10/ LA NOSTRA GUERRA / PONTECORVO E CECCANO SOTTO LE BOMBE
Il bombardamento di Pontecorvo.
Il primo novembre 1943 è un lunedì. È la festa di tutti i Santi ma a Pontecorvo è anche giorno di mercato. Un mercato che, pur nella precarietà di quei tempi che sanno di guerra, richiama ugualmente gente. È una giornata autunnale ma come raramente se ne vedono: il cielo è terso ed il sole, sebbene si sia fatto attendere, ha già quasi sciolto del tutto il gelo calato nella notte. Alle dieci, in cattedrale, ha inizio la messa solenne: officia don Valentino Turchetta, l’arciprete, coadiuvato da don Vincenzo De Bernardis, don Tommaso Sdoia, don Francesco Cerroe donTommaso Franco.Il tempio è pieno di fedeli.
Grosso modo alla stessa ora, verso Campo Vincenzo, una contrada di Pontecorvo non distante dal centro urbano, un giovane sacerdote, don Giuseppe Capogrossi — nipote di don Valentino Turchetta — sta godendosi, in aperta campagna, quel tiepido mattino d’autunno.
Saranno state le dieci e un quarto quando il suo sguardo viene attratto da una formazione di aerei (alleati) che sbuca da dietro Montecassino e, volando in parallelo a monte Cairo, segue press’a poco la direzione della Casilina in direzione di Arce. Don Giuseppe mi ha raccontato: «Gli aerei — non ricordo quanti fossero, comunque erano molti — erano giunti all’incirca sull’abitato di Arce ed io già stavo per girare lo sguardo altrove quando notai che stavano compiendo una conversione posizionandosi, quindi, in fila indiana. Tornavano indietro e, stavolta, non più seguendo il percorso della Casilina. Sorvolarono, credo, Isoletta e San Giovanni Incarico: dal mio posto di osservazione era difficile stabilirlo con esattezza. Comunque, in linea di massima, seguirono il corso del Liri e potevano essere giunti all’estrema periferia di Pontecorvo quando incominciarono a sganciare le bombe.»
Ciò che accade poco dopo in cattedrale lo si può leggere sul “Registro delle risoluzioni capitolari” annotatovi di proprio pugno da don Valentino Turchetta: «Si vedevano dai finestroni aperti della chiesa gli apparecchi gettare bombe e mitragliare. L’arciprete consuma le S. Specie e rivolto al pubblico ordina di sgomberare la chiesa e di rifugiarsi a gruppi nelle varie cappelle laterali. La chiesa quindi divenne deserta nelle tre navate. Cessata la prima ondata di bombardamento si ebbe modo di disporre in miglior maniera la popolazione tristemente impressionata ed allarmata. Ma a distanza di pochi minuti una seconda ondata di fortezze volanti mette lo sconforto nei fedeli. Una bomba di grosso calibro cade sulla cupola abbattendola e sprofondando nelle macerie l’altare maggiore. A questa sussegue un’altra al centro della chiesa e una terza ancora si abbatte sulla cantoria dell’organo in fondo alla chiesa stessa. Lo spostamento d’aria e la corrente d’aria cacciatasi nella porticina del campanile fece vittime tra quelli che erano ricoverati nella torre campanaria. Il canonico De Bernardis e il canonico Cerro che erano ivi riparati rimasero uccisi. Così il secondo sagrestano Malaggeseed altri cinque fedeli. Lo stesso arciprete che erasi posto tra la chiesa e la sagrestia vicino alla porta venne investito dalle macerie e sepolto da esse. Il primo sagrestanoRoefaroche si trovava poco distante aiutato da pie persone rimosse le macerie sopra l’arciprete e lo tirò fuori ferito alla testa ed in altre parti del corpo. La chiesa era divenuta tutta scoperta; con susseguenti bombardamenti e con la battaglia sul posto la chiesa cattedrale venne quasi rasa al suolo» .
