LI CHIAMAVANO BRIGANTI / IL BRIGANTAGGIO POSTUNITARIO NELLA VALLE DEL LIRI
1865: c’era gran confusione a quel tempo nei territori di confine fra Stato pontificio e Regno d’Italia, specialmente in quella parte di esso che dal versante tirrenico raggiungeva la media ed alta valle del Liri. Terra di confine praticamente da sempre, tanto che questa frontiera godeva del privilegio di essere la più longeva d’Europa, aveva visto nascere, crescere, e morire, spesso in giovane età, intere generazioni di briganti.
Insomma, era come se si avvertisse una sensazione da principio della fine. Della fine di tutto ciò che era accaduto da quando, appena dopo l’unificazione, scrive Fanco Molfese (Storia del brigantaggio dopo l’Unità. Feltrinelli. Milano, 1979), questa terra di confine «era stata rappresentata dalla propaganda politica legittimistica e clericale (e in parte era realmente) come il riparo del brigantaggio che avrebbe imperversato nelle sole province dell’ex-Regno». Opinione non condivisa, però, dalla propaganda liberale che, sempre secondo lo stesso autore, vedeva, invece, in essa «il riparo dietro al quale si organizzava il brigantaggio meridionale», brigantaggio dal quale fu poi sommersa finendo così col «costituire soltanto un intralcio per le operazioni delle forze repressive pontificie ed italiane, creando delicate situazioni politiche e dando luogo quindi a intese oltremodo significative fra i due poteri statali».
Era accaduto che, con la convenzione stipulata fra i governi italiano e francese firmata a Parigi il 15 settembre 1864, si era stabilito il progressivo ritiro dei soldati transalpini dallo Stato Pontificio da attuarsi nel giro di un paio di anni e dar modo così a quest’ultimo di costituire in quel lasso di tempo un proprio esercito. In cambio, da parte italiana si assicurava la non aggressione di Roma, il rispetto dell’integrità dello Stato Pontificio e l’accollo di parte del suo debito pubblico. Ma c’era anche l’obbligo per il governo del Papa di assicurare «tranquillità alla frontiera», ovvero l’impegno, scrive Molfese, per «impedire che il suo territorio diventasse o seguitasse ad essere una base di partenza per le bande brigantesche. Ma non era cosa agevole per il governo pontificio intraprendere di colpo una energica repressione del brigantaggio, quando le autorità periferiche avevano per anni trattato con mollezza o addirittura solidarizzato con i briganti».
Se nell’immediato, ovvero all’indomani della firma di quella che poi si chiamerà la “convenzione di settembre”, i francesi non solo non abbassarono la guardia ma anzi intensificarono la sorveglianza nella zona di confine, quando, però, verso il mese di ottobre del 1865 essi iniziarono ad evacuare il territorio, fu allora che il governo pontificio si trovò ormai costretto ad onorare in prima persona gli impegni presi.
Tra le altre iniziative cui si fece ricorso per attuare la repressione del brigantaggio ha un ruolo fondamentale il cosiddetto “editto Pericoli”, dal nome del delegato apostolico di Frosinone, monsignor Luigi Pericoli, che lo emanò il 7 dicembre 1865 avendo come linea guida le norme con le quali, alcuni decenni prima, tra il 1814 ed il 1825, sulla stessa frontiera pontificia si era trattato di combattere il brigantaggio del tempo.
L’editto, nonostante fosse molto severo tanto nei confronti dei briganti che dei loro fiancheggiatori — salvo che per quelli che prevedevano la pena capitale, i reati sarebbero stati giudicati con un procedimento sommario e senza appello da una commissione mista formata da tre magistrati e da tre militari di quelli aventi giurisdizione sul territorio delle province di Frosinone e di Velletri — all’articolo 9, però,offre agli interessati una via di scampo: «Ai Briganti che nello spazio di quindici giorni dalla data del presente Editto si costituissero spontaneamente nelle carceri del Governo, è garantita la salvezza della vita. Se prima della promulgazione della presente legge avessero commessi delitti non importanti pena capitale, sarà accordata ai medesimi la minorazione di uno a tre gradi. Se né prima di essersi dati al Brigantaggio, né dopo avessero commesso altro delitto, saranno rimessi al Magistrato di Polizia». Ma non furono molti, tra briganti e fiancheggiatori, ovvero manutengoli, quelli che approfittarono dell’occasione offerta loro dall’articolo 9; né, d’altro canto, la situazione migliorò a seguito dell’editto stesso.
Il brigantaggio era ormai del tutto privo delle “spinte ideologiche”, beninteso se tale può considerarsi il legittimismo che in qualche misura lo aveva “motivato” appena dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie da parte dei piemontesi, e si presentava ormai, secondo Molfese «come una manifestazione aperta di cronico malcontento di carattere esclusivamente economico e sociale degli strati contadini più poveri del Mezzogiorno continentale». Ma anche, e lo vedremo, come l’occasione per delinquere. E basta.
