5 / LA NOSTRA GUERRA / I TEDESCHI A MACCHIA D’OLIO
La reazione tedesca all’annuncio dell’armistizio tra italiani ed alleati, se non viene attuata lo stesso 8 settembre, trova preciso e puntuale riscontro nei giorni immediatamente successivi ed interessa altri comuni ancora della provincia: ad Alvito, i tedeschi prendono possesso di palazzo Sipari e sistemano il loro comando poco più avanti, a metà di corso Gallio; ad Atina requisiscono il “Circolo dell’Unione”, che trasformano in mensa e ritrovo, ed occupano l’ospedale, la caserma dei carabinieri, l’edificio scolastico, il municipio ed altri locali; un presidio tedesco s’insedia a Guarcino soprattutto per poter controllare il traffico sulla Sublacense, una strada molto utile per i movimenti di truppe o per i rifornimenti essendo essa più appartata sia della Casilina che dell’Appia.
Se a Veroli, quel 9 settembre, scrive Mario Brocchi, «alcuni soldati tedeschi, su di una macchina, scorrazzavano baldanzosamente per la città e, in odio a Casa Sabaudia, abbatterono la targa di ‘Via Vittorio Emanuele’». ad Alatri, annota Angelo Sacchetti Sassetti, essi «appaiono tristi e nervosi. Vanno e vengono in automobile, armati di moschetti a mitragliatrice». Riferisce Raffaele Nardoianniche «il giorno seguente all’armistizio, il nostro cuore si era aperto alla speranza, perché Piedimonte in tutta fretta venne completamente sgombrata. I tedeschi avevano caricato gli automezzi, tolto i fili telefonici che a grossi fasci erano piazzati lungo le strade, e, con generale sollievo, se ne erano partiti. Sulla strada Casilina si notavano, allora, interminabili file di autocarri che si dirigevano verso Roma. Ciò costituiva la liberazione da quella indicibile oppressione che ci teneva tutti pensosi. Ma poi, la visione di altrettanti automezzi che filavano verso Napoli, offuscava gli animi distruggendo ogni speranza.
«Si contavano, tanto per trovare qualche motivo di sollievo, le macchine che marciavano verso l’una e l’altra direzione, ma, purtroppo, quelle dirette verso Napoli erano in numero superiore».
Ad Esperia, testimonia Bruno D’Epiro, «la caserma dei Carabinieri fu abbandonata e il Maresciallo Giovanni Saviano, comandante della Stazione, preferì allontanarsi e rifugiarsi nella contrada Bisciandrone in attesa degli eventi».
A Castellaccio, presso Anagni, verso sera ci sono spari ed incidenti. Padre Igino Basilicichiarisce che «si tratta di reparti tedeschi che tentano di disarmare reparti italiani».
Quello stesso 9 settembre inizia l’esodo da Frosinone. Si temono anche rappresaglie da parte dei tedeschi ovvero scontri fra questi e le truppe italiane di stanza al distretto militare e quelle dell’81.mo alloggiate nell’edificio poi destinato a carcere giudiziario. Ma non accade niente del genere. La giornata, peraltro, stava chiudendosi senza particolari emozioni quando, intorno alle 23, riferisce padre Francesco Tatarelli, «gruppi di tedeschi armati fino ai denti puntarono alcuni cannoni contro il distretto e la caserma dell’81.mo fanteria; intimarono la resa a discrezione minacciando, in caso di rifiuto, di spianare al suolo la caserma e la Prefettura. Senza la minima resistenza furono cedute tutte le armi. Vennero anche requisite tutte le auto pubbliche e priva tanto che il Vescovo di Veroli, mons. Emilio Baroncelli, venuto a Frosinone per presiedere un convegno di Sacerdoti, non poté tornare in sede e fu costretto a restare con noi.
«Alla sera l’urlo delle sirene e la violenta reazione della contraerea tedesca ci avvertirono che aeroplani alleati sorvolavano la città. Non sapevamo dove rifugiarci; e fuggimmo spaventati al largo in fondo al giardino del Convento insieme a Sua Eccellenza. Per quella sera la città fu risparmiata».
RiferisceGioacchino Giammariache «il forte reparto dell’esercito italiano accampato alla Tomacella si sbanda del tutto, abbandonando armi e munizioni che vengono gettate nel fiume. Alcuni supinesi, allora, si preoccupano di andarle a ripescare (si tratta di moschetti, cartucce ed anche di una mitragliatrice) e di nasconderle nelle proprie case» mentre a Ceccano, scrive Angelino Loffredi, «quando il sole è prossimo al tramonto, quasi a confermare le scettiche voci riguardanti la pace, un carro armato avanza lungo la strada che risale verso la parte alta di Ceccano. È colore sabbia e appartiene all’Africa Corps tedesco; arriva in Piazza Madonna della Pace ove con un’inversione a ‘U’ schiaccia uno spigolo di marciapiede: i segni sono ancora evidenti, là dove oggi c’è una Torrefazione. Il carro si piazza in modo tale da avere alle spalle la chiesa, su un crocevia di importanza strategica, onde scrutare i movimenti che si ritengono sospetti».
Sempre quel 9 settembre, a Vallecorsa vedono per la prima volta soldati tedeschi. Annota don Alfredo Saluliniche essi «percorrevano la strada provinciale su camions mimetizzati, provenienti dalla parte di Fondi. Non si fermarono; dovevano avere molta fretta se uno degli automezzi uscì fuor di strada e si rovesciò per una scarpata nei pressi di Vallevona. Lo lasciarono lì».
Occorre poco tempo ai soldati tedeschi che stanno a Morolo superare l’iniziale smarrimento. Infatti, Franco Caporossiriferisce che «salgono in paese e cominciano a dare ordini precisi. Come primo provvedimento requisiscono l’autobus postale e tutte le automobili esistenti; poi stabiliscono dei presidi, sequestrano materiale ed armi e vigilano sulle strade».
