23 / LA NOSTRA GUERRA / LE PRIME BOMBE DEL ’44
Gli alleati, più passa il tempo e più diventano nervosi: una “campagna d’Italia” così dura non l’hanno messa in conto e, d’altro canto, nemmeno immaginano che il “bello” deve ancora venire.
E, allora, si sfogano lanciando bombe un po’ dappertutto, bombe che provocano distruzione e vittime in numero sempre maggiore. Tant’è, ad esempio, che a Casamari, dopo avervi installato un ospedale, che all’inizio dell’anno ospita circa 300 feriti, i tedeschi sono costretti ad individuare un luogo di sepoltura. Scrive, infatti, don Luigi De Benedetti: «Per le frequenti morti dei soldati feriti (già una ventina), i tedeschi hanno scelto per seppellire i cadaveri il lembo di terra che intercede fra l’angolo della Clausura a sud-est e la strada provinciale Frosinone-Sora.
«Il primo morto vi viene seppellito il 5 gennaio. In questo cimitero, di circa mille metri quadri di superficie, i soldati deceduti nell’ospedale vengono tumulati in fosse di un metro e mezzo di profondità, nudi e senza cassa. Sulle fosse ricoperte viene innalzato un piano di terra lungo e largo quanto la fossa che porta in testa una larga croce di legno. Il seppellimento viene effettuato di sera. Ogni croce porta scritto il grado e il nome del soldato col numero della matricola e le date di nascita e di morte».
Le prime bombe del ’44 piovono su Giuliano di Roma il 2 gennaio e, poiché è la prima volta in assoluto che ciò accade, ben si comprende il panico che il bombardamento provoca tra la gente. Don Alvaro Pietrantoniscrive: «Un aereo degli alleati, forse perché colpito dall’antiaerea tedesca, sganciò una bomba nella contrada ‘Quacquarigli’, lasciando una buca ampia circa 16 mq. e un’altra sul monte Siserno, nella località detta ‘Pizzo dell’orticello’. Fortunatamente non vi furono vittime. Il popolo, terrorizzato, di nuovo cercò sicurezza nelle campagne e sulle montagne, abbandonando il centro cittadino, che rimase con pochi abitanti».
Nella serata dello stesso giorno, verso le 19, due ricognitori alleati sorvolano Ripi: pare che avvistino una luce che, in men che non si dica, diventa loro bersaglio. Si lanciano, infatti, in picchiata e sganciano una bomba che finisce verso il terzo chilometro di via Succurre Miseris: si ignora se l’obiettivo sia stato centrato; è assodato, invece, che l’ordigno da essi lanciato provoca la morte di Natalina Cavalli, 41 anni, e del figlio Ruggiero Truini(13) che stanno avviandosi verso la loro abitazione di via Colle San Giorgio in compagnia di Giovanni Ferrante(18). Quest’ultimo muore il mattino successivo all’ospedale di Veroli dove era stato ricoverato per le gravissime ferite.
Il 3 gennaio, nel mirino degli aerei alleati c’è, ancora una volta, la stazione di Sgurgola e, con essa, il «ponte dell’anguilla». Ma, annota padre Igino Basilici, «i treni continuano a correre indisturbati».
Ben più drammatiche, invece, le conseguenze del bombardamento che quello stesso giorno ha come bersaglio Isola Liri e, in particolare, i suoi due ponti sul Liri: diciotto morti e la totale distruzione della cappella del Crocefisso di piazza SS. Triade ne costituiscono il tragico bilancio. Riferisce Vincenzina Pinelli: «Sono circa le 13 e c’è un sole tiepido. Nel rione Trito alcune donne sostano all’aperto coi bambini. All’improvviso, una squadriglia di aerei alleati spunta nel cielo. Ovviamente ha come obiettivo il ponte di Roma, ma manca il bersaglio. Una bomba colpisce la piazza S.S. Triade e l’impatto col basolato la fa esplodere con inaudita violenza. L’effetto è notevolmente devastante: crolla la chiesa del Crocifisso, crollano alcuni fabbricati adiacenti e muoiono 16 persone. Un’altra bomba cade nel giardino del palazzo Ciccodicola in via G. Nicolucci, dove prende di striscio una condotta d’acqua che alimenta la centrale idroelettrica di via Cascata, danneggiando parzialmente il recinto, provocando il crollo di un locale nell’area del giardino stesso nonché lo spostamento di una grossa pietra basilare del castello Boncompagni.
