3 / LA NOSTRA GUERRA / 8 SETTEMBRE. IL CAOS
Il 25 luglio 1943, alla notizia che un “cavaliere” è subentrato ad un altro “cavaliere” al vertice del governo nazionale, «l’Italia impazzisce». Mino Caudanaed Arturo Assantescrivono che «per quarantacinque giorni, soffia sul nostro disgraziato paese un vento di follia. I colpi di scena si susseguono ininterrottamente, come nei melodrammi verdiani, e lo ‘spettacolo’ non accenna mai a finire. È sempre festa, è sempre domenica. Ometti dallo sguardo mite calpestano rabbiosamente il distintivo del PNF e discorrono del Duce con voce vibrante di collera.
«- Bisognerebbe strozzarlo — dicono, affondando il cucchiaio nel bicchiere di granita alla menta.
«Nessuno si propone problemi, nessuno pensa al domani. La gente è solo ansiosa di leggere la storia degli ‘amori di Benito e Claretta’, finalmente rivelati al pubblico».
Il quarantacinquesimo giorno dal 25 luglio è l’8 settembre: alle 19,42 di quel giorno, Pietro Badoglioannuncia per radio il concluso armistizio tra il governo italiano e le forze anglo-americane e i loro alleati. Si cambia partner ma non la musica. Un tantino ingenuamente, forse, il Corriere della seradel giorno dopo titola: «Armistizio. Le ostilità cessate tra l’Italia, l’Inghilterra e gli Stati Uniti».
E la Germania? Cosa fa la Germania? Mentre il nemico di prima sta appena accomodandosi in salotto — il 3 settembre gli alleati sono sbarcati in Calabria, il 9 a Salerno — il nuovo è già in casa da un pezzo e, dunque, vi si muove a proprio agio. Ora, per di più, con la rabbia in corpo per il voltafaccia subito. Per cui le conseguenze non si lasciano attendere. Badoglio ha appena terminato di leggere l’annuncio dell’avvenuto armistizio che il colonnello Giaglietti, comandante il distretto militare di Frosinone, a padre Francesco Tatarelli, del vicino convento dei Redentoristi, che commenta con lui quella inattesa notizia, risponde convinto: «Ora dobbiamo difenderci dai tedeschi!». Quindi, riferisce padre Tatarelli, «si tentò un minimo ed ingenuo apprestamento di difesa in quel pomeriggio stesso. Un certo numero di ufficiali si mise ad armeggiare per costruire un nido di mitragliatrici dinanzi all’ingresso del distretto. Vi era là un mucchio di pozzolana che si prestava bene come difesa. Ma i bravi ufficiali stettero a lungo a discutere sul come piazzare e in quale direzione puntare le poche armi a disposizioni. Altri soldati si scaglionarono nella stretta via, che dalla nostra chiesa portava a S. Antonio (ora è la bella via Fosse Ardeatine) e a una certa distanza l’uno dall’altro; ogni gruppo nascondeva tra i cespugli una mitragliatrice. Col mio superiore P. Giuseppe Palombovolemmo fare per curiosità una ricognizione in città, passando appunto da quel viottolo quasi deserto. I soldati che custodivano a difesa le mitragliatrici si meravigliavano della nostra audacia; finché, arrivati a mezza via, uno di loro ci avvertì: ‘Reverendi, noi abbiamo l’ordine di sparare ai Tedeschi appena spuntano. Se voi vi trovate in mezzo, sarete i primi a cadere’. Continuammo ancora un po’; poi, visto che la situazione si poteva fare pericolosa, ritornammo a casa». Ma i tedeschi quella sera — ed è una mezza delusione per ufficiali e truppa — «non spuntano»; tuttavia, annota padre Tatarelli, «i propositi bellicosi di difesa ad oltranza crollarono miseramente il giorno dopo».
Severino Gazzelloni, all’epoca è fresco diplomato del Conservatorio. Essendo militare — suona nel “complesso artistico” del “Corpo d’Armata” — l’8 settembre lo sorprende a Roma con i suoi commilitoni, «attendati al campo Parioli in mezzo a profughi e a sbandati di ogni genere, una specie di immensa tendopoli dove adesso c’è il Villaggio Olimpico». Scappano tutti e, dunque, scappa anche lui: «Io sono corso a Roccasecca, corso si fa per dire, non so più quanti giorni e quante notti ho impiegato per arrivare a casa, sempre camminando a piedi, nascondendomi di qua e di là, cercando qua una camicia, là una giacca nei casali dei contadini dove mi fermavo a chiedere un po’ di pane e un mestolo di latte. Dopo tutte le avventure passate, la calma e il silenzio del mio paese mi sembravano irreali, privilegi di un altro mondo. Roccasecca era una specie di eden scampato non si come alla catastrofe».
Cosa accade, invece, quell’8 settembre del ’43 negli altri centri della provincia?
ScriveRaffaele Nardoianni: «Alla folla che si riversò nelle vie di Piedimonte per l’annuncio dell’armistizio si unirono i tedeschi i quali, avendo appreso i veri termini del trattato, mutarono di punto in bianco il loro atteggiamento, divenendo prepotenti, minacciosi, neri».
A Cassino, riferisce Tancredi Grossi, la cittadinanza «apprese la notizia con viva gioia. Molti brindarono alla pace e, per un momento, ebbero la lieta impressione che le sofferenze della guerra fossero terminate. Ho detto per un momento. Infatti, di lì a poco dovevano accorgersi che non c’era proprio di che gioire e che la momentanea allegria presto si sarebbe trasformata in cupa apprensione e quindi in pianto». Intorno a mezzanotte, infatti, i soldati tedeschi prendono possesso dell’ufficio postale; quindi, della stazione ferroviaria e dell’autocentro di artiglieria.
