LI CHIAMAVANO BRIGANTI / PER VENTI PEZZE. ANZI, ANCHE MENO.
Falvaterra in una stampa d’epoca
«Caccia venti pezze!»: il motivo di quella «visita» a sorpresa fu concretizzata da questa richiesta accompagnata, tanto per far capire che c’era poco da scherzare, da uno schioppo spianato contro la destinataria della richiesta stessa.
Falvaterra, contrada Piedimonte. «Verso le ore due e mezzo della notte» fra il 23 ed il 24 ottobre del 1866, Maria Salome Ceccarelli, vedova di Giuseppe Sarra, era sul punto di infilarsi a letto, e, come lei, la figlia Domenica, 15 anni, ed il figlio Adriano, 9, quando vide «all’improvviso aprirsi la porta della sua casetta, che era rimasta socchiusa, e presentarsi sulla soglia di essa un giovane di giusta statura ed imberbe, il quale spianatole contro lo schioppo di cui era munito» le disse, appunto, «Caccia venti pezze!»
- «A tenerle!», venne spontaneo rispondere alla donna, nonostante fosse intimorita dalla minaccia.
Allora l’interlocutore ridusse le pretese dapprima a dieci e poi a cinque pezze sentendosi sempre ripetere da Maria Salome che lei era solo «una povera donna che niente possedeva.»
- «Non ci credi?», disse la donna. «Allora, guarda tu stesso e ti prendi tutto il denaro che trovi!»
L’uomo non se lo fece ripetere due volte e «si pose a rovistare da per tutto senza trovarvi monete di sorta. Che proseguendo allora il medesimo a minacciarla e ad insistere per aver denaro, quella sventurata per calmarlo, gli dicesse che quando avesse riscosso certa somma, importo di una data quantità di olio che aveva venduto, gli avrebbe potuto dare qualche cosa.»
Al che lo sconosciuto disse di voler prima sentire il parere del suo «caporale» che lo aspettava fuori. Uscì, infatti, e poco dopo tornò dicendo a Maria Salome che la sua proposta non era stata accettata; piuttosto, gli era stato ordinato di prendere in ostaggio il piccolo Adriano: «a tale annunzio tanto essa Maria che quel ragazzo si dassero alla disperazione; ed a nulla giovando le sue preghiere che colle ginocchia a terra porse a quello sciagurato baciandogli persino le mani, dicesse a sua figlia di recarsi presso suo cognato Giuseppe Antonio Sarra per chiedergli soccorso in quella emergente».
Appena dopo, Adriano ha l’opportunità, anche lui, di poter «fuggire inosservato e porsi in sicuro» presso lo zio Giuseppe Antonio al quale Domenica aveva appena raccontato ciò che era accaduto a casa sua. Ma proprio mentre questi «rivestivasi dei suoi panni, perché già coricato», ecco presentarsi alla sua porta lo stesso «incognito» che era già stato a casa di Domenica e di Adriano insieme alla loro madre Maria Salome: il solito schioppo spianato, anche al Sarra chiede «venti pezze». Ma Giuseppe Antonio non può dargli più di «venti paoli», che è poi tutto ciò che ha in casa; ma, «insistendo l’altro per le venti pezze, gli soggiungesse che, se gli avesse dato di tempo tutto il seguente giorno, avrebbe procurato di contentarlo facendo qualche debito». A quel punto, lo sconosciuto prende i «venti paoli» e avverte Giuseppe Antonio che la sera dopo avrebbe mandato un ragazzo a prendere le «venti pezze»; poi, «postosi l’indice sulle labbra», minaccioso aggiunge: «Ohè! Zitto se nò vi brugio tutti!»
In una analoga situazione, «verso la stessa ora della indicata sera», è coinvolto certo Bernardo Saccoccia. Gli accadde infatti che «poco dopo che erasi posto in letto con sua moglie, sentisse picchiare all’uscio di sua casa, e sebbene nessuno rispondesse alla domanda fatta per sapere chi fosse l’importuno si alzasse ad aprire.» Anche in questo caso era un giovane armato di schioppo che imperioso gli dice: «Caccia venti pezze!»
- «Ma come faccio se non tengo nemmeno un bajocco», ribatte Bernardo. «Sono solo un miserabile che vive alla giornata.»
- «E allora dammi almeno venti paoli», disse l’altro. Ma avendo capito che non poteva trarne alcunché girò i tacchi ed andò via senza lasciarsi andare a minacce.
Era da qualche tempo, si legge nelle carte conservate presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. 60 e 63), che nel territorio di Falvaterra e «segnatamente nelle contrade Valle Moritera, Colletrone e macchia detta delle Tommelle», si aggirava nottetempo una banda di briganti che secondo «un rapporto della Forza», era composta da cinque individui; da sei, invece, secondo le «giurate deposizioni di due testimoni», tutti «armati di pistole, coltelli e schioppi.» Sulle loro tracce si era posto il comandante la brigata dei gendarmi i cui tentativi «per riuscire allo scoprimento ed arresto di quei malviventi» erano stati «infruttuosi» sino a quando «da segreto confidente» non venne a sapere che il principale autore dei reati commessi era da ritenersi certo Angelo De Vizi figlio del «vivo» Giuseppe, «nativo di Tirella (Terelle, ndr) nel Regno di Napoli, Circondario di San Germano, e domiciliato in Pastena, dell’asserta età di anni 19, celibe, pastore.»
Poiché si sapeva che questi era solito transitare per la «macchia delle Tommelle», «fatti in essa un paio di appostamenti poté riuscire, con l’aiuto di una Guida, a cui era ben cognito il De Vizi stesso, sorprenderlo nel suo passaggio per quella verso la prima ora della notte del 4 Novembre prossimo passato ed arrestato, traducendolo quindi alle Carceri di Ceprano.» Ed è proprio qui che, una volta acquisiti gli atti per avviare la «processura», il successivo 29 novembre il giudice dott. Cesare Chiesa interroga l’imputato.
