34 / LA NOSTRA STORIA / ‘FORTEZZE VOLANTI’ IN AZIONE
Alatri, Anagni, Ferentino, Veroli: quattro città che in una situazione quale è quella che si vive nel Lazio meridionale durante il secondo conflitto mondiale rischiano, giorno dopo giorno, di vedere andare in polvere non solo irripetibili espressioni artistiche di altre epoche ma anche testimonianze di vicende storiche talvolta universali.
C’è, in quei frangenti, ci si chiede, qualcuno che pensi loro ed alla loro salvaguardia?
Ad attivarsi in tal senso sono soprattutto, se non in via esclusiva, i vescovi più direttamente interessati a quel patrimonio i quali, attraverso la Segreteria di Stato della Santa Sede, raccomandano che le operazioni belliche siano limitate all’indispensabile al fine di evitare danni irreparabili al patrimonio artistico.
C’è tuttavia da evidenziare anche l’interessamento di un gesuita, insegnante di ebraico presso il pontificio collegio Leoniano di Anagni, che, per essere di nazionalità tedesca, in qualche modo sfrutta tale sua condizione per interporre i suoi buoni uffici presso le autorità militari della sua nazione di origine: il padre Hiemer.
Kesserling, che pure condivide le preoccupazioni prospettategli, si legge in una nota dell’ambasciata tedesca presso la Santa Sede del 9 gennaio, «non può dare la sicurezza di trattare come territorio neutrale una determinata zona, poiché dall’esperienza avuta fin qua tali accordi non sarebbero osservati da parte nemica. Egli ammette volentieri però — relativamente alle città di Anagni, Alatri, Veroli e Ferentino — che esse provvisoriamente non dovrebbero essere utilizzate quali centri militari e dovrebbero essere lasciate libere, per quanto possibile, dalle sue truppe.
«Tuttavia le linee di comunicazione e le strade ferrate situate in questo territorio sono assolutamente necessarie per gli scopi di guerra. Poiché le stazioni della via ferrata sono situate lontano dalle città su nominate, spera di poter proteggere innanzi tutto quelle città dall’immediato contraccolpo della guerra».
Il 23 dicembre, intanto, ad un accorato appello del vescovo di Anagni, Attilio Adinolfi, il maresciallo Rodolfo Graziani, ministro della Difesa, originario della stessa diocesi, ha risposto che le voci correnti «non hanno alcun senso logico e perciò nessuna attendibilità. Potete quindi tranquillizzare i vostri fedeli che nessuna distruzione sarà fatta, se non suggerita da provvedimenti ritenuti indispensabili dal lato della sicurezza militare».
Intanto, Anagni ha già avuto, in varie circostanze, una concreta dose di bombe. Nel suo diario, padreIgino Basilicisegnala che la città è già stata bombardata il 12, il 14, il 24 e il 25 ottobre, il 10 e il 12 dicembre, il 6 gennaio ed il 19 febbraio; ad un mese esatto da quest’ultimo, il giorno della festa di San Giuseppe, una domenica mattina, i bombardieri alleati tornano sulla città dei Papi per lasciare un segno difficile da rimarginare.
Scrive Nello Proia: «Fu una cosa tanto rapida quanto imprevista. Nessuno poteva immaginare, in quel limpido mattino primaverile, che Anagni, la ‘Città Bianca’ ed intoccabile, avesse potuto subire un bombardamento così veemente ed assurdo. Il tutto avvenne in poco più di qualche minuto, ma il risultato fu quello d’un cataclisma dalla durata perpetua.
«Dieci ‘Fortezze Volanti’ — i fatidici ‘B‑29’ Americani che ogni Italiano aveva imparato a conoscere così bene — apparvero all’orizzonte dietro i Monti Lepini, al di là del Monte Cacume, dal versante di Patrica e Supino. Erano le 10,20 mattutine: la città in festa pullulava di gente che s’indugiava o al passeggio sull’ampia Piazza Cavour o tra le mercanzie della Piazza dell’Erba oppure si recava al ‘Pontificale’ delle 11 in Cattedrale.