«La terza bomba cade lungo il viale Garibaldi, abbatte una casa e fa altre due vittime (una terza persona verrà sottratta dalle macerie, viva, dopo parecchie ore). Nel rione Trito è persino difficile recuperare alcuni morti: sono corpi sfigurati, che vengono raccolti in un’unica rudimentale cassa improvvisata e portati al cimitero».
Il 6, il 7 e l’8 sono tre giorni particolarmente duri per la stazione di Anagni: il bombardamento del terzo giorno avviene verso le 11,30 e vede impegnate 12 fortezze volanti. Prima di quest’ultimo, di cui non si hanno ulteriori particolari, cioè a tutto il giorno 7, i treni «camminano ancora indisturbati», come annota, con un pizzico di ironia, padre Igino Basilici.
Va peggio, sempre quel 7 gennaio, a Villa Latina. Scrive Pietro Vassalli: «Una cannonata aveva colpito in pieno un ricovero a contrada Valle Giordana, verso le Cese di Villalatina, presso la casa di Benedetto Panetta, facendo otto vittime: Arturo Petrilli, muratore, la moglie Eva Riccardi, una bellissima giovane con una figliola e la sorella Esterina, Maria Rosaticon due figli, Tortolani Angelina, levatrice, accorsa per prestare assistenza ad una donna partoriente, tutti di Atina; si salvò solo un bambino di otto anni, Franco, figliuolo della Riccardi, il quale, gravemente ferito, fu inviato subito all’ospedale di Sora».
Franco Petrillimi ha raccontato la sua vicenda: «Io ricordo che quella sera c’era un forte cannoneggiamento e che provai anche ad uscire dal rifugio costruito da mio padre e da altre persone. Era sotto una roccia e chiuso da un muro a secco.
«Di quel momento ricordo poco. Eravamo, forse, una ventina di persone. Se non sbaglio, stavo seduto sulle ginocchia di una conoscente che si salvò anche lei come me. Io riportai delle ferite alla tempia, alle gambe ed alla mano sinistra. Comunque caddi in un profondo choc.
«Fui trasportato a Sora. Ma non all’ospedale. Infatti, avevano attrezzato qualcosa del genere in un convento di monaci sotto la montagna. Forse i Cappuccini. Lì restai sei mesi e riuscii a cavarmela per un pelo.
«All’ospedale il cibo mancava e io ero molto deperito. Ricordo che quando i miei nonni vennero a prendermi portarono una grossa pizza bianca con una frittata in mezzo. Naturalmente, la portarono anche per loro; sennonché io la mangiai tutta.
«Quando andai via dall’ospedale, era giugno, ad Atina mi portarono a spalla perché‚ non potevo ancora camminare bene ed anche perché le ferite non si erano ancora rimarginate del tutto. E, poi, ero debole».
Per Isola Liri c’è una replica l’8 gennaio. sempre Vincenzina Pinelli riferisce che «questa volta viene colpito in pieno il rione più fittamente urbanizzato del centro storico di Isola, noto come ‘Il Casarino’. Fortunatamente nessuna vittima. Un’altra bomba viene lasciata cadere in via Roma all’altezza del mulino Papetti e una terza in via Napoli. Il bilancio della funesta giornata è di quindici morti».
Sora, gli aerei alleati la bombardano sia al mattino che al pomeriggio dell’11 gennaio colpendo, oltre molte abitazioni, la chiesa di Santa Restituta e la sede della Banca d’Italia. Nonostante che la popolazione da tempo si sia di molto ridotta, il bilancio dei morti e dei feriti è rilevante anche se non quantificato.
Come per Isola così per Settefrati c’è una replica, «il 15 gennaio1944, alle ore 10,30, precisamente un mese dopo il primo bombardamento», che, in questa seconda circostanza, ha come obiettivo la piazza presso la chiesa madre di S. Stefano, nel quale, riferisce don Crescenzo Marsella, «trovava la morte sotto la furia degli obici la povera Filomena Vittifu Leonardo, di anni 77, e il di lei corpo veniva dilaniato miseramente e come polverizzato era sbranato e disperso in maniera orrenda e raccapricciante. Le sue carni rimasero appese agli alberi per parecchi giorni…
«Crollarono le case, rimase scheggiata la facciata della Chiesa.