Dice, innanzi tutto, «che stando presso la casa campestre di Antonio Luzi, nel territorio di Pastena a guardia di alcuni maiali, gli si presentasse in una sera due ore prima dell’Ave Maria tal Luigi Antonelli disertore dalle truppe italiane ed allora dimorante in questo Stato [pontificio], suo conoscente perché di Pastena, il quale lo condusse con un pretesto nella macchia di Falvaterra, dove trovata la Forza fu da essa arrestato senza aver commesso alcunché di male». Aggiunge, quindi, «di aver dimorato un’altra volta soltanto in questo Stato per dodici o tredici notti nel mese di Settembre precedente presso tal Sozio Di Donna in contrada Vallebona, territorio di Falvaterra, per stabbiare con la sua mandra di Capre un terreno che il medesimo vi teneva in affitto». Poi, però, secondo il giudice Chiesa si contraddice affermando che nel mese di ottobre«stando nel giorno coi suoi majali nel territorio di Pastena accedesse la notte presso il detto Di Donna dove stavano suo padre e suo zio, per mangiarvi la polenta e dormirvi».
Ma perché uno di Terelle si trova a Pastena? «Perché», racconta sempre De Vizi, essendo soliti i suoi genitori condurre «nelle stagioni d’inverno il loro bestiame alla macchia di Terracina vi andasse insieme» anche lui; poi, essendo stato permesso da qualche anno «ai regnicoli di portare al pascolo le loro mandre nel territorio di Falvaterra, nella stagione estiva portasse anche la loro a fida in un prato di certo Bernardo.»
A conclusione dell’interrogatorio, nel proclamarsi innocente, affermò di non conoscere la contrada Piedimonte né, tanto meno, Maria Salome Ceccarelli, Giuseppe Antonio Sarra e Bernardo Saccoccia. In ciò smentito, però, da quest’ultimi due i quali avevano riconosciuto «la mattina del 5 novembre un individuo che dalla Forza veniva tradotto dalla Brigata di Falvaterra alle carceri di Ceprano, per quello stesso che erasi presentato nelle loro abitazioni la sera del 23 ottobre.» Appunto Angelo De Vizi il quale aveva, peraltro, «anche la specialità di portare gli orecchini.»
Ma a mettere ancor più nei guai Angelo De Vizi furono le deposizioni giurate di due testimoni «ad essi benissimo cognito» che prima del suo arresto, «cioè la prima circa quaranta giorni, e la seconda quindici lo videro insieme ad altri cinque individui armati di pistole, coltelli e schioppi, essendo egli munito di pistola, guarnita di ottone e di pugnale con fodero, vestiti tutti alla foggia dei Briganti con cappelli di lana nera a cupola bassa guernito di fettuccie lacci e fiocchi di colore rosso e nero pendenti da un lato, provenienti dal Regno e passare per le contrade Valle Moritera, Colletrone, dirigendosi verso la macchia delle Tommelle, ingiungendo in ambedue le volte E[sso] I[mputato] ai detti testimoni di non parlare ad alcuno di quel loro passaggio sotto pena di morte. Uno di essi, poi, aggiunge che, dopo la nuova del suo arresto, dopo circa 15 giorni rivedesse presso il confine i cinque compagni di esso De-Vizi senza di lui, dal che si persuase esser egli caduto in potere della giustizia, e che tanto egli che i suoi compagni dovessero esercitare il Brigantaggio solo di notte tempo dividendosi nel giorno avendoli visti di mattina o di sera; lo che fu pure confermato dall’altro» il quale disse che De Vizi «andava di notte a commettere delitti ritornando poi al giorno presso la sua mandria di capre nel territorio di Pastena.» Le cose, insomma, si misero per niente bene per il giovanissimo pastore di Terelle del quale si venne anche a sapere, lo si legge nel dispositivo della sentenza, di aver egli tentato «di attenuare la propria imputabilità annunciandosi dell’età minore di anni diciannove» quando invece si poté documentare, «anche colla fede del Parroco di Terelle che esso De Vizi è nato il ventisette Settembre 1846» con la conseguenza che egli era «stato in conventicola dopo uscito dalla minorità.»
Ciò acclarato e considerato che secondo l’articolo 4 dell’editto Pericoli del 7 dicembre 1865 — «la riunione anche di soli tre Briganti armati è considerata come conventicola, ed ai componenti la medesima è applicata la pena di morte colla fucilazione alle spalle» — per Angelo De Vizi non c’è via di scampo: il 2 marzo 1867, infatti, il procuratore fiscale militare presso il tribunale civile e militare di Frosinone per le cause di brigantaggio nelle province di Frosinone e Velletri Agapito Rossetti ordina che la sentenza pronunciata dallo stesso tribunale — «Raffaele Avv. Parisi Presidente, Onorato Avv. Scifelli Giudice, Pancrazio Avv. Lazzarini Giudice, Giacomo Avv. Belli Giudice, Massimo Cav. Pocobelli Capitano Giudice, Gio. Battista cav. Mazzoli Capitano Giudice, Agapito Avv. Rossetti, Fiscale Militare, Pietro Avv. Fortuna, Difensore dei rei» — il 21 febbraio precedente venga «mandata ad esecuzione mediante fucilazione alle spalle, alle ore sette antimeridiane del sette corrente marzo nella pianura esterna del Comune di Falvaterra.»
Cosa che avviene puntualmente, come poi attesterà il «cursore» Luigi Quadrozzi.
© Costantino Jadecola, 2004.