«Gli aerei erano divisi in due squadriglie di 5 velivoli ciascuna e le loro sagome bianche brillavano sinistramente al riflesso dei raggi del sole, quasi volessero preannunziare ciò che alcuni istanti più tardi sarebbe accaduto. Essi s’avvicinarono sempre più su Anagni, con il loro rombo cupo e grave, ma nessuno badava ad essi. L’immunità della ‘Città dei Papi’ era stata fermamente garantita.
«Ma, giunte all’altezza della Collina di ‘S. Cecilia’, le ‘Fortezze’ iniziarono l’incursione su Anagni. Una trentina di bombe vennero sganciate a ventaglio sulla trasversale Sud-Est della città centrando in pieno due tra i più popolosi ed antichi quartieri urbani, ‘Bagno’ e ‘Castello’. Dapprima un crepitio assordante, quindi delle possenti detonazioni, poi un rumore vieppiù crescente di cose in rovina, infine una coltre densissima e polverosa di fumo che ammantò tutta la parte alta della città. Lì per lì ci fu attonita sorpresa, subito dopo confusione e sgomento, per terminare in un accozzare di panico e raccapriccio indescrivibili».
Vanno distrutti «alcuni dei palazzi più illustri ed annosi» mentre l’opera di soccorso è, inevitabilmente, «lenta, tardiva ed approssimata».anche perché si è trattato di un evento del tutto inatteso. Si contano, infine, novanta morti ed un’altra quarantina se ne aggiungono nei giorni successivi proprio per la carente o superficiale assistenza.
Fra i feriti c’e anche il vescovo Adinolfi, sorpreso dal bombardamento mentre è raccolto in preghiera nella sua cappella. Alcuni, anzi, lo danno addirittura per morto.
Testimonia don Guglielmo Tavani, parroco di San Paolo: «Riavutomi dallo stupore, corsi verso la parte della città colpita dalle bombe; affacciatomi a piazza San Giovanni, si offriva un quadro impressionante di distruzione, di morte: fumanti ancora le macerie delle case crollate a via Dante; un odore acre di polveri esplose, urla dei vivi e lamenti dei morenti, ovunque, dall’ingresso di Palazzo Corazzi allo spazio sotto l’arco del Palazzo Vescovile, alla stessa Piazza di San Giovanni sulla quale giacevano incomposti resti umani, qualche testa staccata dal busto, pezzi di tavole divelte dalle porte e dagl’infissi, lanciati lontani dalla furia dell’aria spostata. Il Palazzo vescovile semidiroccato, lesionato, cadenti le mura aperte reggentisi in piedi per pura forza d’inerzia, il grande portone centrale portato via come piuma. Sui suoi rottami trasportammo i primi resti umani orrendamente maciullati che deponemmo all’ingresso del Collegio di San Giovanni e nella Chiesa.
«Alzando lo sguardo vidi il Vescovo che con un asciugamano al collo, largamente insanguinato, usciva da quell’inferno, ferito, mentre sua madre era portata sopra una sedia, non so se ferita, insieme alla figliola, ma ricordo bene che piangeva tanto.
«Lui, noncurante delle ferite, rassicurava tutti, per tutti aveva parole di conforto, di coraggio; ma quando, uscito da Palazzo pericolante, guardò via Dante e l’informe ammasso di rovine ancora fumide… ebbe una stretta al cuore… pianse, alzò la mano a benedire, come faceva sempre, per la strada, circondato dai bambini e dalla umile gente del popolo, pregò per i morti e per i moribondi e… recitò un De profundiscon una devozione che forse non ebbe neanche quando pianse Suo padre e quando Lo vedemmo accanto alla salma di sua Madre, a Palazzo Colacicchi. Poi impugnò una pala per aiutare a sgomberare le macerie; ma le condizioni delle ferite non Gli consentirono di proseguire e dovette allontanarsi per le prime cure».