Antonio Colicciscrive che «i luoghi più colpiti furono Piazza Porta Pia, Piazza 4 Novembre, Via la Sevice (quella strada che sale verso la Chiesa di San Nicola), la Cannataria, la Cattedrale, il Convento delle Suore del Sacro Cuore, che morirono tutte sepolte sotto le macerie assieme alle orfanelle.» Muoiono 17 suore su 18. In verità la scampa solo suor Chiara, la più anziana di tutte. Don Giuseppe Capogrossi che è rimasto incredulo a seguire l’inatteso spettacolo, appena questo finisce inforca la vecchia bicicletta e corre a Pontecorvo: «In Cattedrale cercai mio zio e lo trovai vicino l’Altar maggiore che era ferito gravemente. Aiutato, lo portai all’Ospedale.»
I danni provocati a Pontecorvo da questo bombardamento non sono stati mai valutati attentamente, soprattutto in termini di vite umane. Che, ad essere troncate, furono certamente moltissime. Se obiettivo dell’aviazione alleata era il ponte curvo sul Liri, occorre precisare che il ponte non venne nemmeno scalfito. Pontecorvo, invece, venne rasa quasi totalmente al suolo.
Ponti e scali ferroviari costituiscono per i bombardieri alleati due obiettivi ai quali non si può assolutamente rinunciare soprattutto se si trovano nello spazio di alcune centinaia di metri ed anche se, a dominarli entrambi, abbastanza da vicino, c’è un grosso centro urbano: quest’ultimo è, semmai, solo un dettaglio secondario che non vale nemmeno la pena di prendere in considerazione. Così, il 3 novembre, alle 10,40 del mattino, Ceccano viene dapprima bombardata e poi mitragliata. Dice padre Gioacchino, un Passionista: «La zona più colpita è quella di San Pietro che vede le sue case quasi completamente rase al suolo.»
Ricorda un’anonima testimone: «Mia sorella era appena uscita da casa con mia madre quando iniziò il bombardamento di Ceccano. Il rumore assordante degli scoppi gettò tutti letteralmente nel panico più profondo. C’era chi, terrorizzato, si nascondeva, chi si rintanava tremante e inebetito negli angoli più nascosti e chi, come la mia povera sorella, prese a correre verso casa. Fu così che andò incontro ad una morte atroce e crudele. (…) Una pallottola colpì al ventre mia sorella che stramazzò al suolo proprio in mezzo a piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza XXV Luglio. Mia madre era lì vicino; accorse subito in suo aiuto tentando di tamponare il sangue che copioso usciva dalla ferita. Così le trovarono i primi soccorritori. Una avvinghiata all’altra in un ultimo infelice abbraccio. Una che si lamenta fra le braccia dell’altra che era irrefrenabilmente in preda ad una crisi isterica. Nel frattempo io dal mio luogo di lavoro ero giunta in vicinanza della mia abitazione. La scena che mi si presentò era da incubo. Macerie invadevano la strada, corpi umani privi di vita giacevano abbandonati sul selciato. Urla, pianti e lamenti erano i soli suoni che si avvertivano.
«Mi avvisarono che i miei familiari erano andati all’ospedale e fu verso quel luogo che mi diressi come in preda ad un brutto sogno. Nemmeno il tempo di varcare la soglia che subito mi resi conto che l’irreparabile era accaduto. Gli abiti intrisi di sangue di mia sorella erano innanzi all’uscio del nosocomio. Una suora mi venne incontro confermandomi quanto temevo. M’incoraggiò e m’invitò ad essere forte ed a sostenere con il mio esempio gli altri miei fratelli così duramente provati dalla sorte. Mi consigliò inoltre di tornare a casa per prendere qualche abito da far indossare a mia sorella ormai morta. «Mi avviai e riuscii a racimolare tra le nostre povere cose un vestito. Quando ritornai mi accorsi che il nostro tormento non era ancora finito. Occorreva reperire immediatamente una cassa altrimenti si sarebbe provveduto alla sepoltura senza di essa.»
