LI CHIAMAVANO BRIGANTI / OSPITALITÀ A CARO PREZZO
L’arrivo a Frosinone di nove briganti catturati presso Veroli nella notte tra il 24 e il 25 gennaio 1865 dopo uno scontro con i soldati francesi (Da L’Emporio Pittoresco. Milano. Anno II, numero 23. 4–11 febbraio 1865).
Pietro Paniccia fu Giovanni, 50 anni, nato e domiciliato in Santa Francesca di Veroli, il giorno che lo arrestarono, il 15 gennaio 1866, non ebbe difficoltà ad ammettere che l’estate precedente, trovandosi nella capanna di sua proprietà «alla montagna Calcaterra», sempre in territorio di Veroli, un certo giorno ebbe la visita dei briganti Cipriani e Domenichetto i quali si presentarono «colle loro bande forti di circa venti uomini l’una, tutti armati» ed ottennero «comodo di cucinare, e di prendervi ricovero ogni qualvolta si portavano in detta montagna.»
Ma la disponibilità di Paniccia non si limitò a queste «concessioni». Infatti, come si legge nei documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. 50.) lui stesso confessò che nel successivo mese di dicembre «si condusse in S. Francesca onde provvedere per essi pane ed acqua»; inoltre, che «le medesime due bande accedettero in quella capanna fìn dopo il Santo Natale» e, in ultimo, “che in compenso dei prestati servizi aveva avuto gli avanzi del mangiare e baiocchi 50.»
Paniccia, poi, non ebbe difficoltà ad ammettere che, essendo «venuto a notizia della riferita repressiva legge (il cosiddetto “editto Pericoli» del 7 dicembre 1865, nda) e delle sue gravi pene a mezzo del Verolano Sig. Vincenzo Luzzi, il quale gli raccomandò a non compromettersi ma che, nondimeno, per timore di essere danneggiato e nei terreni e nella vita, aveva fatti fin dopo l’enunciata festività per altre due volte i comandi ai nominati briganti, ed aveva proseguito a dare uguale ricetto ai medesimi facendoli mangiare nella sua capanna anzidetta» nella quale era anche «acceduto (…) Pietro Liberatori tanto per portare viveri ai briganti, quanto per recapitare ai medesimi due lettere, che trattavano di una presentazione in carcere, dopo la pubblicazione della legge surriferita.»
Intanto, tra le pieghe della confessione si viene anche a sapere che il brigante Cipriani era stato a garzone dallo stesso Paniccia «per circa due anni, nel qual tempo, avendo acquistato due giumenti, industriavasi come caricatore ponendo guadagno in famiglia» ma che poi se ne allontanò per la vendita di quelle due bestie «fatta nella primavera del 1865 dalla moglie di Paniccia, Salome Pazienza fu Giovanni, 28 anni, mentre sia Pietro che Cipriani si trovavano «carcerati per fatto delle Milizie Francesi, quali sospetti manutengoli di brigantaggio.»
Tutto quanto Paniccia confessa trova puntuale riscontro «sia nei detti del nominato Pietro Liberatori, sostenuti dalla deposizione del Maresciallo di Gendarmeria Giovanni Spagnoli, sia nei detti di Agostino Martinelli guida della Forza per sorprendere i briganti a Calcaterra, sorretti dalle testimonianze del Tenente di Linea Locatelli, e del Vice-Brigadiere di Gendarmeria Calandrelli Antonio. Oltrediché vi concorreva il deposto Luzzi, come pure quanto era stato dedotto dal coinquisito Paniccia Ambrogio, di Giuseppe, 30 anni», nipote di Pietro, arrestato insieme a questi il 15 gennaio.
È giovedì 7 giugno 1866 quando, presso l’«Aula Municipale» di Frosinone, si riunisce la commissione mista «pei giudizi relativi al brigantaggio nelle provincie di Velletri e Frosinone», composta «degli Ill.mi ed Ecc.mi Signori Maggiore Comm. Costantino Dupaquier ff. di Pres., Avv. Alessandro Alessandroni, Avv. Vincenzo Ingami, Avv. Filippo Marsiliani, Capitano Gaetano Chelli di Linea, Cap. Cav. Massimo Pocobelli di Linea, giudici, coll’ intervento degli Ill.mi Signori Avv. Agapito Rossetti Procuratore Fiscale, Dott. Filippo Dori, Dott. Icilio Jacoucci ed Andrea Simeoni difensori e coll’assistenza del Cancelliere E. Giare.», per trattare la causa «di aderenza a briganti» contro Pietro e Ambrogio Paniccia e Salome Pazienza, quest’ultima arrestata il giorno dopo l’arresto del marito, il 16 gennaio 1866.
Esauriti i preliminari di rito, ovvero «premesse le dovute preci all’Altissimo», «identificate le persone dei prevenuti», «udita la relazione della causa esposta dal Sig. Avv. Alessandro Alessandroni» ed interpellati «reiteratamente» i «detti Inquisiti», il Procuratore Fiscale nelle sue conclusioni «invoca» per tutti e tre gli imputati «l’applicazione dell’articolo sesto della Legge Edittale 7 Dicembre 1865, che recita: «I manutengoli, fautori, chi ha dato spontaneo ricovero o somministrato armi o munizioni, danaro, viveri, vestiario e simili, o dato avviso della stazione e dei movimenti della Forza e chiunque volontariamente sia di per se, sia con altro mezzo abbia in qualsivoglia modo favorito i briganti sono ritenuti come complici, e come tali puniti secondo le risultanze degli atti con uno o due gradi minori della pena indicata negli art. 4 e 5.»
E’, quindi, la volta delle «verbali deduzioni dei Sigg. difensori Dott. Jacoucci per Ambrogio Paniccia, Dott. Dori per Salome Pazienza, e Simeoni per Pietro Paniccia», al termine delle quali la commissione «dichiara constare in genere di aderenza al brigantaggio, ed esserne in specie colpevole come complice per favore e ricetto spontaneo dato a briganti armati il prevenuto Pietro Paniccia e non abbastanza colpevole la coinquisita Pazienza Salome, della quale perciò ordina la provvisoria dimissione dal carcere a senso dell’articolo quattrocento quarantasei del Regolamento di Procedura Criminale»; quanto ad Ambrogio Paniccia, si dispone che sia «trattenuto in carcere per un mese a senso e per gli effetti dell’articolo quattrocento quarantasette dello stesso Regolamento.»
Quindi, «in applicazione poi dell’articolo sesto della Legge Edittale 7 Decembre 1865», il quale recita che “i manutengoli, fautori, chi ha dato spontaneo ricovero o somministrato armi o munizioni, danaro, viveri, vestiario e simili, o dato avviso della stazione e dei movimenti della Forza e chiunque volontariamente sia di per se, sia con altro mezzo abbia in qualsivoglia modo favorito i briganti sono ritenuti come complici, e come tali puniti secondo le risultanze degli atti con uno o due gradi minori della pena indicata negli art. 4 e 5.» condanna Pietro Paniccia «alla galera per anni dieci ed alle spese a favore del Governo da liquidarsi a forma di legge.»
Viene rilasciato, invece, Giuseppe Paniccia, padre di Ambrogio, che era stato anche lui coinvolto nella vicenda.
© Costantino Jadecola, 2004.