LI CHIAMAVANO BRIGANTI / INNOCENTI E COLPEVOLI
Campo Lupino in una stampa d’epoca
Albeggiava appena, quel 22 novembre 1866, quando i quindici uomini di un distaccamento della quarta compagnia del “Battaglione Carabinieri Estero” al comando del sergente Grec, cui erano aggregati i gendarmi Adamo Massa e Silvestro Michelucci e il brigadiere Gioacchino Latini, partì da Santo Stefano (Villa Santo Stefano), alla volta di Campo Lupino, un monte tra Castro dei Volsci ed Amaseno, all’imbocco della valle che prende il nome da quest’ultima località; contestualmente, guidato dal tenente Bourges, ma diretto al monte Sarsina, partiva anche un altro distaccamento di 17 uomini, oltre ai gendarmi Natale Palmerini e Gaetano Di Palma, con l’intento di raggiungere anch’esso, ma passando «per la sommità dei monti», Campo Lupino.
Motivo della spedizione era quello di condurre un attacco alle bande brigantesche — una «forza» fra i 60 e i 70 uomini — capeggiate da Pietro Mazza, Michele Porcella, Michele Cipriani e Luigi Cima le quali, da qualche tempo, si aggiravano in vari punti delle montagne che sono in prossimità di Castro dei Volsci.
Erano circa le «otto antimeridiane» quando gli uomini agli ordini del sergente Grec giunsero sulla sommità di Campo Lupino: nemmeno il tempo di rendersi conto della situazione che subito si scontrarono «colle summenzionate turbe di briganti d’assai superiori di numero e di posizione.» La qualcosa, naturalmente, favorì ben presto i briganti cosicché il comandante Grec fu costretto a porsi in ritirata avendo oltretutto perso quattro uomini, «che gli restarono uccisi», così come analoga sorte toccò al brigadiere Latini e al gendarme Massa.
Circa un’ora dopo sul luogo dello scontro giungevano anche gli uomini del tenente Bourges, «che aveva affrettato il passo verso lo strepito delle fucilate.» Ma dopo un breve combattimento, «restava pur esso sopraffatto dal numero» cosicché anche Bourges si vide costretto a «retrocedere» verso Santo Stefano lasciando sul terreno i gendarmi Natale Palmerini e Gaetano Di Palma.
Proprio durante questa fase, ma circa un’ora più tardi, avendo sentito Bourges altre fucilate e credendo impegnata coi briganti una colonna di zuavi che era partita da Prossedi, ritenne doveroso accorrere in suo soccorso: il caporale Maier «s’inoltrava innanzi con dodici individui» e congiuntosi quindi ad un distaccamento di zuavi di 25 uomini, attaccò e pose in fuga i briganti. Nell’azione, uno zuavo restò morto ed un altro fu ferito.
Degli altri distaccamenti che, invece, erano partiti da S. Lorenzo (Amaseno), quello comandato dal tenente Rasori e dal maresciallo dei gendarmi Moscatelli arrestava Giovanni Pacioni «del vivo Isidoro», nato e domiciliato in Castro dei Volsci, 19 anni compiuti, celibe, di professione contadino, che sarebbe stato poi giudicato a Frosinone il successivo giovedì 23 maggio 1867 nell’ambito della «causa» intitolata «Violenza pubblica con resistenza alla Forza e combattimento a fuoco fra le medesime ed alcune bande di Briganti li 22 Novembre 1866 con risultato di morte di nove militi e ferimento di altro»
Pacioni, come si è detto, dimorava nel «contado» di Castro presso la famiglia D’Ambrosio «di cui sta un figlio aggregato nelle bande brigantesche.» Poiché il giorno del combattimento a Campo Lupino, alle tre e mezza pomeridiane, Giovanni, che «in più occasioni fu visto tener dietro a riunioni di briganti», si trovava proprio in quel luogo, venne arrestato.
