LI CHIAMAVANO BRIGANTI / DUE MANUTENGOLI PER UN ‘SOLISTA’
Boville Ernica. Porta San Nicola in una immagine d’epoca.
La mattina del 27 febbraio 1866, il possidente Raffaele Crescenzi, che da Bauco, l’odierna Boville Ernica, doveva recarsi al suo casino di campagna, «prese a compagnia ed a tutela insieme di se stesso, il suo fratello Modesto, e Pietro Campoli guardiano, muniti tutti di armi da fuoco. Non fu inutile la precauzione, poiché imbattutisi col giovine pastore Carmine De Veronica, garzone di tal Domenico Jori, fu loro da esso annunciato che nella prossima capanna di Giovanni De Veronica eranvi un forastiero creduto brigante, il quale nella notte precedente era stato nell’altra dello Jori anzidetto».
Alla luce di questa informazione, Raffaele Crescenzi, che, date le circostanze, aveva fatto armare anche il suo garzone Domenico De Veronica, insieme al fratello Modesto e al guardiano, si avvicinarono alla porta della capanna. Mentre «sospingendola procurarono di renderla aperta» si sentì una voce dal suo interno che pronunciava queste parole: «Addietro, io sono un Brigante!»
Incuranti della minaccia ed aperta la porta tenendo i fucili spianati, Crescenzi e gli altri che erano con lui, «ad un incognito che impugnava una pistola, gl’intimarono di arrendersi. Colui obbedì, e depositata la pistola e un lungo coltello su di un giaciglio, pregò gli armati affinché lo lasciassero andare libero, offrendo il danaro che diceva avere e promettendo anche una somma maggiore in appresso.»
Ovviamente non si tenne conto di queste sue implorazioni ed il brigante, tale per sua stessa ammissione, peraltro ribadita, venne «posto agli arresti.» Disse, quindi, di chiamarsi Rosario Annarolo e di essere figlio «del vivo Pancrazio», 28 anni, «nativo di Vardina, distretto di Messina, scapolo, contadino possidente.» Perquisito, fu trovato in possesso, oltre della pistola carica e del coltello con molla a scrocchi, anche di 40 scudi in argento.
A questo punto non restava che tradurlo a Bauco. E proprio mentre ciò accadeva, alla «comitiva» si unì quel Domenico Jori che nella notte precedente aveva dato ospitalità al brigante e che, proprio per questo suo atto di «generosità», era ben consapevole di rischiare anche lui grosso. Unendosi alla «comitiva», invece, poteva dare ad intendere «di aver cooperato al di lui fermo, onde così coprire la propria responsabilità per il datogli ricetto.» E infatti, «tale dichiarazione ripeteva alla Forza, cui fu consegnato il brigante, ma inconsideratamente, perché la Forza consegnava alle carceri e il brigante e il ricettatore.»
Avviata la causa sia per l’uno che per l’altro, «il giudicante Consesso appurò, per quanto riguarda Rosario Annarolo (…), che la qualità in esso di Brigante venne esuberantemente stabilita dall’essersi provato che esso nei primi mesi dell’anno 1865 sortito che fu dalle Carceri di Ceprano, ov’era stato detenuto, andasse a far parte della banda guidata da Giovanni Capri (che per tal titolo fu condannato dal Tribunale Ordinario di Frosinone all’ultimo supplizio) dal qual Capri fu armato di fucile ed essendo quindi nata questione fra l’inquisito ed il Capri, quegli esplodesse contro di questi l’arma da fuoco, ed il Capri legatolo ad un albero, facesse avvertire la Forza onde lo avesse arrestato conforme avvenne e condannato quindi in via di Polizia fu rinnovato al medesimo il precetto di esilio. Ma posto in non cale in rinnovato precetto e nuovamente armatosi si dette a menare vita girovaga, visitando giornalmente le molte capanne del territorio Alatrino, ove riceveva forzoso vitto e ricovero favorito in ciò», come vedremo, «anche da tale Arcangelo Ceci, il quale per titolo di complicità nel Brigantaggio dell’Annarolo fu condannato a condegna pena.»
A carico di Annarolo, come si legge nei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. n. 48 e n. 49), c’era, inoltre, da mettere in conto un ricatto a danno di Candido Frasca, col quale era stato in precedenza a garzone, «ricatto che ebbe l’effetto di estorsione di danaro, e che rimase appieno stabilito per deposto di più testimoni, e specialmente per le deposizioni dei componenti la famiglia del ricattato, i quali si portarono sul luogo, ove era stato tradotto il ricattato Frasca, e ben conobbero che il delinquente era appunto Rosario Annarolo, già stato al servizio dello stesso Frasca.»
