7/ LA NOSTRA GUERRA / ISTITUZIONI ALLO SBANDO E TEDESCHI FURIOSI
Vittorio Miele (1926–1999). Parlami (Dalla serie “Testimonianze”)
Dopo l’armistizio dell’8 settembre e tutto ciò che ne consegue, ovvero dall’occupazione tedesca ai bombardamenti alleati, qual è la reazione della provincia a livello di istituzioni?
Viene in soccorso, per delineare un quadro del genere, una dettagliata relazione di Arturo Rocchi- che per sei mesi, dal 25 ottobre del 1943 all’8 maggio 1944, riveste l’incarico di “capo della provincia” — da cui emerge una situazione per nulla edificante pur in considerazione del fatto che la guerra comunque incombe e che il caos ne è la naturale ed ovvia conseguenza. Se per la gente comune, insomma, c’è la giustificazione di essere, appunto, gente comune, nessuna può, al pari, invocarsi per chi ricopre incarichi di responsabilità e che, peraltro, pare sia stato anche favorito dall’aver potuto percepire anticipatamente gli assegni di ottobre e di novembre.
C’è, insomma, una generalizzata e profonda anarchia che Rocchi imputa, soprattutto, «all’impotenza del Governo traditore (Prefetto Gulotta), che non aveva tutelato il prestigio dell’autorità e la forza morale della Legge.» Comunque sia, uno dei primi problemi che Rocchi dice di aver dovuto affrontare, e risolvere, è quello della ristrutturazione degli uffici provinciali, dalla prefettura a tutti gli altri, innanzi tutto con il loro trasferimento da Frosinone, ormai ripetutamente bersaglio dei bombardamenti alleati, a Fiuggi, località anche se decentrata ma tuttavia collegata a Roma con le “ferrovie vicinali”. Scrive Rocchi: «Il trasferimento si mostrò opportuno e la riorganizzazione di tutti gli uffici civili fu potuta realizzare in breve tempo anche se limitate possibilità ricettizie gli alberghi di Fiuggi — dichiarata zona ospedaliera dal Comando Germanico — poterono offrire per l’adattamento degli uffici, per gli alloggi degli impiegati e delle loro famiglie.» Si riesce a creare, comunque, una buona «intelaiatura funzionale»; e chi non si presenta al lavoro o viene licenziato o si vede sospeso lo stipendio. Arturo Rocchi, insomma, si ritiene soddisfatto della sua azione amministrativa cui affianca anche una incisiva azione politica: «Riaperta la Casa Littoria, dopo l’infausto periodo badogliano, una sparuta pattuglia di uomini di provata fede si raccolse attorno al Commissario Federale: quasi completamente assenti gli ex-gerarchi e gli squadristi della Provincia, mentre i giovani, preoccupati della loro situazione militare e di eventuali rastrellamenti da parte delle truppe germaniche, si diedero completamente alla macchia.»
Ma ci sono due aspetti fondamentali che il capo della provincia pone in evidenza: l’attendismo di chi in passato ha ricoperto incarichi importanti e l’indifferenza della stragrande maggioranza della popolazione a qualsivoglia forma di organizzazione politica essendo soprattutto preoccupata di salvare se stessa ed i propri beni dalla tragedia bellica. In un tale contesto politico e amministrativo, l’occupazione dei vari comuni della provincia da parte dei tedeschi non ha tregua. Anzi, può dirsi che più passa il tempo e più essa s’intensifica.
A Picinisco i tedeschi arrivano verso la fine di settembre ma è qualche giorno dopo, l’8 ottobre, per l’esattezza, che si installa in paese un vero e proprio distaccamento al comando del maggiore Henghellardil quale, senza perdere tempo, nel pomeriggio dello stesso giorno, ordina al podestà di consegnargli, entro ventiquattro ore, alcuni cittadini ebrei rifugiati in paese dall’inizio della guerra. I quali, messi a conoscenza delle intenzioni dei tedeschi, ovviamente si danno alla macchia, facendo perdere ogni traccia.
Il 5 ottobre viene occupata Pico. Racconta don Antonio Grossiche «nel settembre l’occupazione germanica crebbe di giorno in giorno ed in ottobre diventò completa invasione. Furono requisite tutte le nostre case di campagna, specie quelle presso la rotabile: soldati e cavalli, cucine e posti di soccorso si estesero su tutto il nostro territorio da Monte Leuci a Pota, da Pastena a San Giovanni Incarico. In ottobre (…) il comando di divisione si accampò a Pico con tutti i suoi uffici (…). Il generale in capo, alto due metri, si piazzò al Casino Carnevale, alla Starzapiana, che fece arredare con eleganza e circondare di fiori, e così pure furono requisite tutte le più belle case del paese, arredate anche con mobilia portata da Gaeta e da altre città vicine, con cucine e stufe alimentate tutte dalla mobilia nostra, dalle botti alle sedie, dalle porte alle soffitte, senza dolore e senza pietà.» Il giorno stesso dell’occupazione di Pico, i tedeschi pretendono che il podestà, cav. Nicola Landolfi, procuri loro qualche centinaia di operai da adibire a vari servizi. Ma, non potendo il podestà soddisfare tale richiesta, don Antonio Grossi riferisce che i tedeschi «presero il povero uomo e lo legarono in piazzaAdalgiso Ferrucci, e lì calci e pugni e minacce di morte se non prometteva gli operai al servizio dell’esercito (…). Dopo oltre cinque ore di martirio» e solo dopo aver dato assicurazione di procurare la manodopera richiesta, il cav. Landolfi viene liberato. Ma prende la via dei monti, verso la Capriola. La richiesta dei tedeschi, comunque, non resta inevasa: spinti più dalla fame che dal terrore, di persone disponibili se ne offrono spontaneamente a decine.
