LI CHIAMAVANO BRIGANTI / L’AFFARE DAGUANNO
Villa Santa Lucia ‘vista da Montecassino’ nell’acquerello di un anonimo artista che lo realizzò nel 1878 (Collezione Giovanni Pretola, g.c., tratta dal libro di Costantino Jadecola I giorni della Hitler).
Il 21 giugno 1864 una banda di briganti rapisce, a scopo di ricatto, Mariano Daguanno di Villa di San Germano, l’odierna Villa Santa Lucia, nel «regno di Napoli», e lo porta con sé in località Monticelle di Castro, in «territorio Pontificio», facendo sapere appena dopo ai familiari dell’ostaggio che avrebbero dovuto sborsare qualcosa come 30.000 ducati se volevano evitargli una brutta fine. Dai documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia. B. 72, f. n. 68) si apprende che si incaricarono di fare da intermediari Giacinto Federici di San Giovanni Incarico e Giuseppe Jorio di Pico, ma residente a Ceprano, i quali assicurarono la famiglia Daguanno che con i 450 ducati che essa aveva consegnato loro avrebbero ottenuto la liberazione di Mariano. Cosa che, però, non avvenne anche perché i due si limitarono a dare ai briganti appena «quaranta Napoleoni d’oro, ritenendosi il resto per loro.»
I briganti, che naturalmente ignoravano di essere stati gabbati da Federici e da Jorio, considerarono non consona la somma ricevuta ed anche per far sapere alla controparte che non scherzavano affatto e che quello che chiedevano era ciò che volevano, tramite i due intermediari mandarono alla famiglia Daguanno «un pezzo di una orecchia che barbaramente recidevano all’infelice ricattato, con minaccia che se fra giorni non avesse loro rimessi i denari, [lo] avrebbero ucciso.»
I Daguanno raccolsero quanto fu possibile loro racimolare, una somma cioè, che unita a quella già sborsata, raggiungeva i 1.100 ducati. Stavolta, però, a fare da intermediari furono uno zio del sequestrato, Libero Simeoni, e certo Gio: Battista Valerj la cui azione, infine, fu coronata da successo: i briganti si accontentarono dell’offerta, e ben «conoscendo l’impossibilità di estorcere altre somme dai parenti del ricattato, lo rilasciavano dopo averlo seco loro ritenuto per più di un mese.»
Appena liberato, Mariano Daguanno tornò nella sua casa di Villa di San Germano senza sporgere denuncia su quanto gli era capitato né alle autorità dello Stato pontificio né a quelle del suo paese. Né altri si curarono di farlo cosicché l’evento delittuoso di cui era stato vittima rischiò di rimanere «ignoto alla giustizia.» Anzi, tale rimase per circa due anni, fino a quando, cioè, l’11 febbraio 1866, al comando militare di Ceprano non giunse notizia che tale Agostino Di Nallo, «regnicolo, ma domiciliato da vari anni nel territorio di Castro [dei Volsci] fosse stato uno di quelli che apparteneva alla Banda di Ciccio Guerra, Cedrone e Carbone, che ricattò nella Villa di S. Germano, e trasportò nelle Monticelle di Castro Mariano Daguanno, e che anzi lo stesso Di Nallo fosse stato quello che tagliò, e recise il pezzo di orecchio all’infelice ricattato.»Insomma, ce n’era a sufficienza per porre agli arresti Agostino Di Nallo che venne quindi rinchiuso nelle carceri di Ceprano.
Della vicenda, il «Governo di Vallecorsa», competente per territorio, informa il Delegato apostolico di Frosinone il quale, a sua volta, rimette la documentazione ricevuta al «Tribunale della Commissione Mista»che, però, dichiara subito la propria incompetenza essendo il delitto avvenuto prima della «Legge Edittale 7 Dicembre 1865», ovvero il cosiddetto «editto Pericoli», rinviando gli atti a Vallecorsa per la «prosecuzione ed ultimazione»delle indagini da parte di quel governo.
