17 / LA NOSTRA GUERRA / SI CONFIDA NEL CIELO. MA ARRIVANO SOLO BOMBE
A dicembre, mano a mano che il fronte si avvicina ai confini meridionali del Lazio, s’intensificano sempre di più i bombardamenti aerei alleati. Così, il giorno dell’Immacolata c’è il battesimo di fuoco per San Giorgio a Liri, che tornerà ad essere bombardata anche il 13, e per Sant’Elia Fiumerapido.
Per Frosinone, invece, questi bombardamenti non costituiscono una novità: saranno state le 15 circa del giorno dell’Immacolata quando le bombe incominciano a cadere, distruggendo quel poco che si è salvato dai precedenti bombardamenti. Riferisce padre Francesco Tatarelli, il quale segnala anche un altro bombardamento su Frosinone il giorno 16, grosso modo alla stessa ora, che «furono uccise otto persone, sorprese fra i ruderi a recuperare qualche cosa».
Dell’attacco su Sant’Elia, che avviene al mattino dell’8 dicembre, è testimone Sabatino Di Cicco: «il bersaglio doveva essere il deposito dei carburanti nello spazio antistante la cartiera Picano, invece, o per sbaglio o per mala informazione bombardarono la cartiera Boimond, molto più a Nord. Il panico assalì i Santeliani, i quali si affrettarono a lasciare il paese». Otto giorni dopo, a mezzogiorno in punto, si registra un altro bombardamento che semina non solo panico ma anche morte e dolore: fra le vittime, Giovanni Zoccola, Giovannie Teresa Rotondo, Filippo Bastianelli, Nicola Arpinoe Francesco Arciero.
Sora città “libera”
Sino a quel giorno dell’Immacolata del ’43, Sora non aveva vissuto particolari emozioni anche perché i tedeschi l’avevano destinata a loro centro ospedaliero: testimonia, infatti, Achille Lauriche «vi furono impiantati 7 ospedali militari (Seminario, Villa Angelina, Campo Sportivo, Istituto Tecnico, Scuola Elementare in Via Dante Alighieri, Palazzo della Pretura, ora del Tribunale, e Ospedale Civile)».
Don Ottavio Scacciaprecisa che «sul Convitto di Villa Angelina, sul Seminario e sull’Istituto Tecnico ‘Cesare Baronio’ furono dipinte enormi croci rosse» e poi aggiunge che tale stato di quiete fu interrotto solo ai «primi di novembre» allorché «i tedeschi operarono un massiccio rastrellamento di uomini per il Corso Volsci e li portarono a Mignano destinati a costruire le trincee. La maggior parte di essi rientrò in serata alle proprie case dopo essere saltati dai camion alla salita della Castellana. Gli uomini validi sparirono immediatamente da Sora, trovando rifugio tra amici e conoscenti nelle campagne e soprattutto nelle montagne di Sora e dei paesi vicini. Le case dei contadini e dei pastori furono aperte anche ai militari dispersi dopo l’8 settembre e ai prigionieri inglesi fuggiti dai campi di concentramento. Non ci fu assistenza organizzata né dai partiti né da altre associazioni, ci fu solo la spontanea comprensione degli abitanti delle zone di rifugio. Alcuni giovani di Sora aderirono alla Repubblica di Salò e andarono al Nord».
Ma come si viveva in quei giorni? Racconta don Ottavio: «Il passaggio quotidiano delle squadriglie di aerei da bombardamento e da ricognizione, la fuga degli uomini, la scarsezza dei viveri, le notizie di distruzioni operate dai bombardamenti alleati e dai saccheggi tedeschi, lo sfollamento dei comuni sul Volturno, i continui manifesti-ordinanze di Kesselring che promettevano fucilazioni per ogni sabotaggio o azione ritenuta criminosa, crearono uno stato di paura e di sfiducia nel futuro. In questo clima maturò la decisione del popolo sorano di compiere un gesto di penitenza affidandosi ai Santi Protettori. Il giorno 8 dicembre, nella Chiesa di Santa Restituta, gremita fino all’inverosimile, la città di Sora, rappresentata dal Podestà, Camillo Marsella, e dal Vescovo, S. E. Michele Fontevecchia, fece voto di un digiuno da praticarsi per dieci anni nel giorno anniversario della liberazione della città, se la popolazione fosse rimasta incolume».
