponi, che lo coprì con un impermeabile. Quella che stava marciando era la 11.ma compagnia del terzo battaglione del Polizei Regiment Bozen, territoriali altoatesini che, troppo anziani per essere mandati al fronte, erano stati destinati al servizio d’ordine in città.
«(…) Gli ordigni esplosivi fecero strage. trentadue militari tedeschi rimasero sul terreno insieme a un bambino e a sei civili italiani, che per fatalità erano in quei pressi (il comando partigiano affermò poi che i civili erano stati vittime della sparatoria forsennata cui i tedeschi si erano abbandonati nella prima reazione all’attentato). Il decesso di un ferito portò le vittime tedesche a 33».
L’ordine di rappresaglia prevede l’eliminazione di dieci ostaggi italiani per ogni tedesco ucciso. Ma trovare 330 vittime non è facile. Alla fine, però, saranno 5 in più, scrivono Montanelli e Cervi, «di quelli che la proporzione di dieci a uno avrebbe sia pure crudelmente legittimato».
Il 24 marzo, il comandante della Gestapo di Roma, ovvero il colonnello Herbert Kappler, condurrà 335 detenuti politici, tratti dalle carceri di via Tasso e di Regina Coeli, in una cava lungo la via Ardeatina e procederà alla loro esecuzione. Delle 335, dieci vittime delle Fosse Ardeatine sono originarie della provincia di Frosinone. Ricordiamole.
Giovanni Ballina, contadino di Ferentino. Arrestato perché ritenuto responsabile di atti di sabotaggio contro i tedeschi;
Alberto Fantacone(27 anni), avvocato di Esperia. Tenente dei Bersaglieri in congedo, dopo l’8 settembre è uno degli animatori della resistenza romana. Arrestato dalle SS il 28 gennaio con l’accusa di appartenere ad una banda partigiana viene rinchiuso dapprima nel carcere di via Tasso e poi in quello di Regina Coeli. Con decreto del Presidente della Repubblica gli è stata conferita (17 dicembre 1953) la Medaglia d’argento al valor militare alla memoria con questa motivazione: «Appartenente a banda armata operante nel fronte della Resistenza, si prodigava senza sosta nella dura lotta contro l’oppressore, trasfondendo ai compagni il suo indomito coraggio e l’ardente amor di Patria. Noncurante dei continui rischi cui si esponeva, portava a termine, con ogni mezzo e con alto rendimento, tutte le missioni operative e di sabotaggio affidategli. Catturato, sopportava con ammirevole fierezza le barbare torture inflittegli durante la sua detenzione ed affrontava serenamente la fucilazione pago di aver contribuito con l’olocausto della vita al trionfo della causa nazionale».
Celestino Frasca(33 anni), muratore di Veroli;
Domenico Iaforte(51 anni), calzolaio di Sora. E’ portiere dello stabile di via della Stelletta 20, a Roma. Comunista, viene arrestato alle 21,30 del 15 marzo 1944 forse perché «coinvolto in avvenimenti più grandi di lui in quanto veniva considerato responsabile di ciò che avveniva o forse si tramava nel palazzo».
Luigi Mastrogiacomo, usciere presso il ministero delle Finanze, di Ceccano, località Maiura. Angelino Loffredi scrive «che il giorno del suo arresto stava custodendo per conto del Ministero delle Finanze una radio posta su un barcone ormeggiato sul Tevere. Per cause non ben conosciute una pattuglia tedesca lo trovò non solo a sorvegliare la radio ma anche ad ascoltare una comunicazione proveniente da fonte partigiana».
Raffaele Milanofu Giuseppe (48 anni), rappresentante di commercio di Sora. Di agiata famiglia ebrea, che aveva un grande negozio di stoffe in piazza Santa Restituta ma che venne decimata dal terremoto del 1915. Venne arrestato alle ore 14 del 25 febbraio 1944 in una pensione di via Palestro a Roma, ove, trasformato il cognome in Piccone, era nascosto con la moglie, Margherita Bondi, e la figlia. Fu tradito, pare per 5.000 lire, «da una vecchia cliente, Luciana Ferranida Giulianova, che si macchiò del sangue di altri ebrei che trad’ e consegnò ai tedeschi, specie nella zona della Stazione, dove era conosciuta col nome di ‘Contessa Marini’. Era aiutata da un certo Antonini».
Ambrogio Pettorini, agricoltore di Ferentino. Arrestato perché ritenuto responsabile di atti di sabotaggio contro i tedeschi;
Domenico Ricci, impiegato di Paliano;
Antonio Ferdinando Roazzi, autista di Serrone. Arrestato dalle SS perché nascondeva prigionieri inglesi;
Simone Simoni, generale di Patrica, decorato con Medaglia d’oro per attività partigiana con questa motivazione: «Grande invalido di guerra, superdecorato al valore, fedele al proprio dovere di soldato partecipò tra rischi continui alla lotta clandestina. Arrestato dai nazifascisti e sottoposto alle più feroci torture mantenne l’assoluto silenzio sull’organizzazione. In occasione di una esecuzione sommaria venne per rappresaglia barbaramente trucidato, facendo olocausto di sé stesso per l’affermazione delle più alte idealità di libertà Roma, Fosse Ardeatine 24 marzo 1944».