Ad Alatri, racconta Angelo Sacchetti Sassetti, c’è una «grande manifestazione di gioia nella Chiesa di S. Maria Maggiore, dove il predicatore e il Vescovo inneggiano all’avvenimento. Già si pensa di portare in processione l’immagine della Madonna della Libera. I tedeschi a Tecchiena e al Caffè Betilieno s’uniscono all’esultanza trincando vini e liquori. Una domanda angosciosa turba la letizia di qualcuno: — E i tedeschi?»
ScriveUmberto Patriarcache a Ceprano i tedeschi «occuparono subito tutti i punti strategici: i ponti, la stazione ferroviaria, la caserma dei carabinieri (dopo una breve scaramuccia con i militi dell’Arma), gli altri uffici pubblici più importanti come, ad esempio, le poste: bussarono alla porta del custode notturno, ‘Lepretto’ — Raponi Vincenzodetto affettuosamente così per la sua minuscola e agile statura. Come venne ad aprire, gli imposero — armi in pugno — di aprire e di lasciar libero il telefono e il telegrafo; occuparono inoltre la cartiera, dove fecero azionare perentoriamente la sirena».
A Morolo c’è un’esplosione collettiva di gioia che il parroco, don Antonio Biondi, cerca di spegnere o, quanto meno, di attutire, consigliando di restare calmi in attesa di ulteriori sviluppi: «E fu bene». Poi, scrive lo stesso don Antonio, «qualche tedesco che quella sera era in giro per Morolo, appresa la notizia dell’armistizio, si affrettò a portarla ai suoi superiori. Senza dubbio, però, quella notizia, oltre che dalla radio italiana, sarà stata resa nota al campo dei comandi militari superiori. I tedeschi presero subito delle precauzioni. Misero numerose sentinelle intorno al loro campo. Temendo immediate reazioni a loro danno la notte vegliarono in armi facendo in pari tempo i bagagli per esser pronti alla partenza che ritenevano imminente. Quanto non poterono caricare sugli autocarri distribuirono ai contadini dei dintorni e a coloro che, a pagamento o spontaneamente, avevano reso dei servizi al loro campo. Tutto ciò che poteva avere un interesse militare fu bruciato».
Ad Aquino qualcuno ritiene opportuno suonare le campane a festa. Non solo. Ma si organizza anche una processione di ringraziamento per le vie del paese. Don Innocenzo Quagliozzidice: «Ingenuamente si inneggiò alla fine della spaventosa guerra. Si pensò che forse si poteva salutare l’alba della tanto desiderata pace».
Michele Tomasricorda: «Quella sera mi trovavo in compagnia di un amico all’entrata di Ausonia. Era quasi buio. Si udì un grido: ‘Raus! Tutti a casa!’ I tedeschi avevano occupato la Caserma dei Carabinieri, disarmando poi una pattuglia di soldati italiani che si trovava al bivio di Coreno Ausonio. Il sottotenente che comandava la pattuglia si rifiutò, però, di consegnare le armi e per questo fu preso dai tedeschi e portato via su un camion militare».
A Vallecorsa, riferisce don Alfredo Salulini, «un improvviso scampanio ci annunciò la firma dell’armistizio. Giubilammo per la fine della guerra».
Il dott. Giovanni Stirpe, medico condotto del tempo, testimonia che a Castro dei Volsci, «non appena captato l’annunzio trasmesso dalla radio, esplose irrefrenabile l’esultanza della popolazione. (…) Uomini, donne si riversarono per le vie. (…) Usciti dalle case coi volti raggianti di gioia, si radunarono in crocchio commentando; poi, spontaneamente, si ordinarono in inni di lode e di ringraziamento all’Eterno».
A Fontana Liri, i tedeschi sono solleciti a mettere i soldati italiani in condizione di non nuocere, occupando le postazioni strategiche già controllate da questi. Scrive Generoso Pistilliche «anche il Polverificio venne immediatamente occupato dalle truppe tedesche che ne iniziarono lo smantellamento per inviare i macchinari in Germania. Requisirono pure tutte le abitazioni di Fontana Liri Inferiore per insediarvi i comandi, gli alloggi per truppe, i magazzini e le sedi dei servizi. Nelle palazzine degli ‘Alloggi’, già abitazioni di ufficiali e funzionari del polverificio, fu installato un ospedale militare e, nei pressi, un cimitero di guerra».
A Castelnuovo Parano, annota don Arturo Calenzo, «a sera un improvviso scampanio a festa si ode da Ausonia. Si annunzia qualcosa di straordinario. Anche da noi vanno a suonare le campane alle due frazioni di Terra e di Casali. Giubilo indescrivibile. Tutti si lasciano andare in abbracci tra lacrime di gioia e di dolore. Pochi sono quelli che non credono alla pace. È già notte. Le campane non si stancano. La chiesa dell’Assunzione è gremita. Chiamano anche me per fare funzioni di grazie. Io non credo alla pace e non vado».
Si consuma così, tra qualche speranza di pace ed il timore di un futuro a dir poco pieno di incognite, l’8 settembre del 1943. Che sia una giornata destinata ad entrare nella storia, ci vuol poco a capirlo; forse, si fa più fatica ad ammettere, anche se nel proprio intimo se ne ha la piena convinzione, che, in pratica, si è al principio della fine. Una fine che per la gente del Lazio meridionale sarà lunga nove interminabili mesi. (3, continua)
© Costantino Jadecola, 1993.