Ma l’auspicata protezione dei santi protettori non favorisce l’effetto sperato se di lì a qualche giorno, e per di più in un paio di occasioni, Sora finisce nel mirino dei bombardieri alleati: la prima volta il 12, la seconda il 14. In particolare, dopo il primo bombardamento — quando una bomba caduta sul Santuario di Valleradice, ma rimasta inesplosa, colpì e distrusse l’affresco della Madonna — Sora, racconta sempre don Ottavio Scaccia, «diventò un deserto e in vita rimase solo la zona di Canceglie. L’ospedale civile fu trasferito al Convento dei Passionisti che divenne un piccolo centro di ritrovo e di incontri, specie la domenica per le varie messe sempre frequentate, e di assistenza, per la quale si prodigarono i Padri. Tutte le chiese di Sora continuarono a funzionare, anche se in modo ridottissimo, garantendo l’assistenza religiosa e un punto di riferimento (…). Il Vescovo e la Curia si trasferirono al Santuario della Figura».
Il 13 dicembre, stranamente ancora un lunedì, gli alleati fanno un altro tentativo — anche questo andato a vuoto — per distruggere il ponte sul Liri a Pontecorvo. Testimonia il sacerdote don Tommaso De Bernardis: «Le gigantesche formazioni di aerei si affacciano minacciose dai monti e dal mare; sorvolano a semicerchio il corso del Liri, sfidando la intensa contraerea nemica; dal Monte Cairo e dal Monte Oro convergono su Pontecorvo e sganciano le loro tonnellate di esplosivo.
«Così per molte e molte ore! Le ondate si susseguono ininterrottamente; i rombi dei motori gareggiano con i fragori paurosi delle bombe; la furia devastatrice degli attacchi è tambureggiante e sconvolge le immense fumanti macerie con violenza estrema; tutto l’arco del cielo, visibile dalle alture, è coperto dal fumo e dalla polvere. La pressione non accenna a diminuire: la vasta zona è un inferno».
Il 14 è la volta di Ceprano. Riferisce padre Angelico D’Arpinoche «nel pomeriggio un forte numero di Fortezze Volanti hanno bombardato l’abitato di Ceprano colpendo l’ospedale Ferrari, il Municipio e molte abitazioni di via Campidoglio. Tra i civili vi sono stati sei morti e molti feriti».
Anche nella valle di Comino non passa giorno senza che debba registrarsi qualche bombardamento: il 15 dicembre, riferisce don Dionigi Antonelli, viene preso ancora una volta di mira il ponte sul Melfa ad Atina ma «alcune bombe caddero anche su Settefrati danneggiando il locale Asilo». DonCrescenzo Marsella, che era il parroco di questo comune, scrive che restò «sepolta sotto le pietre gravemente ferita la fanciulla Gina Fabrizio» mentre un’altra bomba esplosa «in vicinanza della rotabile, tolse all’istante la vita alla giovane donna, pia e buona Emilia Coronae ferì mortalmente la di lei figlia Michelina di quattro anni che spirò poche ore dopo».
Il 27 dicembre, scrive Pietro Vassalli, «alle bombe degli aerei si aggiunse un nuovo, invisibile, insidioso, potente nemico. Per la prima volta la nostra zona era sotto il tiro del cannone; da ciò si desumeva la lenta avanzata degli Alleati che avevano postate le artiglierie verso il monte Cavallo. Per tre ore continue, dalle 9 alle 12, i cannoni batterono senza sosta su Villa Latina, su Atina, sul Ponte Nuovo. Molte cannonate erano dirette verso Riomolle: passavano sibilando sulla nostra casa e andavano a scoppiare alle nostre spalle, a meno di trecento metri di distanza, presso la batteria tedesca individuata a contrada Canale, sulla strada provinciale alla contrada Sode e vicino alle Mole degli Asini, apportando dovunque sterminio e morte».