Il sacrifico di don Giuseppe Morosini
In quello stesso mese di marzo, sempre a Roma, si decide il destino di un’altra vittima di origine ciociara: don Giuseppe Morosini. Originario di Ferentino, dove era nato il 19 marzo del 1913, viene ordinato sacerdote a Roma nella Pasqua del 1937 dal vice gerente mons. Luigi Traglia. Cappellano militare nel IV reggimento artiglieria è impegnato per un anno sul fronte balcanico; rientrato a Roma, dopo il bombardamento del 19 luglio 1943, gli vengono affidati 150 ragazzi delle zone sinistrate raccolti nella scuola Pistelli a Prati. Ma è dopo l’8 settembre che la sua attività assistenziale s’intensifica notevolmente a beneficio di alcuni soldati i quali, si legge in una cronaca del tempo, «anziché darsi in mano al nemico, avevano preferito attendere in una zona di Monte Mario l’ora della riscossa. Ma dopo qualche giorno incominciarono a mancare di tutto: vestiti, scarpe, vettovaglie. La situazione si faceva critica. Mancava loro anche una parola amica d’incoraggiamento e di conforto. Un giorno, uno di essi ricoverato in un ospedale s’incontrò con don Morosini e lo mise al corrente della situazione dei compagni. Don Morosini capì che c’era bisogno della opera sua e non seppe resistere all’impulso del cuore. Una volta alla settimana si recava nelle loro caverne e nascondigli per celebrarvi la Messa e condividere con loro le amarezze di quella vita impossibile. Poi s’accorse che l’assistenza religiosa non bastava. Scarpe, vestiti, cibarie di ogni genere giunsero allora a destinazione con una regolarità e un’industria ammirabile. Per lui, don Giuseppe, questo era Vangelo vissuto, era una necessità del cuore, era un dovere della sua anima di sacerdote. I pericoli, i disagi, quella che qualche parassita chiama ‘prudenza’ non li conosceva, né fecero mai la minima breccia nel suo animo».
Ebbe, così, gioco facile chi, per settantamila lire, lo vendette ai tedeschi che lo arrestarono il 4 gennaio nel collegio Leoniano di via Pompeo Magno. Ma anche a Regina Coeli, dove occupò la cella 382 del terzo braccio, notoriamente una delle più orribili, don Giuseppe, «a confessione degli stessi giudici, si comportò sempre con una freddezza d’animo e serenità di spirito straordinari. In prigione, nei tre lunghi mesi d’attesa, fu un modello d’amico e soprattutto di sacerdote. Sostegno dei deboli, consigliere e padre. Anche nelle segrete di ‘Regina Coeli’ il suo zelo sacerdotale aveva modo di esplicarsi facendo risuonare quel luogo di dolore, di pene e d’angoscie della frequente preghiera confortatrice».
C’è da ricordare che durante questo periodo di dura detenzione don Giuseppe compone una «Ninna Nanna p. Soprano e Pianoforte (Possibile di un’ulteriore correzione)» per il suo giovane compagno di prigionia Epimenio Liberila cui moglie attendeva la nascita di un bambino. E proprio da una lettera scritta da Liberi alla moglie, «traspare tutta la grande serenità del suo animo e la profonda riconoscenza per l’aiuto spirituale che gli aveva saputo infondere durante la reclusione don Morosini».
Il 15 marzo viene pronunciata la condanna a morte ed a nulla valgono i buoni uffici interposti da Pio XII: prima dell’esecuzione. Il lunedi santo del ’44, 3 aprile, a Forte Bravetta, don Giuseppe chiede, come grazia, di poter celebrare. A mons. Bonaldi, che lo incoraggia ad essere forte, dice: «Monsignore, ci vuole più coraggio per vivere che per morire» e a mons. Traglia, che ha deciso di assistere “il suo sacerdote’ fino alla fine, raccomanda di ringraziare quanti si sono interessati a lui, il Papa in primo luogo. Poi lo prega di consegnare il crocefisso dei suoi voti religiosi, che bacia prima della fucilazione, al fratello. Benedice e perdona i soldati del plotone di esecuzione, «visibilmente commossi». E perdona anche chi lo ha tradito.
La scarica di fucileria non lo uccise. Stramazzò a terra in un lago di sangue. Chiese l’estrema unzione, che ricevette. Poi l’ufficiale che comandava il plotone lo finì con un colpo di rivoltella alla nuca.
La notizia arriva a Ferentino due giorni dopo, il 5 aprile. Ed è di grande sgomento per i suoi cittadini.
Don Giuseppe Morosini viene insignito della Medaglia d’oro al Valor militare per attività partigiana con questa motivazione: «Sacerdote di alti sensi patriottici, svolse dopo l’armistizio opera di ardente apostolato fra i militari sbandati. Assolse delicate missioni segrete, provvedendo altresì all’acquisto e alla custodia delle armi. Denunciato e arrestato, nonostante i numerosi interrogatori, non rivelò nulla al nemico. Celebrato con calma il supremo sacrificio, offrì il giovane petto alla morte». (35, continua).
© Costantino Jadecola, 1994.