La prova testimoniale del ricatto è, del resto, costituita dalla somma di denaro in possesso dello stesso Annarolo, somma «congruente nella qualità e quantità a quella estorta al ricattato Frasca, pochi giorni prima del di lui arresto» e della quale, peraltro, l’inquisito stesso non seppe «rendere plausibile ragione.» Quanto al resto, Annarolo naturalmente nega ogni addebito sostenendo che sia la pistola che il coltello di cui fu trovato in possesso al momento dell’arresto non erano «di sua pertinenza», cercando, anzi, di «far credere che lo Jori a sua insaputa glie le avesse poste in dosso.»
Le deposizioni testimoniali, però, sono talmente chiare e concordi «da non porre in dubbio» che quelle armi appartenessero proprio a lui; né s’ignora, d’altro canto, il motivo per il quale Annarolo non fosse munito anche di fucile: dagli atti, infatti, «emerse che allorquando il ricattato Candido Frasca si avvide che oltre ai danari, mostrava l’Annarolo tendenza a cose turpi con sua figlia, che insieme ai fratelli erasi recata a portare il denaro all’Annarolo in montagna onde riscattare il Padre, il Frasca fattoglisi sopra lo aveva disarmato della carabina , e l’Annarolo erasi dato alla fuga.»
Quanto, invece, all’«assistenza» data ad Annarolo da Domenico Jori, sebbene questi volesse dare ad intendere che lo aveva ospitato per poi denunciarlo alla giustizia, i suoi atti, però, non corrispondevano alla giustificazione «giacché se tale fosse stato il suo intendimento, anziché far passare dalla sua alla capanna del De Veronica l’Annarolo, lo avrebbe dovuto nella sua trattenere, e recatosi a Veroli, come egli stesso confessa, lo avrebbe denunciato a quelle Autorità giudiziarie e militari, e sarebbesi esso stesso fatto guida per l’arresto del brigante.»
Ma Jori fece tutt’altro. Ovvero s’impegnò a nasconderlo in una capanna meno sospetta della sua e, andato a Veroli, si guardò bene dal denunciare la dimora del brigante che ospitava. Si ha quindi motivo di ritenere che Jori «non avesse pensiero di rendere un servigio alla giustizia, ma che invece desse spontaneo ricetto al brigante, e lo favorisse, contravvenendo cosi anche alla relativa vigente Legge, convinzione che acquista forza dalle pessime qualità dello Jori il quale subì otto inquisizioni, e fu anche condannato per ferite, ingiurie reali, ed esibizioni.»
Qualche tempo prima, intanto, era accaduto che Arcangelo Ceci, «del fu Gervasio», 65 anni, contadino nativo di Alatri coniugato con tre figli, solito «nella sua provetta età campare la vita con la scarsa industria di legnaiuolo», proprio per esplicare tale attività era solito portarsi ogni giorno sulle vicine montagne a far legna, legna che poi rivendeva ai suoi concittadini. E proprio su quelle montagne ebbe occasione di imbattersi in Annarolo con il quale, dopo l’iniziale conoscenza, si stabilì una relazione che aumentava «di giorno in giorno per modo che vedevansi bene spesso uniti discendere dalla montagna, prender cibo insieme, e conversare lunghe ore.»
Annarolo si era reso «assai cognito nel territorio Alatrino» inizialmente «per la sua primitiva dimora» nel territorio stesso «nella onesta condizione di garzone del contadino Candido Frasca»; poi, dopo essersi dato al brigantaggio «isolato», sia per le «sue girovagazioni nelle prossime montagne» che per le frequenti visite che era solito fare alle case ed alle capanne dei contadini ove «fruiva» di vitto e di alloggio tanto che se «fossero stati esaminati gli abitanti tutti di quelle campagne, forse niuno e ben pochi avrebbero deposto di non conoscerlo.»
Insomma che fosse un brigante non c’erano dubbi come «del pari indubitato avevasi l’altro estremo dell’aderenza generica del Ceci al brigante medesimo» per via di quella relazione mantenuta fino all’arresto dello stesso Ceci, avvenuta alla vigilia di Natale del 1865 ed acclarata da ben cinque testimoni.