Arriviamo al 10 settembre. Ci si rende ormai perfettamente conto che l’armistizio è stato, tutto sommato, un “bluff” sulla cui scia si consuma la tragedia di un popolo il cui unico fine non è certo quello di vendere cara la pelle ma, più semplicemente, di cercare di sopravvivere. Cosicché, per riferire ciò che Angelo Sacchetti Sassetti annota a proposito di Alatri, se i tedeschi «appaiono meno tristi» i «R.R.C.C., compreso il sottotenente, vanno vestiti in borghese» mentre «i soldati italiani, incolonnati, vanno a depositare le armi nelle caserme dei Tedeschi». Tuttavia, «qualche piccolo gruppo di fascisti nel pomeriggio appare lieto. La notte precedente, in un noto locale, essi hanno consumato una damigiana di vino». Ma accade anche che «alcuni contadini, per vendicarsi della forzata consegna di un porco ai Tedeschi, hanno tagliato un cavo telefonico».
Sull’occupazione di Anagni padre Igino Basilici testimonia che l’11 settembre, «nel pomeriggio arrivano i tedeschi, che i chierici incontrano alla Croce; si sono impadroniti del cannone italiano ed hanno una mitragliatrice piazzata a terra; tre soldati sbandati, intanto, fuggono per le campagne. Un rombo continuato verso Frosinone fa capire che la città sta subendo un bombardamento molto duro (è notte)». Il giorno dopo, vanno alla ricerca di cibo, requisiscono tutte le auto e disarmano i soldati italiani. Dal canto loro, questi «vendono tutto, cercano abiti civili e se la squagliano. La gente corre a impadronirsi di tutto ciò che i soldati in fuga hanno lasciato al Seminario, al Fascio, al Convitto Principe di Piemonte».
Sui monti di Viticuso e di Acquafondata i tedeschi si fanno vedere verso la metà di settembre: tra le Mainarde e la Forcella di Cervaro, il Cimerone e la Valleviata incominciano evidentemente a studiare soluzioni strategiche per contrastare, da quei contrafforti naturali, l’avanzata alleata. Nella stessa epoca arrivano anche a Casalvieri dove, riferisce Serafino Gino Zincone, «furono installate cucine e magazzini viveri e vestiario in via dei Ferrari e Calcatina» mentre «alpini austriaci occuparono il ‘Casino Zincone’».
Per un taglio ai cavi del telefono, posti appena dopo l’armistizio tra Ausonia e Castelforte, se la vedono brutta a Coreno Ausonio, nel cui territorio è avvenuto il sabotaggio. Poiché i tedeschi avvertono che se una cosa del genere si fosse verificata di nuovo, dieci corenesi, scelti a caso, sarebbero stati fucilati, il commissario prefettizio Raffaele Lavallestabilisce, scrive Basilio Pierini, «un turno di guardia diurno e notturno da parte di tutti i cittadini dai 18 ai 65 anni».
Tra l’incredulità dei suoi abitanti, i tedeschi arrivano a Campoli Appennino il 20 settembre: «La secolare pace del paesello, posto al di fuori delle grandi vie di comunicazione, è finita!», annota, amaramente, Pasquale Mastroianni. Lo stesso giorno, a Villa Latina, scrive Giorgio Gargaro, «nella casa grande della signora Pacitti Filomena, nell’interno del paese, quindi lontano dalla strada provinciale e sotto le falde delle montagne delle Cese e di Agnone vecchio, si installa un comando tedesco. Nella stessa località fu allestita una cucina per la truppa e fu approntato un ospedaletto da campo».
Anche a Supino i tedeschi arrivano nella seconda metà del mese: occupano la caserma dei Carabinieri e si installano in contrada San Sebastiano. Evidentemente informati del recupero da parte di alcuni supinesi delle armi di cui si erano disfatti i soldati italiani, alla Tomacella, una decina di giorni prima, chiedono alla popolazione l’immediata consegna di tutto il materiale bellico esistente in paese. Ma ricevono solo vecchie armi da caccia che, un certo giorno, vengono reclamate da alcuni supinesi radunatisi davanti alla caserma. Qualcuno approfitta del tumulto che si crea per lanciare una o più bombe a mano che provocano, tra l’altro, la morte del giovane Guido Giussoli.
A Vico nel Lazio si rendono conto che anche il loro paese è coinvolto nella guerra quel giorno che, scrive Natale Tomei, «una motocicletta con side-car si ferma davanti la fontana della Piazza. Scendono due militari, un maresciallo e un soldato: cercano alloggi per un presidio militare e per la truppa che da Vico doveva essere spostata sul fronte di Cassino a consolidare la linea Gustav e tentare, quindi, di porre argini alle truppe alleate pronte a proiettarsi verso il nord d’Italia.
Così Vico, come altri centri dell’alta Ciociaria, diventa zona di retrovia del fronte: luogo di ‘addestramento’ per quelli che partono per la prima linea e luogo di riposo per i soldati, feriti o ammalati, reduci dai campi di battaglia di Cassino. Le abitazioni scelte vengono contrassegnate da una X scritta con gesso bianco sulla porta d’ingresso..».
A Sgurgola, dalla «Piazza deglio Muragliono» — lo riferisce Franco Caporossi — il giovane Antonio Bellottivede passare treni carichi di materiale bellico. E dice: «vedo passare anche molti aerei e sento il segretario comunale Tito Gori, che mi è vicino, osservare: Altro che guerra finita! Si chissi (gli alleati) ‘nse sbrigheno a venì all’ammonte pe nnui sarao guai!’». (5, continua)
© Costantino Jadecola, 1993.