Altre testimonianze su quel tragico 3 novembre le ha raccolte Angelino Loffredi: «Grida di dolore e panico si mescolano alle invocazioni dei feriti ai quali solo pochi volontari cercano di prestare le prime cure. A poco serve il coraggioso conforto portato da due sacerdoti: don Alvaroe don Getulioprontamente usciti dalla chiesa di S. Giovanni. Presso borgo Pisciarello, un vecchio nucleo abitato, costruito a pochi passi dalla cintura urbana, su un lembo di terra di pochi metri quadrati vengono distrutte le famiglie Maura e Cristofanilli. In questa direzione si muovono due giovani generosi per portare soccorso: Ermete Riccie Amedeo De Sanctis. Aiutano il povero Alessandro Cristofanillia tirar fuori dalle macerie i resti della figlia Rosa e di due nipoti, tutti ormai deceduti. «Suo figlio Mario ha preso, nel frattempo, fra le braccia l’altro nipote Luigi Mauradi sette anni, gravemente ustionato. Il dolore per la perdita della sorella e dei nipoti (Giovanni e Giacinto Maura), la vista dell’altro nipote Luigi vivo ma quasi irriconoscibile per le ferite, lo prostrano profondamente. Egli comunque cerca disperatamente con il bimbo in braccio di dirigersi verso l’ospedale.» Il percorso lungo via Pisciarello è tutto su una salita ripida e difficoltosa. Va avanti per duecento metri circa, fino a quando arriva Dario Santodonatoa sollevarlo da questa grave fatica. Santodonato a passi velocissimi supera la piazza e, attraverso via Villanza, arriva in ospedale. Ma in ospedale sia per Luigi che per gli altri feriti che stanno arrivando, le cure saranno scarse perché gran parte del personale alla vista delle bombe si è allontanato. Il piccolo Luigi morirà dopo tre giorni di atroci sofferenze.»
I morti di quel giorno, a Ceccano, sono 18. Questi i nomi: Giovanni Malizia(68 anni) e Anna Guerrucci(33) in via Pisciarello; Luigi Lorenzo Gazzaneo(73) in via Salita al Castello; Antonio Carnevali(22) in via Cappella; Anna(27), Carlo(1), Carmine(8), Giuseppe(58), Maria(4) e Maria Rosa(54) Cristofanilli;Giacinto(3), Giovanna (1) e Luigi(7) Maurae Anna Pacchiarelli(26) a borgo Pisciarello; Angelo Strangolagalli(70) a borgo Berardi; Geltrude Carlini(18), Antonio Masi(21) e Luigi Rizzo(14) muoiono, invece, all’ospedale dove sono stati ‘ricoverati’ per le gravi ferite riportate.
Ma la drammaticità dell’accaduto emerge ancor più il giorno successivo. Scrive ancora Angelino Loffredi: «parecchi cadaveri sono raccolti presso la chiesetta della Madonna del Loco e non sono nemmeno chiusi nelle bare; sono posti nella nuda terra quasi a mostrare le mutilazioni, i vestiti intrisi di sangue e le membra martoriate. Forse perché‚ la popolazione è rimasta terrorizzata ed esterrefatta da una crudeltà tanto inaspettata, poche sono le persone presenti al rito funebre officiato da don Vincenzo Misserville.
«Al termine dello stesso, Checco Carlinie Filippo Misserville, preceduti dal sacerdote con il crocifisso ben proteso in alto, portano al cimitero su di una barella i resti delle vittime. Una scena che si ripeterà più volte in quanto i due, rimasti soli, avranno l’ingrato compito di raccogliere, a mani nude, i corpi mutilati per compiere questo triste servizio, mossi da umana pietà».
(10,continua)
© Costantino Jadecola, 1993.