«Fu il segnale dell’allarme. Tutta la popolazione fuggì spaventata a rifugiarsi nelle stalle, nelle grotte, nelle case di campagna, nelle capanne costruite sui monti. Gl’infermi si trasportano sulle braccia, sulle sedie, sui muli, fin dentro le ceste di vimini a dorso di asini.
«Anche il sottoscritto fu costretto a trasportare la sua vecchia mamma paralizzata sopra una rete di letto e fuggire attraverso dirupi sulla montagna in una capanna in contrada la Botte, dove rimase insieme a quaranta altre persone fino al 13 febbraio.
«Pioggia, neve, vento, fumo, freddo, pidocchi, angustie e privazioni d’ogni genere. Si era costretti di notte a ripararci con l’ombrello stando sul giaciglio per l’acqua e il nevischio che filtravano dal tetto sconnesso.
«Moriva in una stalla, nella contrada Cecalupo, il Segretario Comunale Gaetano Mazzucconiche, infermo e impotente, fu costretto ad abbandonare la propria casa: spirò sulla porta del misero abituro, mentre la neve cadeva fitta e turbinava dal cielo implacabile».
Dal 9 al 22 gennaio, per Frosinone gli aerei alleati sono come una spada di Damocle: le bombe, infatti, piovono dal cielo, in maggiore o minor misura, il 9, il 13, il 14 ed il 15. Il bombardamento del 19 è articolato in due successive ondate, entrambe con obiettivo il centro urbano, ed è seguito e concluso da un «brutale mitragliamento» in periferia che provoca due feriti. Il 21 è «un continuo carosello» aereo corredato da lampioncini al bengala ma il peggio arriva con il bombardamento del 22.
Picinisco, tra il 12 ed il 15 gennaio, vive quattro giorni d’inferno sempre per via dei soliti bombardieri alleati. Prima di allora non era mai accaduto; precedenti degni di nota sino a quel momento si riferivano solo ad un paio di aerei precipitati: uno tedesco, tra le borgate Serre e San Pietro; l’altro, alleato, presso il ponte sul Mollarino. Del resto, il cielo di Picinisco pare fosse indicato sulle carte di navigazione aerea come punto ideale per iniziare le picchiate sui bersagli da colpire nella zona.
Quel 12 gennaio segna, dunque, il battesimo di fuoco. Che inizia con un violento cannoneggiamento diretto, in particolare, contro le batterie tedesche piazzate presso l’azienda Bartolomucci. Ma, riferisce Vincenzo Arcari, «i primi tiri, quelli di aggiustamento, colpirono la casa degli eredi Ferri, dei Tobia ed altre nelle quali trovò la morte qualche tedesco».
Gli aerei ricompaiono il 13 e poi, in varie occasioni, il 14.
L’ultima volta erano circa le 14,30. Scrive Vincenzo Arcari: «Furono colpiti gravemente l’asilo infantile, la casa Lucchini, quella di ‘Terdeca’ e la medioevale Torre. Anche il Rione, Fucina e Codarda non vennero risparmiati. La grotta spaziosa di Antonio Mancini, nella quale si erano rifugiate circa trecento persone, tra cui le suore con i bimbi dell’asilo, fu colpita da una bomba d’aereo. Non vi furono vittime umane perché la grotta resistette, ma gravi danni apparvero agli occhi degli scampati. La casetta che trovavasi sopra la grotta venne polverizzata. La bomba fu certamente del massimo calibro (circa tre quintali), essendo stata rinvenuta altra simile, inesplosa, cento metri più su della grotta, verso il colle S. Croce (Casetta Salveta) ed una terza in località ‘Sentinelle’».
Gli aerei alleati tornano ancora nel cielo di Picinisco verso le 9 del giorno dopo. Gli obiettivi sono «le abitazioni di Lauri, Boni Francescoed altre al rione Codarda, ritenute rifugio di militari».
E’ inevitabile, a questo punto, che i tedeschi dispongano, quello stesso giorno, lo sgombero del paese, da attuarsi nel giro di ventiquattr’ore, «per avere essi modo di acquartierarsi nelle case e nelle grotte adiacenti».
Il 17 gennaio, tra le altre località, è giorno di bombe anche per Gallinaro e per San Giorgio a Liri. Ma quello è un giorno “speciale”: inizia, infatti, la battaglia di Cassino. Come se tutto ciò che era sino ad allora accaduto, e andava accadendo da tempo, era tutt’altra cosa (23, continua).
© Costantino Jadecola, 1994.