Il primo riferisce che Ceci «andava insieme al brigante Annarolo anche sulla montagna dove si portava a fare fa legna; veniva a casa… ci parlava con tutta indifferenza e si capiva che erano in piena relazione ed amicizia fra loro… Una sera verso l’Avemaria il Ceci venne in mia casa, e voleva quindici paoli, dicendomi che ce lo aveva mandato il detto brigante Rosario e che lo stava ad aspettare nella strada. Ciò successe dopo sortita la legge contro i briganti.» Appena dopo, «la moglie del deponente» conferma del tutto il racconto del marito precisando che «Ceci Arcangelo ed il brigante Rosario capitavano a casa nostra, alle volte insieme, alte volte uno dopo l’altro e così se ne andavano via uno dopo l’altro e talvolta insieme… Una sera Arcangelo Ceci… domandò in nome del brigante Rosario che lo stava aspettando, 15 paoli, al che mio marito rispose non averli.»
Il terzo testimone «ne istruisce» come «il Ceci ripromettesse a Lui e ad altro individuo di procurar loro l’arresto del brigante Annarolo assicurando che egli sapeva dove stava… che eragli amico… che lo teneva assicurato bene. Ma invece ci deluse ed ingannò apertissimamente; poiché il Ceci dopo avere ottenuto da mangiare e da bere, e dopo prese le mosse per tentare 1’arresto del brigante, giunti a mezzo la via conducente alla montagna si finse ubriaco, si gettò a terra, ne volle muoversi ad alcun patto, ne proseguire la via, tuttoché i deponenti aspettassero per lo spazio di due ore.»
Tutte circostanze confermate dalle dichiarazioni del quarto testimone, il quale aggiunge «eziandio, avergli il Ceci confidato che esso aveva portato all’Annarolo da mangiare, da fumare, e lo provvedeva del tutto.»
Il quinto testimone, infine, «che è conteste ai due precedenti» riferisce che Ceci andava alla ricerca «dei capsul, ma non dei comuni, bensì di quei ad uso di fucile alla militare, e che alla richiesta dell’inquisito, gliene dette alcuni, nulla pel momento sospettando a che dovessero servire; ma di poi in uno cogli altri due riferenti sospettò che quei capsul dovevano essere stati richiesti per commissione del brigante Annarolo, che andava armato di una carabina alla militare.» Alle dichiarazioni dei testimoni si aggiunge, poi, la confessione dello stesso Ceci il quale, «sebbene abbia egli negato gratuitamente i fatti delittuosi deposti dai testimoni, tuttavia fin dal primo suo esame non esitò di manifestare che egli ‘vedeva spesso Rosario Annarolo per la montagna’ e vedere un brigante spesso, nel linguaggio del Ceci significa ben altro che vederlo semplicemente, ma vuol dire ancora avvicinarlo, averci relazione.»
Sia il processo a carico di Rosario Annarolo che quello a carico dei suoi «aderenti» Arcangelo Ceci e Domenico Jori vengono celebrati a Frosinone, nell’«Aula Municipale», mercoledì 6 giugno 1866 dalla «Commissione mista pei giudizi relativi al Brigantaggio nelle province di Velletri e Frosinone», (Costantino Dupaquier ff. di presidente, avv. Alessandro Alessandrini, avv. Vincenzo Ingami, avv. Filippo Marsiliani, capitano Gaetano Chelli, cap. cav. Massimo Pocobelli, giudici, avv. Agapito Rossetti, procuratore fiscale, e il cancelliere militare E. Giaré).
A Rosario Annarolo, difeso da Filippo Dori ed Andrea Simeoni, riconosciuto colpevole «di brigantaggio armato con ricatto ed estorsione di scudi cinquanta a danno di Candido Frasca», la commissione, tranne un giudice, che vota contro, applica l’articolo 5 della legge ‘Edittale’ del 7 dicembre 1865, (editto Pericoli)», e l’articolo 354 del regolamento penale ed il brigante viene così condannato al carcere a vita ed al pagamento dei danni verso il ricattato.
Per Arcangelo Ceci e per Domenico Jori, difesi da Pietro Fortuna, invece, si fa riferimento all’articolo 6 sempre della richiamata legge «Edittale». Ne consegue che ognuno venga condannato a 10 anni di galera ed al pagamento delle spese.
© Costantino Jadecola, 2004.
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«VENT’ANNI DI GALERA PER CINQUE GIORNI DA ‘BRIGANTE’»
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