Si viene allora a sapere che la banda che aveva operato il sequestro Daguanno sarebbe stata composta da Giuseppe Carbone, «primo Capo della Banda»ma che ora «trovasi condannato in Francia», Francesco Cedroni, o Cedrone, «secondo Capo contumace», Francesco Guerra, «comunemente chiamato Ciccio Guerra, terzo Capo contumace», Antonino Renzi, anche lui «condannato in Francia», Luigi Andreozzi, «ora Capo di altra Banda contumace», Tommaso Andreozzi, fratello di Luigi e anche lui «ora Capo di altra Banda contumace», Giuseppe Coriconi, «di Arce condannato e trovasi in Francia», Bernardo Conti, «defunto», Giovanni Di Nallo, «contumace», Domenico Di Mola, «contumace», Pasquale Monchi «contumace», «N. N. detto il Medichetto, già fucilato a Frosinone», Vincenzo Graziani, «fucilato dai Francesi», Silvestro Renzi, «defunto», Agostino Di Nallo, «carcerato», Antonio Carnevali,«carcerato», Francesco Pasquale «alias Cecillo, carcerato», Raffaele Gagliardi, «carcerato»e «N. detto Cerullo, ‘ucciso’.»
Dunque, due anni dopo il sequestro, dei 19 componenti la banda che operò il rapimento di Mariano Daguanno, cinque sono passati a miglior vita, tre sono ospiti delle galere francesi e sette contumaci cosicché a disposizione degli inquirenti non restano che i quattro rinchiusi nelle carceri pontificie i quali, inevitabilmente, vengono messi sotto torchio.
Si tratta di Antonio Carnevali, detto Menichella, del fu Giuseppe, 34 anni, nativo di Pico ma domiciliato a Castro, ammogliato con prole, di professione carrettiere, arrestato li 26 agosto 1866. Inizialmente confessa di aver fatto parte delle bande reazionarie fino al 1862 ma dopo qualche giorno ritrattò quanto aveva in precedenza negato e, in merito al sequestro di Mariano Daguanno, confessa di aver saputo che esso«era stato fatto ad istigazione dei fratelli Agostino, e Giovanni Di Nallo» che avevano «dipinta la famiglia del ricattato come danarosa.»
L’altro imputato, Francesco Pasquali, alias Cecillo, 24 anni, originario di Policastrelli, in provincia di Cosenza, e domiciliato a Castro, trafficante, arrestato «per altri titoli» l’8 dicembre 1865, confessa di «essere partito dal suo paese fin dal 1862 e obbligato a prendere servizio nelle truppe piemontesi, disertò nel mese di Giugno di quell’anno da Cuneo. Si unì quindi al generale Tristany che venne a fare la reazione nel regno di Napoli per Francesco II e stette col suddetto tre o quattro mesi, e un giorno fu arrestato dai francesi a Falvaterra. Allora fu tradotto nel Novembre o Decembre, al Forte S. Angelo, da dove uscì nell’Agosto o Settembre del successivo anno 1863.» Da allora, sostiene Cecillo, non avrebbe fatto più parte di alcuna banda, «e che anzi si stabilì in Castro in casa della sua innamorata Luisetta Sebastianelli da cui era (…) mantenuto di vitto gratuitamente.» Quest’ultima dichiarazione verrà però ritrattata — infatti, «interpellato il Sig. Priore di Castro se la famiglia di Luisetta Sebastianelli possieda beni di fortuna, e fosse in grado di mantenere gratuitamente di vitto l’I[nquisito], si ebbe riscontro negativo in tutto» — e l’inquisito affermerà che durante «la sua dimora» a Castro si mantenne con mezzi propri o, meglio, «con danaro trovato indosso ad un ufficiale morto nella battaglia di Milazzo.»
Pasquali negò, quindi, «di essere andato armato, e di aver commesso delitti» ma più di un testimone è convinto che sia un affiliato alle bande Carbone, Cedrone e Ciccio Guerra aggiungendo che generalmente andava in giro armato. Vincenzo Lauretti, in particolare, lo vide nella macchia di Pofi «allorché conducevano un giovane regnicolo ricattato all’epoca dell’avvenuto delitto».
Raffaele Gagliardi,27 anni, coniugato, nato a Capua e domiciliato a Ceprano, «degente» nelle carceri di Frosinone fin dal 12 marzo 1866, racconta, invece, «di essere fuggito dal Regno, perché perseguitato dai piemontesi dalle cui truppe aveva disertato (…) e che introdottosi nello Stato Pontificio si fermò in Ceprano ove esercitava il mestiere di muratore; che in seguito venne dallo Stato Pontificio esiliato, ma che rientrò subito, trasgredendo al precetto, perché aveva lasciato in Ceprano la propria moglie, e che si buttò fuggiasco per le case, e capanne di quel contado per timore di essere arrestato.»Nega recisamente, però, di aver fatto parte di bande armate, di aver mai conosciuto non solo Carbone, Cedrone, Ciccio Guerra e Francesco Pasquali ma anche altri briganti, di aver commesso delitti e di conoscere Mariano Daguanno mentre, quanto ai coinquisiti Di Nallo e Carnevali, ne ammette la conoscenza avvenuta, però, solo da poco tempo «per essere stati assieme nella segreta N. 2 delle carceri di Frosinone.»