Sull’occupazione di Settefrati ma anche su altre vicende di guerra, il parroco don Crescenzo Marsellaannota le sue considerazioni nel “Libro dei battezzati” di quel comune: «I tedeschi fecero la loro comparsa ai primi giorni di ottobre. Erano soldati e ufficiali di bell’aspetto, alti e robusti, adusati alle fatiche, resistenti. Si lavavano seminudi alle gelide acque della nostra fontana anche nelle più rigide giornate di dicembre. Tranne pochi individui che si son dati a conoscere per gente umana, nella maggioranza si son rivelati ladri, crudeli e prepotenti, incuranti della religione e truci. «Non mancava giorno che non venissero sui loro autoveicoli per depredare e deportare. Il nostro popolo appena sentiva il rumore d’una macchina si metteva in allarme e fuggiva spaventato. Il messo comunale Vincenzo Zezimaad ogni loro venuta doveva percorrere le vie del paese suonando la tromba e intimando il bando di sempre nuove richieste. Olio, vino, vacche, pecore, galline, apparecchi radio occorrevano ai nuovi padroni ed essi si impossessavano con le pistole alla mano.»
A Gallinaro, scrive Domenico Celestino, i tedeschi «giunsero una domenica di ottobre e quel giorno, tornando dalla messa con i miei genitori, trovammo la casa occupata da un capitano e da sei soldati i quali, bontà loro, ci concessero di restringerci in una stanza e di continuare ad usare la cucina.»
Patrica viene occupata il 7 ottobre ma è già da diversi giorni che i tedeschi sono presenti nelle zone di campagna. Lo stesso giorno, scrive mons. Umberto Florenzani, «una compagnia di soldati germanici bene armati salì da Ceccano verso Pofi. Entrando nell’abitato questi intonarono i loro compassati canti di guerra. Fu un affacciarsi curioso alle finestre, un accorrere frettoloso di ragazzi e di adulti. Mentre i camerati percorrevano a passi cadenzati la circonferenza del paese, si pensava che tutto dovesse esaurirsi in una manifestazione di semplice coreografia. Fu una illusione. Improvvisamente dalle labbra dei sottufficiali scoccarono ordini secchi e vibrati. Scioltisi dalla fila e dispostisi uno accanto all’altro a distanza regolare, i Tedeschi formarono un anello compatto, mentre altri si slanciavano sugli uomini presenti, li afferravano e li spingevano brutalmente su alcuni automezzi. Alla rivelazione improvvisa seguì un fuggi fuggi generale nell’istinto convulso di salvarsi ad ogni costo tra i singhiozzi a stento repressi delle spose e delle mamme (…). Quel giorno avvennero episodi di solidarietà e di dedizione. L’eroe della giornata fu unanimemente riconosciuto il Sacerdote donSilvio Bergonzi, il quale, nel momento dell’ingresso della truppa, si trovava in Sagrestia intento al ringraziamento della santa Messa. Accortosi delle reali intenzioni dei Tedeschi, si preoccupò di dare l’allarme. Si precipitò al campanile, afferrò febbrilmente le corde delle campane e giù da bravo rintocchi su rintocchi. Al suono inaspettato si presentò nella cella campanaria un ufficiale gridando e minacciando con voce stridula.»
A Pescosolido, annota don Ferdinando Ciccolininel “Cronicon” dell’archivio parrocchiale, il 9 ottobre «giungono improvvisamente 250 Tedeschi. Grande panico nella popolazione che si riversa anche nelle montagne. Le case sono requisite per l’abitazione dei militari. Il Villino dei Mariani è posto di comando.»
Anche Amaseno, scrive Luigi Zaccheo, «fu occupata stabilmente dalle truppe tedesche, anzi, per la sua favorevole e tranquilla posizione topografica, esse vi installarono proprio nell’edificio scolastico un ospedale per curare i feriti provenienti dal fronte di Cassino. Inoltre trasformarono la masseria di Lauretti Antonio, in delle località Farneti, in una enorme macelleria dove venivano abbattute le bestie rastrellate in tutta la zona con la forza armi alla povera popolazione già in una difficile situazione alimentare, per inviare la carne alle truppe che combattevano a Cassino.
Ancora in quel mese di ottobre, ad Arpino i tedeschi occupano i locali sia del liceo-ginnasio che del convitto “Tulliano”: il preside Tommaso Conte, con la collaborazione del suo vice Oronzio De Bellise dell’assistente tecnico Gino Bianchi, riesce fortunosamente a trasferire e conservare il materiale scientifico e didattico presso la scuola tecnica industriale, grazie alla sensibilità del direttore Ercole Cerasoli.
(7, continua)
© Costantino Jadecola, 1993.