22 / LA NOSTRA GUERRA / I QUATTRO DI ACQUAFONDATA

Una volta che gli alleati hanno la meglio, dovrebbe essere la tanto attesa liberazione. Ma, sia per San Vittore che per Cervaro, liberata il 12 gennaio dal 168.mo, essa non è altro che solo un modo di dire dal momento che questi due centri abitati, come tutti quelli che hanno lo svantaggio di essere a ridosso della prima linea, resteranno nel ciclone provocato dalla guerra fino all’ultimo. Le proibitive condizioni atmosferiche che caratterizzano la fine del vecchio e l’inizio del nuovo anno — vento, pioggia e, verso i confini con l’Abruzzo, violente tormente di neve — salvo sporadiche azioni, bloccano il combattimento su tutto il fronte. Ma la “vacanza” non dura a lungo e già il 4 gennaio l’offensiva riprende, violenta, con gli alleati che tentano la conquista, appunto, di San Vittore e di Cervaro, i primi due comuni della provincia di Frosinone che essi incontrano appena a ridosso della via Casilina.
Il Timesdi mercoledì 5 gennaio riferisce: «Pattuglie americane hanno saggiato le difese attorno al villaggio di San Vittore del Lazio, a nord della rotabile per Roma e a est di Cassino; è stato accertato che qui il nemico intende opporre accanita resistenza, come ha già effettuato a San Pietro Infine situato sulla direttrice di avanzata e ora in nostre mani». Lo stesso giornale, il giorno dopo evidenzia, nel contesto di una offensiva effettuata su un fronte di una quindicina di chilometri, che «si stanno svolgendo combattimenti per le strade di San Vittore, dove il nemico ha trasformato le costruzioni in casematte».
La conquista di San Vittore da parte della V armata ha tutto il sapore dell’attacco ad una fortezza di cui il Timesdi sabato 8 gennaio è un attento testimone: «È un lento, scabroso assalto contro un’aspra resistenza nemica ed è ostacolato da ulteriori grandi nevicate sulle montagne e sui contrafforti che in questo settore si trovano sulla direttrice di marcia delle truppe britanniche e americane.
«Brevi avanzate sono state compiute nella maggior parte della quindicina di chilometri di fronte lungo il quale sono state lanciate. Nel villaggio di San Vittore, che è stato conquistato dalle truppe americane nell’assalto iniziale, i Tedeschi hanno concentrato la loro potente e decisa difesa all’interno di tre capisaldi. Tutti gli approcci al villaggio e la zona ad esso circostante, ad eccezione di stretti passaggi per consentire la ritirata, sono pesantemente bombardati dall’artiglieria tedesca».
Quattro giorni dopo, lo stesso giornale riferisce sulla ulteriore avanzata delle truppe alleate verso Cassino con l’occupazione di Santa Maria de Piternis, a due chilometri a nord-est di Cervaro: «L’attacco, proveniente da est, ha avuto inizio al mattino e ha incontrato un’ostinata resistenza da parte del nemico, che più tardi si è ritirato e ha abbandonato l’altura quando gli Americani hanno dato inizio all’ultimo assalto».
Ma non c’è resa da parte dei tedeschi se ancora il Timesil 15 gennaio scrive che «la lunga battaglia per la Via Casilina, la rotabile per Roma, prosegue il suo arduo corso. Truppe americane della 5.a Armata hanno respinto un selvaggio contrattacco lanciato durante la notte con lo scopo di riprendere Cervaro, subito a nord della rotabile. Ora si spingono verso le pendici settentrionali di Monte Trocchio sull’altro lato della via Casilina», monte che verrà conquistato proprio il 15.
Ma per la conquista di Cervaro è solo questione di ore. Nel quotidiano bollettino emanato da Berlino dal quartier generale del Fuhrer il comando supremo delle forze armate l’11 gennaio comunica che «in Italia Meridionale ad occidente di Venafro proseguono i violenti combattimenti difensivi. La località di Cervaro ed un dorso montuoso a nord-est di essa sono andati perduti dopo dura lotta».
Tutt’altro che una ragazzata
Tra la fine del 1943 e l’inizio del 1944, non lontano dalle Mainarde, tra le Serre, le Forcelle, le Monne e le Rave di Acquafondata, di Viticuso e di Casalcassinese, un manipolo di soldati tedeschi, da postazioni strategicamente felici, tiene letteralmente in pugno una situazione che l’artiglieria alleata, pur con un notevole e non indifferente dispendio di uomini e mezzi, cerca, senza riuscirvi, di cambiare.
I tedeschi, in sostanza, giocano d’astuzia se è vero, come scrive Antonio Iannetta, che «esisteva un solo carro armato che, una o due volte al giorno, partiva dal cimitero di Acquafondata e, seguendo la strada carrozzabile, si recava a Viticuso donde si spingeva sino alla Forcella. Lungo il percorso, di tanto in tanto, sia all’andata che al ritorno, sparava verso le linee pochi colpi. Quando gli Alleati dirigevano il tiro al punto donde il carro aveva sparato, questi aveva già percorso un notevole tratto di strada. Questo carro fantasma non fu mai colpito e riuscì a dare al nemico l’impressione e la convinzione che i tedeschi disponessero nel nostro territorio di un notevole numero di mezzi corazzati».
Chi, invece, sa perfettamente come stanno le cose è la popolazione locale la quale, peraltro, è costretta a subire le conseguenze di questa situazione di stallo destinata a protrarsi chissà sino a quando se non fossero intervenuti fatti nuovi.