In realtà, era stato lui stesso a raccontare agli amici i particolari del sequestro ed il riscatto richiesto ma si e era anche venuto a sapere che proprio Gagliardi era stato uno dei più violenti nei confronti di Daguanno.
Agostino di Nallo, infine. 27 anni, coniugato, nativo di Piedimonte di San Germano, ma domiciliato a Castro, campagnolo, arrestato li 9 febbraio 1866, dichiara di essere venuto nello Stato Pontificio, «perché disertò dalle truppe Piemontesi» negando, però, «di aver appartenuto a Bande Brigantesche, e di non conoscere alcun Brigante, ma solamente di aver inteso nominare da Catterina Caracci i Briganti Carboni, Cedroni, e Ciccio Guerra.» Nega, poi, «di essere andato armato nello stato Pontificio» ed afferma di non essere «più rientrato in Regno da che si è rifugiato nello Stato Pontificio — in realtà avrebbe ottenuto «la carta di soggiorno li 24 Agosto 1864», cioè in epoca posteriore al delitto — sostenendo di essersi messo subito a garzone con Vincenzo detto Intinto, col quale dimorò per circa un anno e cioè dal mese di Febbraro fino dopo il raccolto del granturco, senza però indicare in quale anno.» In seguito andò «a lavorare i terreni con Francesco Antonio Trochei, e dopo essersi intrattenuto con questi per due anni sposò la di lui figlia Anna.» Di Mariano Daguanno di Villa S. Germano, luogo, peraltro, prossimo a Piedimonte, sua patria, Di Nallo dice di non averne mai sentito parlare come pure di non sapere nulla del sequestro dichiarando poi «di non essere mai stato a garzone con una Famiglia di tal cognome.»
Poi, però, a seguito di alcune contestazioni, Di Nallo si contraddice, affermando di essere andato a lavorare da Trochei non due anni ma appena «sei o sette mesi prima del suo matrimonio» e quindi ammette «di essere acceduto» nelle capanne dei «dei testimonj Pietro Paolo Solli, Catterina Carracci, Biagio, ed Angelica Martini, ed altri di famiglia» anche prima di sposare la Trochei, circostanze che in precedenza aveva negato. Infine, alcune ammissioni: la conoscenza di Libero Simeoni di Villa S. Germano, ora domiciliato a Ceprano; quella «dei Conquisiti Carnevali, Pasquali e Gagliardi» con la precisazione «di aver conosciuti i primi antecedentemente al di lui arresto, ma in quanto al Gagliardi averlo conosciuto in carcere» e, circa la loro attività,«di avere pubblicamente inteso dire che i detti soggetti facevano i Briganti.» Sulla appartenenza di Agostino Di Nallo alle bande di Ciccio Guerra e Cedroni e nel ruolo avuto nel sequestro Daguanno non v’è ombra di dubbio. Tra gli altri, lo confermano nelle loro testimonianze Biagio e Angelica Martini, «Catterina»Caracci, Vincenzo Lauretti e Giuseppe Campagna Libero, Giovanna Martini, Gaetano Perfili, Francesco Renzi, Giuseppe, Luigi e Pietro Cerroni e Vincenzo De Sanctis alcuni dei quali lo danno anche come associato alla banda Carbone.
Insomma, sull’appartenenza di Agostino Di Nallo a bande brigantesche così come nel ruolo avuto nel sequestro Daguanno non v’è ombra di dubbio. Libero Simeoni, zio del ricattato ne è convinto. Afferma, peraltro, che Di Nallo ben conosceva la famiglia Daguanno per esservi stato a garzone.
Ce n’è ben donde, dunque, per attribuire a lui e ad Antonio Carnevali, Francesco Pasquali e Raffaele Gagliardi la responsabilità del sequestro di Mariano Daguanno. Purtroppo, però, circa la conclusione delle indagini e, dunque, del processo non si ha traccia. Non si esclude, però, che nel 1868 Agostino Di Nallo fosse ancora in carcere, come farebbe supporre una «supplica della moglie di Antonio Carnevali (…) per ottenere la scarcerazione del marito» (A. S. F., Delegazione Apostolica. Direzione di polizia. Malviventi e briganti. Tit. 2 — Art. 5 F.301.713). Ovvero, essendo stato riconosciuto autore del taglio dell’orecchio di Daguanno, che nei suoi confronti non sia stato preso un provvedimento ancora più duro, quale il carcere a vita.
© Costantino Jadecola, 2004.