Cassino: obiettivo mancato
A Cassino, i comandanti alleati si rendono conto ben presto che quel bombardamento del 15, così come già era accaduto a Montecassino esattamente un mese prima, ad altro non era servito che a rafforzare le difese tedesche. Scrive Fred Majdalany che essi, «per giorni e giorni avevano rimandato l’operazione, in attesa del bel tempo, ed ecco che adesso, la prima sera della battaglia, il tempo s’era guastato. Non solo venne giù un’acqua torrenziale che trasformò immediatamente in laghetti i crateri delle bombe, e le macerie in un pantano vischioso, ma la massa compatta delle nubi coprì la luna, sulla quale tanto avevano contato i genieri per il loro difficilissimo compito di aprire passaggi fra le rovine, in quella prima notte decisiva. Non vi è quindi da stupirsi se il comandante tedesco, dopo aver chiesto aiuto alla Luftwaffe per il giorno seguente, ripensandoci osservò: ‘Ma la pioggia sarebbe anche meglio degli aerei’».
Oltre quella dei crateri, che tuttavia fu una sorpresa relativa dal momento che qualcuno l’aveva messa in conto, e della inattesa pioggia, la vera sorpresa, secondo Majdalany, è un’altra: «Nessuno s’era immaginato che dopo un simile uragano sarebbe rimasto un solo soldato tedesco in condizioni di difendersi. Giudicando secondo le possibilità umane, i paracadutisti tedeschi, se non sepolti dalle macerie avrebbero dovuto almeno perdere ogni spirito combattivo in modo da non essere in grado di opporre alcuna resistenza».
Del resto, da come Cassino è ridotta — ed à estremamente significativa questa testimonianza del colonnello alleato Nangle- una supposizione del genere è a dir poco lecita: «Dopo il bombardamento la città si era trasformata in un caos incredibile. Non vi erano più tracce di strade e di sentieri, solo grandi mucchi di rovine dalle quali emergevano i muri smozzicati. Dappertutto enormi, profondi crateri, per i quali bisognava scendere e inerpicarsi, con le mani e coi piedi… ».
Il generale Ira C. Eaker, comandante in capo della MAAF, ovvero della forza aerea alleata del Mediterraneo, praticamente «quello che aveva montato lo spettacolo», subito dopo la fine del bombardamento comunica «che le 2.500 tonnellate di bombe appena lanciate superavano il quantitativo sganciato su Berlino». E poi aggiunge, certo della vittoria, che «i tedeschi devono ricordarsi che quello che abbiamo intrapreso contro la fortezza di Cassino, negli idi di marzo, lo intraprenderemo contro ogni posizione che essi intendono difendere».
Ma l’insuccesso alleato assume più rilevanti dimensioni se si pensa che, dopo il bombardamento, la sua artiglieria spara, nel periodo tra il 15 ed il 25 marzo, 588.094 granate, di cui ben 195.969 tra le ore 12,30 e le ore 20 del 15 marzo. Fatto, questo, che spiega ampiamente l’amarezza del generale americano Deversche in una lettera inviata a Washington il 22 marzo, scrive: «Ho creduto che il 15 marzo con l’attacco contro Cassino avessimo raggiunto il nostro scopo e che saremmo riusciti finalmente a penetrare nella Valle del Liri. Abbiamo impiegato l’aviazione, l’artiglieria e i carri armati, seguiti immediatamente dalla fanteria. Assistetti all’attacco dall’altra parte della valle: ebbe inizio con tempo splendido. Il bombardamento fu centrato molto bene e fu pesante; il fuoco dell’artiglieria che seguì fu ancora più pesante e più preciso. Vi presero parte 900 cannoni. Due gruppi di bombardieri medi gettarono le prime bombe alle 8,30 in punto; vennero seguiti da 11 gruppi pesanti e poi da tre gruppi di apparecchi medi. Fino alle 9 i gruppi si susseguirono ogni dieci minuti; dopo, ogni 15 minuti. Nonostante tutto ciò, nonostante l’eccellente appoggio dei cacciabombardieri e dell’artiglieria, che durò tutto il pomeriggio, le truppe terrestri non riuscirono a raggiungere i primi obiettivi del loro attacco… questi risultati sono stati per me una doccia fredda. La mattina presto, la fanteria era stata ritirata di 5 km. a nord di Cassino: quando ritornò a Cassino verso le 13 circa, subito dopo il fuoco dell’artiglieria, i tedeschi erano ancora lì. Essi riuscirono a bloccare il nostro attacco e, in modo inspiegabile, a rinforzarsi durante la notte».
Insomma, l’insuccesso dell’operazione è, per gli alleati, un’amara pillola da digerire (34, continua).
© Costantino Jadecola, 1994.