Ma perché? Nel verbale d’arresto, tra i documenti custodito presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. 81) si «riferisce che era armato di fucile ad una canna che al vedere la Forza lasciò sul terreno»; un testimone, poi, dice «che sul terreno gittò pure una cappa che portava indosso»; inoltre, «fra gli oggetti appresi sul luogo del combattimento fuvvi un fucile ad una canna ed una cappa, che un testimonio credette di riconoscere l’uno appartenente ed usato dallo inquisito e 1’altra come solita ad indossarsi dal padre del medesimo.» In ultimo, «sia perché nell’atto dell’arresto presso il luogo e nel giorno del delitto esso si contradisse, dicendo prima di essere stato a pascere le vacche, ritrattandosi poi disse che era stato a seminare, dedusse infine che invece era stato a bere dell’acqua in una di quelle sorgenti; sia che nelle sue contradizioni, ed inverosimiglianze giunse a dire d’aver risaputo solo dalla Forza che era seguito il combattimento, che non conosceva dove sia situato Campo-Lupino e tutt’altro.»
In realtà le cose non stavano così. Infatti, «fino al punto del suo arresto», Giovanni era stato a zappare nel terreno di Gaetano Neroni, come lo stesso Neroni confermerà. Dal canto suo, «il padre del giudicabile», Isidoro, sostiene «di non aver posseduto mai cappa, né esso né il figlio» tant’è che certo Stefano Ponenti non ha difficoltà a confermarlo «dichiarando che soleva egli prestargliela.»
Insomma, alla luce di queste e di altre circostanze, alla fine i giudici non possono non convenire di trovarsi al cospetto di «un ragazzone inetto ed incapace», ovvero di un soggetto del quale molto difficilmente «i briganti, che hanno bisogno e sogliono aggregare soggetti di altra fatta,» si sarebbero serviti.
Cosicché il tribunale — «Raffaele avv. Parisi, presidente, Onorato avv. Scifelli, giudice, Pancrazio avv. Lazzarini, giudice, Giacomo avv. Belli, Giudice, Massimo cav. Pocobelli, Captano Giudice, Gio. Battista cav. Mazzoli, capitano giudice coll’intervento degl’Ill.mi Signori Agapito avvocato Rossetti, fiscale militare, Andrea Simeoni, difensore particolare, Serafino Bottacchi cancelliere sostituto» — manda assolto Giovanni Pacioni dichiarando che di ciò che è accaduto a Campo Lupino «non constare abbastanza in specie che ne sia colpevole l’imputato.»
Diversamente vanno le cose, invece, per Maria Teresa «figlia del vivo Domenico Roselli, e moglie di Giuseppe Molinari nata e domiciliata in Castro, contadina, di anni 28» costituitasi il 30 novembre 1866 e processata nella stessa causa del 23 maggio 1867.
Di essa si sapeva che era in stretta relazione con i briganti e specialmente con la banda Cima. Ciò era acclarato «non solo per la di lei fama presso di tutti; ma pur anche per essere stato ammesso da lei medesima». Maria Teresa, infatti, non aveva avuta difficoltà alcuna sia nel raccontare che «nel mese di novembre Domenico Garofoli con altri due briganti evasi dalle carceri, erano stati a trovarla nella sua capanna» come pure di «essere stata druda di Giorgio il Calabrese attinente alla banda Cima» il quale Calabrese l’aveva messa incinta. Nonostante fosse da un paio d’anni separata dal marito, tuttavia aveva «cercato di nasconder la sua gravidanza collo abborto, e d’imputarla poi ad altro soggetto.»
Come se ciò non bastasse, una conferma inequivocabile viene poi «dalla requisizione pratticata nella sua capanna, ove come nascosto sotto il coperchio fu trovato un vestimento da brigante, varj fazzoletti colle impresse macchie di polvere solfurea, ed una borsa con entro ottanta papetti e quattro lire», cifra a proposito della quale «la inquisita intorbidò da se stessa la provenienza di tal somma, col dire alla Forza che nella borsa si trovavano scudi ‘dodici’ o ‘tredici’, mentre nella sua condizione di miseria non era mai presumibile cotale ignoranza ed imprecisione; e che per giustificare un tal possesso abbialo voluto presentar frutto della vendita de’ suoi orecchini, mentre con questi non ricavò che scudi dieci; e che se a questi si possono aggiungere altri tre scudi per lavori alla cava d’asfalto in Castro, non si giungerebbe alla somma di scudi dieciotto circa che furono trovati nella borsa; e che abbia voluto far credere, d’aver messo in serbo una tal somma per ricompensare il difensore del di lei marito che fu giudicato e condannato come brigante, mentre di una tal somma così riservata era rimasta ignorante della quantità, mentre miserabilissima col peso di cinque figli da mantenere è ben difficile a credere che l’avesse lasciata intatta dal Giugno in cui seguì la vendita degli orecchini fino al Novembre in cui avvenne il giudizio del marito.»