Questa era determinata dallo stato delle cose venuto a crearsi nei territorio più o meno prossimi alla frontiera e divenuto talmente insopportabile se nel marzo del 1866 il deputato di Arpino Giuseppe Polsinelli era stato costretto a denunciare alla Camera dei deputati la grave situazione in cui versava la zona di Sora, «affermando che nessuno poteva uscire tranquillo di casa, che per recarsi da un comune all’altro era necessaria una scorta e che proprietari e industriali non erano più in grado di sorvegliare o di visitare le proprie aziende».
Ad analoghe conclusioni si dovette giungere anche dall’altra parte della frontiera se mons. Pericoli si vide costretto ad inasprire le pene con un nuovo editto, emanato il 18 marzo 1867 nel quale, tra l’altro, si considerava “conventicola” la riunione anche di due so1i briganti, si offriva l’impunità a quelli di loro che avessero consegnato i compagni e si escludeva qualsiasi diminuzione di pena; si proibiva, poi, il trasporto di viveri, vestiario e munizioni fuori dei centri abitati e si infieriva in vario modo anche sui familiari dei briganti.
Tuttavia, «malgrado il fatto che questa volta l’editto fosse già stato preceduto da una repressione condotta in maniera notevolmente più energica», scrive Molfese, «si presentarono alla scadenza soltanto sette briganti, mentre vari capibanda per rappresaglia posero addirittura taglie di 100 piastre d’oro per la testa di un soldato pontificio e di 200 piastre per un ufficiale o per uno spione che venisse loro consegnato vivo o morto».
Contestualmente all’emanazione di questi editti, intanto, lo Stato Pontificio si attiva anche sotto l’aspetto militare. Il comando delle forze pontificie della zona di Frosinone viene affidato ad un patrizio anagnino, il conte Leopoldo Lauri, maggiore della gendarmeria, cui si deve, fra l’altro, l’arruolamento, come truppa sussidiaria, dei cosiddetti “squadriglieri”, volgarmente soprannominati “Zampitti”, che Molfese definisce «feroci ed abili montanari della Ciociaria»ma che altri ritennero addirittura briganti protetti dal governo pontificio.
Anche se Carlo Bartolini, un ufficiale dell’esercito pontificio autore di una sorta di memoriale sulle azioni contro il brigantaggio cui prese parte, Il brigantaggio alla frontiera pontificia(Roma, 1897), respinge questa «insinuazione»definendola «sciocca», d’altro canto, però, come giudicare certe affermazioni di Roma dei Romani organo del “Comitato nazionale romano”, fautore dell’annessione dello Stato Pontificio al giovane Regno d’Italia,che non ha perplessità alcuna nel parlare addirittura di connivenza?
Il periodico (N. 6. 25 “gennaro”1866) scrive, infatti, che «la banda Fuoco fu, or saranno tre mesi (la notizia data 9 novembre 1865, nda), dichiarata Banda Regia. I gendarmi hanno ordine di rispettarla; hanno ordine però di dare addosso a quelli briganti che separatisi dalla detta Banda vanno esercitando il loro onorevole mestiere per proprio conto. La banda capitanata da Giovannino, che nei scorsi giorni ha percorso i dintorni di Ripi e Bauco, estorcendo danari, sarà perseguitata. Però ieri Fuoco, radunati tutti gli uomini, lesse (ciò è positivo) un ordine del giorno (così lo definì) rimessogli dal Comando dei Gendarmi di Veroli. Il riassunto è ‘Persecuzione e distruzione dei veri briganti, di quelli cioè separati dalla Banda Regia. Un franco al giorno a chi servirà di ajuto ai Gendarmi. Pel pagamento garanzia di Fuoco!!! Chi vorrà abbandonare la vita brigantesca, sarà munito di carte ed andrà a lavorare. Le spie saran ben pagate. I manutengoli dei veri briganti saranno severamente puniti’. Dopo la lettura di questo foglio, vari briganti si divisero e presero la strada di Ceprano…», dove si ha motivo di ritenere esistesse una sorta di quartier generale clerical-brigantesco al cui vertice sarebbe stato un potente ecclesiastico locale.
Insomma, che lo Stato Pontificio si stia dando da fare per onorare gli impegni presi con la “convenzione di settembre”, è un dato di fatto che non sfugge agli occhi del governo italiano il quale, nel mese di novembre 1865, dirama «a tutte le autorità politiche e militari sul confine pontificio adeguate istruzioni tendenti ad istituire, sia pure ancora soltanto unilateralmente, un ‘modus vivendi’ nei confronti delle autorità e delle forze militari pontificie», al fine di «evitare ogni occasione di attriti o di conflitti», soprattutto in considerazione della tattica adottata dalle bande di manovrare a cavallo della frontiera. Una tattica che venne poi definitivamente scardinata con la convenzione stipulata a Cassino il 24 febbraio 1867 fra il maggiore Lauri e il maggiore generale Ludovico Fontana, comandante quella zona militare, in base alla quale si autorizzavano, o, meglio, si regolavano i reciproci sconfinamenti. Questi, infatti, non dovevano spingersi al di là delle creste dei monti e dei centri abitati; se poi si presentava la necessità di un loro prolungamento, occorreva inoltrarne formale richiesta, ma tutto ciò esclusivamente da parte delle sole forze militari regolari e, dunque, ad eccezione degli “squadriglieri”, la qualcosa, evidentemente, la dice lunga sulla loro legittimità.
