8 / LA NOSTRA GUERRA / MONTECASSINO: TESORI IN SALVO
Montecassino, ottobre 1943. Si preparano le casse per trasportare il “tesoro”.
Montecassino, ottobre 1943. In quei giorni, scrive don Bonifacio Borghini, «il monastero rigurgitava di sfollati, specialmente di Cassino. Dopo il primo bombardamento del 10 settembre tutti erano saliti alla badia che riprendeva il suo compito millenario di acropoli nei casi di emergenza» con la convinzione che nessuno avrebbe osato recar violenza alla casa di San Benedetto.
Ma non tutti la pensano allo stesso modo. Il 14 ottobre, un giovedì, l’abate di Montecassino riceve separatamente due ospiti che, uno all’insaputa dell’altro, intendono entrambi proporgli l’evacuazione dei “tesori” dell’abbazia per custodirli in luoghi più sicuri e, comunque, meno esposti di quanto, invece, potrebbe esserlo il Monastero a breve o medio tempo. Sono, i due ufficiali, il tenente colonnello Julius Schlegeled il capitano medico Massimiliano Becker: il primo cattolico, il secondo protestante, sono tutti e due austriaci ed entrambi fanno parte della divisione Hermann Göring.
Racconta Schlegel: «Entrai. Il Vescovo e Arciabate di Montecassino, D. Gregorio Diamare, un venerando vegliardo ottuagenario, mi aspettava nel suo salone di ricevimento. Superbamente modesto, umilmente dignitoso, conscio della sua alta carica di successore di S. Benedetto, mi venne incontro con alcuni passi. Niente di pietistico vi era in lui, niente di burbanzoso, soltanto una infinita bontà traspariva dalla sua figura. Era questa la prima impressione che se ne riceveva, era essa che caratterizzava tutta la sua personalità, che lo circondava come un leggiero, ampio mantello.» Dopo brevi convenevoli ed una «piccola pausa imbarazzante» inizia il colloquio tra i due cui presenzia don Emanuele Munding, un benedettino tedesco che accompagna l’abate.
- «Cassino è stata già abbastanza distrutta e anche la strada che porta all’abbazia è stata colpita in parecchi punti», dice Schlegel.
- «Gli alleati non distruggerebbero mai Montecassino», ribatte, sicuro, l’abate.
- «Ma una bomba casuale potrebbe annientare molti oggetti preziosi», obietta l’ufficiale.
- «Non vi sono tanti oggetti preziosi, qui, a quanto credo», replica don Gregorio come se diffidasse del suo interlocutore.
È quindi la volta del capitano Massimiliano Becker. Ricorda: «Mentre entravo, l’Abate fece alcuni passi verso di me e mi porse la mano per salutarmi. La sua immagine è ancor oggi viva e presente nella mia memoria. Amichevolmente mi accennò di prendere posto ad un grande tavolo rotondo, al quale anch’egli sedette rivolto verso di me. I tratti del suo viso esprimevano gravità e preoccupazione.»
Al colloquio partecipano anche due frati francescani del convento di Teano, Giovanni Giuseppe Carcaterrae Baldassarre Califano, che hanno accompagnato Becker, e, con l’abate, il priore dell’abbazia, don Gaetano Fornari, il bibliotecario, don Mauro Inguaneze don Emanuele Munding. Il capitano tedesco precisa che quella iniziativa è solo sua, molto «preoccupato della sorte del prezioso Archivio del Monastero.»
- «Ma a quale scopo un trasferimento che non è necessario?» replica prontamente Diamare.
Becker si rende conto che l’abate è fortemente convinto che Montecassino non può essere distrutto:
- «Né americani né inglesi bombarderebbero deliberatamente e volontariamente il Monastero. Ma non si deve dimenticare il fatto che, recentemente, famose chiese di Roma e di Napoli sono state colpite da bombe e distrutte.»
Il pomeriggio di quello stesso giorno don Gregorio Diamare riunisce tutta la comunità monastica per decidere cosa fare. È una «riunione agitatissima»: nessuno vuol convincersi della gravità della situazione. Ma, soprattutto, si diffida dei tedeschi. Alla fine prevale la tesi dell’evacuazione dei “tesori” e quella stessa sera, anzi, ad evitare che possano essere notati dai tedeschi nel corso di una eventuale perquisizione, vengono trasferiti nei sotterranei quelli di proprietà dei musei di Napoli e di Siracusa, di San Gennaro e del principe di Piemonte.
- «Come Santa Chiara di Napoli, come San Lorenzo a Roma, così sarà ridotto il vostro Monastero. Mais c’est la guerre! La consegna è di non lasciarli passare. Rome, ils ne l’auront jamais!»: il capitano Becker è estremamente convinto di ciò che dice ma donTommaso Leccisotti, monaco di Montecassino, non ha difficoltà ad ammettere di essere rimasto «sgomento da tali parole».
E’ sabato 16 ottobre e Becker e Schlegel sono saliti insieme all’abbazia per conoscere il parere del comunità monastica sulla loro proposta di una paio di giorni prima circa l’evacuazione dell’ingente patrimonio culturale conservato nel monastero.