A suo carico, poi, c’era da mettere in conto di quella volta che — era il 13 novembre — «arrestata e trasportata dalla Forza per la ferrovia, presso di Pofi, correndo il convoglio, si lanciò su la strada col più grande pericolo della sua vita»; per non dire che «aggregata essa fra i briganti, seguiva la banda Cima, e Mazza; e tre testimonj l’hanno veduta armata vestita da uomo fra i briganti, aggiungendosi da uno dei deponenti d’avercela vista per più giorni e d’averla esso medesimo lasciata fra i briganti; ed altri testimonj depongono che immedesimata colla banda Cima la videro prostituta dormire abitualmente a lato di Giorgio il Calabrese già da gran tempo suo drudo, e depongono ancora che vestita da uomo vantavasi fra i briganti del maneggio delle armi, tirando anche a segno più colpi di archibugio.»
Altri testimoni ancora la «videro sì prima che dopo il combattimento a Campo Lupino; e tre deponenti precisano averla veduta armata vestita da uomo in mezzo una turba di briganti tanto il giorno dopo il suddetto combattimento quanto nel successivo; ed un testimonio di fatto dice d’averla veduta unire ai briganti di Cima, e dopo una decina o quindicina di giorni la rivide nella banda medesima armata di doppietta e con tutto il vestiario alla brigantesca; ed essendosi il deponente trattenuto con la detta banda tre giorni, riferisce che oltre allo averla veduta dormir sempre a fianco di Giorgio, li udì raccontare che due giorni innanzi si erano battuti a Campo Lupino, e che la giudicabile sul proposito vantò la sua bravura nel tirare contro la Forza.»
Insomma, vi sono motivi più che sufficienti per «ritenerla aggregata coi briganti e brigantessa non solamente in genere, ma anche specificatamente loro associata nel giorno del combattimento e nel combattimento istesso a Campo Lupino.» A tal proposito, «un individuo appartenuto alla banda Cima, sebbene non trovatosi al ripetuto combattimento, attestò di credere che gli altri compagni colà si fossero trovati insieme alla detta Molinari; ed un altro brigante appartenuto alla banda Cima, e quindi a quella di Panici, depose che una sera poco prima del ripetuto combattimento si unì a loro la Molinari, ed il giorno appresso la lasciarono colla banda Cima nelle montagne di Castro.»
«Se tutto ciò fosse poco», si legge negli atti processuali, «valerebbero contro la inquisita le stesse sue repugnanti induzioni; avendo detto che per la fuga dal vagone il giorno tredici Novembre restò impedita di camminare per giorni undici, mentre è provato che sia rimasta nella capanna di Andrea Mantova soli giorni cinque, e mentre il suddetto individuo appartenuto alla banda Panici, afferma che un giorno poco prima del combattimento essa Molinari disse d’esser fuggita dalla ferrovia, che andava in cerca del Calabrese, e che si riunì in effetto alla banda Cima per le montagne di Castro; avendo mostrato ignoranza che nella sua capanna sotto il caperchio fosse ritrovato il vestiario da brigante; avendo impugnato cose le più stabilite in processo, col sostenere perfino di non conoscer briganti e di non aver mai avuto con essi relazione alcuna.»
In conclusione, il tribunale dichiara senz’altro colpevole Maria Teresa Molinari Roselli ma «colla divergenza di due voti che furono per dichiararla colpevole di semplice aderenza al brigantaggio stesso con due gradi di dolo minore dell’assoluto reo di brigantaggio.»
Comunque, considerata la sua spontanea presentazione in carcere ed il «dispaccio» del due dicembre 1866 con il quale l’imputata viene «ammessa al godimento dei benefici accordati dall’Art.9 della Legge Edittale 7 Decembre 1865» («Ai Briganti che nello spazio di quindici giorni dalla data del presente Editto si costituissero spontaneamente nelle carceri del Governo è garantita la salvezza della vita. Se prima della promulgazione della presente legge avessero commessi delitti non importanti pena, capitale sarà accordata ai medesimi la minorazione da uno a tre gradi.») e, di conseguenza, condannata ad espiare la pena della galera perpetua», oltre a danni e spese da liquidarsi «per chi e come di ragione.»
© Costantino Jadecola, 2004.