E’ ciò che pensano, tra gli altri, anche due amici, Romano Nerie Domenico Mancone, il primo 15 anni, 16 il secondo, due ragazzi, insomma, entrambi di Acquafondata. Ma come fare e cosa fare? Romano e Domenico ne parlano con Agostino Papa, 23 anni, un sottotenente di artiglieria che, quando l’8 settembre c’è stato l’armistizio, era in licenza ad Acquafondata. Papa, lì per lì, considera quell’idea prospettatagli da Romano e da Domenico, quella, cioè, di andare ad avvertire gli alleati al di là della linea del fronte, nient’altro che una ragazzata. Ma, quando si rende conto che i due non scherzano proprio e sono decisi a tutto, aderisce all’iniziativa cui poi si aggrega anche il fratello di Romano, Domenico, vent’anni all’incirca.
Definito il piano, si decide di attuarlo nella notte tra l’8 ed il 9 gennaio: è una notte di luna piena e, come se ciò non bastasse, c’è anche la neve a rendere ogni cosa più “chiara”. Il momento più delicato dell’avventura è, forse, proprio quello in cui i quattro lasciano Acquafondata, dovendo essi attraversare la piana che si estende ai piedi del paese e che è totalmente esposta al controllo dei tedeschi appostati sulle pendici che la delimitano: di lì a poco, infatti, avrebbero imboccato il “traforo”, una galleria di circa 500 metri di lunghezza realizzata sul finire del XIX secolo per interessamento della regina Margherita e dalla stessa finanziata per consentire il deflusso delle acque che ristagnavano ai piedi del centro abitato; appena dopo, invece, c’erano buone possibilità di potersi imbattere con gli avamposti alleati. E così è.
Infatti, non lontano dalla confluenza nella Rava di Acquafondata di quella di Casale, i quattro incontrano alcuni telefonisti americani che, messi a conoscenza delle loro intenzioni, li caricano su una jeep per portarli a Demanio, a Colleoni, presso Venafro, dove c’era un comando francese.
Iniziano subito gli interrogatori nel corso dei quali viene illustrata la situazione delle postazioni tedesche sulla montagna. Dopo di che i quattro vengono trasferiti al comando di Venafro dove, per due, tre giorni, continuano ad essere sottoposti ad un fuoco di fila di domande.
Insomma, i francesi dimostrano di essere abbastanza scettici su ciò che dicono i quattro giovani tant’è che, sino quando non riescono a verificare le informazioni da essi fornite, riservano loro un trattamento tutt’altro che di favore. Anzi, li tengono praticamente prigionieri, a pane ed acqua, minacciandoli di condannarli come spie semmai non avessero detto la verità.
Poi, però, dopo tre giorni, cioè una volta certi che le informazioni ricevute sono veritiere, i francesi trasferiscono i quattro dal carcere a palazzo Cimarelli, sempre a Venafro, riservando loro un trattamento diametralmente opposto, dalla qualcosa essi arguiscono che le informazioni fornite sono state verificate e ritenute veritiere.
Non a caso, tra l’11 e il 12 gennaio i francesi iniziano la loro offensiva che si acutizza verso le 4,30 del mattino: l’artiglieria alleata, evidentemente grazie anche alle notizie fornite dai quattro giovani di Acquafondata, riesce finalmente a “centrare” le postazioni tedesche.
Romano, Agostino ed i due Domenico si rendono conto che qualcosa sta accadendo tant’è che al mattino seguente ne hanno la conferma imbattendosi in alcuni loro concittadini sfollati nella piana di Venafro che stanno già per riprendere la strada per Acquafondata, cioè la strada che, pensano, anche loro avrebbero ripreso quando vengono di nuovo invitati a salire su una jeep. Ma non è così. Anzi, la macchina si muove in direzione diametralmente opposta, conducendoli a Maddaloni, dove, presso un comando alleato, sono sottoposti ad ulteriori interrogatori. Dopo i quali, Agostino Papa e Domenico Neri si arruolano nel ricostituito esercito italiano mentre Romano Neri e Domenico Mancone vengono quasi abbandonati al loro destino muniti solo di un lasciapassare valido, però, solo sino a Venafro presso il cui ospedale avrebbero dovuto avere assistenza e protezione.
Ma Romano e Domenico prendono la strada di casa: stanno quasi per arrivare quando in località Vallecupa vengono sorpresi da una pattuglia francese che, ritenendoli delle spie, conduce i due al loro comando appena installato ad Acquafondata. A nulla valgono le spiegazioni che essi tentano di dare né‚ tanto meno, le accoglienze loro riservate da parenti ed amici una volta arrivati in paese. Sono, invece, tratti in salvo da un intervento di Roberto Rongione che, parlando il francese, riesce a chiarire come stanno le cose e soprattutto il ruolo avuto nella vincente avanzata alleata.
Il 12 gennaio è il giorno della liberazione di Viticuso; il giorno dopo di Acquafondata, il 14 di Vallerotonda ed il 15 di Sant’Elia Fiumerapido. Ma si passa, di fatto, dalla padella alla brace: infatti, se quest’ultima località, come le altre liberate dal Corpo di spedizione francese, continuerà a trovarsi in prima linea sino alla fine della guerra, le altre tre sperimenteranno amaramente sulla propria pelle una difficile convivenza dai risvolti drammatici con i loro “liberatori”. Ovvero, con i tristemente noti marocchini (22, continua).
© Costantino Jadecola, 1994.