«La stipulazione della convenzione di Cassino, che capovolgeva addirittura il carattere dei rapporti politici e militari fino allora vigenti sulla frontiera, e l’osservanza di essa, mantenuta anche quando la crisi di Mentana dello stesso anno (1867) tese nuovamente i rapporti fra lo Stato italiano e quello pontificio, dimostrano chiaramente», secondo Molfese, «quanto tormentoso fosse il brigantaggio per ambedue i governi e come da essi venisse considerato potenzialmente pericoloso».
Sta di fatto che fra il 1867 ed il 1870 specialmente i pontifici ebbero ancora molto filo da torcere. Poi, poco prima del 20 settembre 1870, il ministero delle Armi Pontificie poteva finalmente proclamare, nel contesto di un resoconto su ciò che era accaduto tra il 1865 ed il 1869, che il brigantaggio era stato sradicato.
Ma a quali costi? Al di là di una ventina di combattimenti, senza considerare quelli di minor conto, «la somma delle perdite patite dalle milizie in questa lunga campagna, non computando i morti a cagione di malattie contratte per gli strapazzi e pel morboso aere delle paludi”, scrive padre Raffaele Ballerini (Il brigantaggio distrutto negli Stati Pontificii. In La Civiltà Cattolica, Serie VII, volume X, 6 giugno 1870), «è di 42 uccisi e 23 feriti, in tutto 65: de’quali il corpo sì benemerito della gendarmeria numera 34, fra soldati comuni e sott’ufficiali; cioè 26 uccisi e 8 feriti; il reggimento di linea 10, compresovi il capitano Giuseppe Sgambella che vi perdé la vita; i carabinieri esteri 12; gli squadriglieri 5; i zuavi 2 e i cacciatori indigeni 2».
Gli stessi documenti forniscono inoltre «lo stato nominativo dei briganti indigeni e stranieri, caduti in potere della giustizia e rimessi ai tribunali, dal Novembre 1865 a tutto il Novembre 1869. Questi sono 447, di cui 240 indigeni delle province rimaste alla Santa Sede, 200 forestieri a queste province e 7 di patria incerta. Tutti questi forestieri sono nativi del napolitano, eccetto 5 appartenenti alle province usurpate, 1 piemontese ed 1 francese.
«Gli arrestati montano a 261; gli uccisi nei fatti d’armi a 48; i costituitisi volontariamente a 138. Dei venuti in mano all’autorità, 17 sono stati giustiziati colla fucilazione alle spalle; 54 condannati alla galera perpetua; 29 alla galera temporanea; 68 a pene minori; 3 sono morti nelle carceri. Verso 191, per diversi titoli, si sono sospesi gli atti; 35 si sono passati alla polizia; 2 trattenuti in carcere per via di esperimento.
«Dei manutengoli e aderenti al brigantaggio, 409 sono stati arrestati; 2 si sono costituiti. Fra costoro 1 è stato ucciso per tentata fuga; 50 sono stati condannati alla galera temporanea; 174, per varie ragioni, dimessi; 185 passati a disposizione della polizia; 2 al tribunale della sacra Consulta. Per lo che, durante questa lunga e vigorosa campagna, 808 briganti o fautori di briganti son capitati, vivi o morti, in balia della giustizia; oltre i non pochi i quali, mortalmente feriti al lembo della frontiera e trafugati nottetempo, sono iti a spirare nel territorio assoggettato al regno d’Italia.
«I dispendii straordinarii che il Governo del Santo Padre ha dovuto sopportare, nella condotta di questa impresa, salgono alle cifre seguenti. Per premii, onde si è rimunerato l’arresto o l’uccisione dei briganti negli scontri colle milizie, Lire 189.006: 46. Per soprassoldi alle truppe, soldi e soprassoldi agli ausiliarii di riserva, ragguagliatamene Lire 1.374.204: 47.
«Il che dà la cifra totale di Lire 1.563.210: 93». Qualcosa come nove miliardi di vecchie lire.
Come si è in qualche modo capito, anche in questa circostanza il nostro territorio diede il proprio ‘contributo’ in termini di uomini alla ‘causa del brigantaggio’. Si fa per dire, beninteso. Perché, in effetti, sembra proprio che si sia al cospetto di delinquenti belli e buoni, insomma gente dedita alla malavita, talvolta solo occasionalmente e, forse, anche per mera necessità di sopravvivenza.
Ma li chiamavano briganti e come tali furono perseguiti.
© Costantino Jadecola, 2003.