I monaci sono tutti d’accordo. O, meglio, quasi tutti. Don Mauro Inguanez, l’archivista, non lo è per niente per cui lascia Montecassino e si rifugia a Terelle. «Afferma di non poter assistere a tale avvenimento». Qualche altro si rifiuta di collaborare alle operazioni di imballaggio e dice senza mezzi termini: «io non voglio aiutare a depredare il Monastero».
Comunque sia, l’operazione ha inizio. Racconta Schlegel: «Ciò di cui avevo bisogno erano braccia, materiale e arnesi da lavoro. La ‘mano d’opera’ la trovai nella mia truppa e nei rifugiati (nel Monastero). Il materiale lo trovai in una vicina fabbrica di bibite ove c’era un certo numero di casse e legname in abbondanza tagliato apposta per ciò. Feci mettere tutto sui camion e portare a Montecassino, e procurai anche i chiodi per fare le casse. Ora mi scelsi tra i lavoratori volontari gente adatta, ottenni loro dal Monastero il vitto, diedi loro, prendendole dal nostro effettivo militare, 20 sigarette al giorno; i miei soldati, tutti falegnami e carpentieri, senza eccezione, organizzarono, sorvegliarono e aumentarono la produzione e in pochi giorni allestirono, lavorando senza interruzione, parecchie centinaia di casse oltre a scompartimenti per quadri e bauli per gli oggetti preziosi.»
Don Eusebio Grossettie don Martino Matronolaannotano che «furono giorni e notti d’intensa attività. Nell’archivio non si sapeva dove mettere mano perché l’unico che ne conosceva qualche cosa, oltre l’archivista, era d. Tommaso Leccisotti il quale però dovette partire primo fra tutti per annunziare e preparare la venuta dei monaci e delle cose a Roma.»
Infatti, il 17 ottobre partono i primi tre autocarri che trasportano parte dell’archivio appartenente allo stato italiano; due giorni dopo inizia il trasporto delle cose private del monastero. Con uno dei due camion, il 19 parte anche don Tommaso Leccisotti: «La partenza avviene fra grande strazio, mentre tutta la scena viene ripresa cinematograficamente. Esco dal monastero verso le 11,30; ma a S. Agata si sosta a lungo, fino cioè all’1,30, in attesa del secondo camion. Il viaggio, iniziato fra incertezze, timori, anche er la nostra sorte, va bene. Solo a Frosinone, che non attraversiamo, una piccola sosta, che erroneamente crediamo un allarme per incursioni, sì da scendere dal camion con d. Vincenzo(Mori) che mi si aggrappa addosso. Si giunge a Roma e, dopo un lungo giro per la periferia non conoscendo bene le strade, a S. Anselmo verso le 5,30 del pomeriggio.»
Entro i primi giorni di novembre, quasi tutto il “tesoro” viene trasferito a Roma, anche quella parte di esso in un primo momento portata a Spoleto. È ovvio che questa storia del salvataggio non passa inosservata. Ovvero, fa notizia. Nel senso che viene sfruttata dalla propaganda avversaria per rilanciarla come un clamoroso furto operato dai tedeschi a danno del patrimonio culturale italiano. Una suora americana che in quel tempo si trova a Roma e che poi avrebbe pubblicato un diario con lo pseudonimo Jane Scrivener, in data 10 dicembre annota: «Strano, ma i tedeschi hanno mantenuto la loro vantata promessa di salvare i tesori dell’abbazia di Montecassino. Difficile capire perché l’hanno fatto, dopo la vandalica distruzione della grande biblioteca di Napoli. Comunque i tesori sono qui… archivi, manoscritti, libri, quadri, incisioni e messali miniati… circa 100.000 volumi in tutto, senza contare i manoscritti. Era uno spettacolo commovente e pittoresco, la lunga fila degli autocarri carichi che percorrevano la riva del Tevere e passavano sotto le mura fortificate di Castel Sant’Angelo, attraverso la grande porta nel cortile dell’antica fortezza. I funzionari tedeschi fecero un paio di discorsi, qualcuno rispose a nome del Ministero dell’educazione, e il trasferimento era compiuto.»
La sera del 18 ottobre, il giorno successivo la partenza dei primi camion per Roma, a Montecassino l’abate Diamare raduna di nuovo tutta la comunità monastica. La riunione di quattro giorni prima, quella, cioè, in cui si doveva decidere sull’evacuazione o meno del patrimonio artistico e culturale conservato nell’abbazia sembra tanto lontana.
Intanto, prima che gli ultimi camion partano per Roma, «dietro desiderio ripetutamente espresso dal colonnello Schlegel, il P. Abate celebra la S. Messa all’Altare Maggiore, con ripresa cinematografica, assistito dai monaci ancora rimasti, e presenti molti ufficiali e militari tedeschi. Dopo la funzione il P. Abate consegna al Colonnello una pergamena in latino per il Gen. Conraddella Göring, un’altra per lo stesso Schlegel, ed una terza per il Capitano Medico Becker: vi sono scritte semplici espressioni diringraziamento per l’opera prestata nello sgombero.» I due ufficiali sono molto contenti nel ricevere gli attestati: è fuor di dubbio che essi abbiano agito di propria iniziativa, almeno nella fase iniziale dell’operazione.
(8, continua)
© Costantino Jadecola, 1993.