LI CHIAMAVANO BRIGANTI / VENTI ANNI DI GALERA PER CINQUE GIORNI DA “BRIGANTE”
Il 17 marzo 1866, un «numeroso stuolo di Briganti armati» al comando di Domenico Fuoco e di Ciccio Guerra penetra nello Stato Pontificio dal limitrofo ex Regno delle Due Sicilie ed al calar della notte si presenta alla «casetta di campagna» di Pietro Veglianti, ai «Prati di San Niccola», non lontano da Collepardo, al quale chiedono fuoco per riscaldarsi e, «in deficienza di ogni altro commestibile», pane e formaggio.
Dopo alcune ore di riposo i briganti lasciarono la «casetta» e «ascesero» la vicina montagna dove passarono le rimanenti ore della notte per andare quindi a nascondersi, all’alba, in una delle «gole più orride di quelle montagne» e, proprio per ciò, detta «valle dell’inferno».
Un ulteriore, indispensabile riposo, e via di nuovo. Tutti tranne uno, abbastanza giovane, il quale, vinto dal sonno, quando si sveglia deve constatare, appunto, che i suoi compagni sono spariti e lo hanno lasciato lì tutto solo: non conoscendo la loro destinazione, né sapendo cos’altro fare, ritorna alla casetta di Pietro Veglianti dove con i suoi compagni era stato ospite la notte precedente.
Alla vista di quel giovane «avvoltato in una lacera capparella di colore oscuro, dalla estremità della quale faceva sporgere la bocca di un Archibugio», che appena dopo gli ricordava che di essere «uno dei briganti che nella notte innanzi erano stati in quel luogo», Pietro Veglianti non resta sorpreso più di tanto; né si scompone quando il suo interlocutore, «non essendo, come diceva, prattico delle contrade», gli chiede «qual via poteva battere per raggiungere i compagni».
Non potendo, per forza di cose, dare una risposta alla richiesta del giovane, Veglianti si offrì, però, di nasconderlo «in una prossima capanna di sua proprietà ricoprendolo con paglia» ed assicurandolo che avrebbe potuto contare sulla sua protezione.
Infatti, appena dopo, Veglianti corse a Collepardo ad informarne il comando della brigata dei gendarmi che, senza farselo ripetere due volte, mandò ad arrestare il giovane che, «alle interpellanze della Forza», si qualificò per «Mancini Vincenzo del vivo Giovanni, dell’asserita età di anni 17 in 18 libero di stato nato e domiciliato in S. Pietro Infino Terra di Lavoro, contadino.» E raccontò, quindi, com’erano andate le cose: «Nel mese di Gennaro ultimo decorso recatosi egli alla Montagna di San Pietro Infino denominata Monte Rotondo a far della paglia da lavorar store per i Bastimenti, colà trovò il suo cugino Domenico Fuoco Capo Brigante, il quale lo costrinse ad armarsi di Carabina e formar parte delle due Bande nel numero di trentacinque uomini da esso e da Guerra capitanate.
«Dopo essersi per circa due mesi aggirati per quelle Montagne la notte del 13 al 14 Marzo scesero presso San Germano (Cassino, ndr) onde ricattare un tal sig. Domenico, il quale era solito frequentare un casino di sua proprietà non molto distante da San Germano stesso. Giunti in una macchia esistente nella prossimità del ridetto casino il Fuocoed il Guerra quivi collocarono esso Mancini e cinque compagni in istato di vedetta, nel mentre eglino stessi con gli altri armati si recarono sulle ore 14 a commettere il ricatto.
«Dopo lo spazio di tre ore circa tornarono infatti le due Bande alla Macchia non con uno ma con quattro ricattati cioè con l’indicato sig. Domenico, con due servi di lui, e con altra persona di età avvanzata. Perché poi non venissero raggiunti nel caso d’inseguimento presero subito il cammino per la Montagna di S. Germano, sulle falde della quale pervenivano sulle prime ore della notte stanchi dal viaggio fatto, e tormentati dalla fame sofferta, sebbene il tempo imperversasse per la pioggia che cadeva, e lo ascendere di notte in detta Montagna fosse un caminar faticoso pur nonostante nella notte stessa, in cui la persona avvanzata in età poté fuggirsene, non solo posero il piede nella cima di essa Montagna ma senza mai fermarsi si condussero sotto l’altra detta della Mainarda, da dove preso appena un poco di riposo salirono alla sommità.
«Quivi stanchi del tutto accesero del fuocoe per sopperire alla fame che avevano fecero da un capraro ammazzare dieci pecore, le quali ridotte in pezzi e gettate nella bracia di quel fuoco da essi acceso furono così malcotte mangiate anche dai ricattati.
«Fu allora che il sig. Domenico si fece a pregare i nostri Capi di domandare quella somma che pretendevano per il suo riscatto non potendo sopportare ulteriori strapazzi ma Fuoco e Guerra non vollero esternarsi; ed invece ripreso il viaggio per la Montagna di Canneto e quindi per quella di Sora non curando acqua e la neve che cadevano, e giunsero nella notte del 17 al 18 in una altra Montagna dichiarata di questo Stato Pontificio ove fecero sosta per tutta la notte. Fattosi giorno scesero innanzi ad un Convento (Trisulti? ndr), e nascostisi nella vicina fratta attesero l’imbrunire della sera. Si recarono allora tutti in una casetta di Pecoraio non molto distante, e costretto costui a somministrare da mangiare ebbero pane e formaggio, è così ristorati se ne andarono poi alla vicina Montagna. Gettatosi esso Mancini in terra si addormentò ed allo svegliarsi trovatosi abbandonato dai compagni tornò sul far del giorno, non sapendo ove andare, alla Capanna del Pecoraio. »
Questa la dettagliata confessione di Vincenzo Mancini, tra i documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. 47 e f. 51) che gli procurò, inevitabilmente, come capo d’imputazione, «la generica del brigantaggio in conventicola» anche perché, «oltre essere confesso», non aveva avuto difficoltà ad ammettere di aver fatto parte delle bande di Fuoco e Guerra.
Il processo viene celebrato a Frosinone, nell’«Aula Municipale», giovedì 14 giugno 1866 dalla «Commissione mista pei giudizi relativi al Brigantaggio nelle province di Velletri e Frosinone, in quest’ultima città residente» la quale, «premesse le dovute preci all’Altissimo» e compiute le previste formalità, facendo riferimento al cosiddetto «Editto Pericoli» condanna, infine, Vincenzo Mancini alla pena tutt’altro che lieve di venti anni di detenzione nonché «alla rifusione delle spese a favore del Governo».
© Costantino Jadecola, 2004.