Padre Igino Basilicisegnala nel suo diario bombardamenti aerei alleati alle stazioni di Anagni e di Sgurgola il 19, a quella di Morolo il 28, «due volte di mattina e due volte di sera» e il giorno dopo a quella di Anagni, «due volte di mattina ed una di pomeriggio».
Ancora il 19, un aereo inglese, testimonia don Alvaro Pietrantoni, lancia bombe tra il monte Siserno e contrada Volovona: «vennero uccisi due tedeschi ma l’aereo, colpito dalla contraerea tedesca, precipitò bruciando e lasciando sul terreno i resti di due aviatori inglesi».
Racconta Vincenzina Pinelliche «il 28 dicembre, sulla campagna fra Isola e Castelliri, si abbatte un bombardamento aereo che strappa dalla terra isolana un caro fiore di appena due anni e ridesta il panico nei cittadini ritornati in paese, mettendoli di nuovo in fuga».
Lo stesso giorno, ma nel pomeriggio, c’è un bombardamento su Ferentino, nel corso del quale viene colpita soprattutto la zona di porta Montana mentre alla stazione, dove c’è un treno carico di sfollati diretti al nord, si vivono momenti di grande terrore, ed un altro su Casalvieri che, scrive Serafino Gino Zincone, «fu il primo vero bombardamento del paese. In pochi minuti il centro, tra sibili e deflagrazioni, venne avvolto da una densissima nube nera. Questa si dissolse lentamente: immaginavamo che fosse restato un cumulo di macerie e invece riapparvero le nostre mura, la Chiesa, il campanile, le case, tutto intatto e più ‘possenti’ di prima. Il 28 è il giorno dedicato a S. Onorio; quindi si parlò apertamente di miracolo».
Va peggio, ancora per Ferentino, col bombardamento di due giorni dopo: viene colpita la zona nord-est, quella della ‘Piscina’, e le vittime sono almeno sei. Scrive Giuseppe Coppotelli: «fu un tragico sbaglio. Gli aerei avevano mancato il vero obiettivo, che era più sotto di qualche centinaio di metri di distanza in linea d’aria: la curva del Ferrocavallo sulla Casilina, in prossimità della quale era piazzata anche una batteria contraerea tedesca».
Gino Martini, invece, offre una testimonianza diretta di quell’evento: «…si videro sbucare dai monti di Fumone una dozzina di aerei. Era una cosa abituale e lì per lì non ci si fece caso. Ma all’improvviso si videro questi apparecchi scendere in picchiata su Ferentino. Fu un fuggi fuggi generale. Cercavamo tutti di nasconderci. Si sentiva il crepitio delle mitragliatrici degli aerei che sparavano su di noi. Riuscii a mettermi dentro una buca protetta in alto da una grossa roccia. Ci entravo appena solo. Ma dopo di me arrivò Leonello Musachiedendo un po’ di posto. Per la paura ci entrammo tutti e due».
Il 30 dicembre sono segnalate vittime anche in valle di Comino, come riferisce Italo Fortuna a proposito della vicenda di cui sono protagonisti Francesco De Angelis e il figlio Enrico: «Questi risiedevano a Sabino, ma ritenendo, giustamente, la località posta sulla strada per Isernia molto pericolosa, si erano rifugiati nella località Gargaro, sulla strada comunale che porta a Collecimento, appena oltre il Mollarino.
Nella loro casa di Sabino si era invece installato un Comando tedesco. Un giorno Enrico, che era barbiere, fu chiamato perché andasse a tagliare i capelli all’ufficiale che aveva preso dimora in casa sua. Il padre lo accompagnò. Si sedette davanti alla casa, in attesa che il figlio facesse il suo lavoro e a sua volta il figlio attendeva, a distanza di pochi metri, che l’ufficiale fosse disponibile per essere trattato. «In quel momento giunse una granata che esplose presso il povero Enrico, che fu orrendamente dilaniato. Dicono, addirittura, alcuni amici che ebbero modo di accorrere, che il povero corpo era ridotto a pezzetti. Il padre invece rimase intatto ed immobile sulla sedia: una scheggia lo aveva congelato sul posto». (17, continua)
© Costantino Jadecola, 1993.