LA CIVILTA’ DELLA PIETRA
Macere sui monti di Esperia
L’interesse, generalmente da parte di quello che un tempo si era soliti definire “gentil sesso”, è tutto per le pietre cosiddette preziose. Ma non meno preziose di queste, sia pure per altri aspetti, sia pure per altri motivi — aspetti e motivi forse molto più importanti perché finalizzati non ad esaltare la bellezza di una donna (ovvero, a fare da specchietto per gli “allodoli”) ma il cammino stesso dell’uomo e della civiltà — sono quelle nostre pietre apparentemente rudi nel loro aspetto originario ma cariche di storie e di storia soprattutto da quando l’uomo, sottraendole all’eterna conformazione di una collina o di una montagna, le ha utilizzate o dando loro una forma o addirittura così come esse erano.
Sovviene, in tal caso, il ricordo delle macere. E, con esse, tutta una storia legata alla pastorizia, all’agricoltura, allo sfruttamento di lembi di terra per sopravvivere. Insomma, l’esaltazione della pietra a beneficio di necessità impellenti e prioritarie attraverso opere che non è errato definire monumentali e la cui grandezza ancor oggi, nonostante tutto, risulta saldamente ancorata al territorio ma il cui valore, il cui significato, la cui esistenza, che pur dovremmo onorare in memoria di chi ci ha trasmesso il testimone per consentirci di essere ciò che siamo, non beneficia della benché minima e pur dovuta attenzione (e riconoscenza).
E, allora, ricordiamoli questi artigiani. Questi maceranti. Del resto le loro opere, che ci auguriamo immortali anche se le minacce sono sempre incombenti in questa società che ha fatto dell’autodistruzione una ragione di morte (cui sembra decisamente votata), le loro opere, si diceva, a parte queste scarne considerazioni, beneficiano, ad esempio, di quelle di Alberto Moravia che a un certo punto della sua “Ciociara” fa dire a Cesira, la Ciociara appunto, questa frase:
- Che tavolata! Me ne ricorderò finché campo, un po’ per le stranezze del luogo e anche un po’ per l’abbondanza. La stranezza: una tavola lunga e stretta sulla macera lunga e stretta; sotto di noi la scalinata gigante delle macere giù giù fino alla valle di Fondi; intorno a noi la montagna e sopra di noi il cielo azzurro illuminato dal sole di settembre, dolce e caldo.
Ma se questo era (ed è) l’effetto delle rudi pietre messe a macera, figuriamoci quello delle pietre più o meno lavorate. Per farne case e, prima ancora, armi ed utensili: dalle primitive amigdali ai mortai, o pista-sale che dir si voglia.
La pietra per farne opere di difesa.
La pietra per farne templi e monumenti.
La pietra per scriverci epitaffi o tramandare memorie.
La pietra per farne statue ad esaltazione di divinità, santi ed eroi.
La pietra per farne strade. Per farne miliari.
La pietra per farne pregevoli pavimenti.
La pietra per farne portali.
La civiltà della pietra, insomma. Una civiltà per molti aspetti purtroppo a noi estranea, soffocati come siamo da quella della plastica: meno pesante; più leggera. Del resto, come la civiltà del nostro tempo.
Nessuno ricorderà mai un modellatore di plastica nell’anonima generalità della produzione in serie pretesa dal consumismo contemporaneo.
Ma un modellatore di pietre, come dimenticarlo?
Già il suo nome — lo scalpellino — è un complemento di gentilezza che va ad integrarsi naturalmente con la rudezza della materia da trattare e da cui, in ultimo, vien fuori l’opera.
Perché ogni pietra, sia pure appena smussata, è un’opera, un’opera d’arte in quanto frutto del lavoro di un uomo, di un artigiano.
Oggi che predominano le colate di cemento, anche se è appena dell’altro ieri, il ricordo di un muratore che “squadra” la pietra prima di murarla evoca situazioni che appaiono già lontane anni luce. Anni in cui, pur essendo la pietra elemento predominante, anche se in relazione alle necessità dei tempi, la sua sottrazione dall’ambiente non provocò quelle riprovevoli ferite che oggi, purtroppo, si aprono vistosamente sulle pendici di alcuni dei nostri monti e di alcune nostre colline. Ma questo è un altro discorso.
Guardiamoci attorno, dall’alto dei nostri colli: noi vediamo montagne di pietra che l’uomo ha trasformato in città come Anagni, Ferentino, Alatri, Veroli, Arpino e via di seguito tutte le altre, modellate nel lungo arco di tempo di civiltà diverse e nell’ampio spazio che si apre tra gli Ernici e i Lepini, gli Ausoni e gli Aurunci sino alle Mainarde.
Montagne di pietra della cui sottrazione dai siti originari non ci è dato vedere per quanto le loro cicatrici il tempo abbia potuto cancellarle del tutto.
Montagne di pietra “plasmate” dalle mani di generazioni di uomini che dovendo pur fare qualcosa per sopravvivere scelsero di affrontare la pietra dei loro monti, l’unica cosa, del resto, di cui il territorio era ricco in generosa abbondanza, e darle una forma, un senso.
Il senso, appunto, delle nostre antiche città e dei nostri borghi, dei nostri templi e dei nostri portali. E di altro ancora.
Gli scalpellini. C’è un paese della Valle di Comino, San Donato, che ne va giustamente orgoglioso.
Alcuni di essi, molto prima ancora che si esaurisse il XIX secolo, erano già impegnati oltre Atlantico, addirittura organizzati in sindacato: un ramo di generazioni artigiane che ha segnato nel tempo testimonianze destinate a durare nell’eternità — ci auguriamo, almeno — come, ad esempio, le mura della ricostruita abbazia di Montecassino o del non lontano cimitero ai caduti polacchi, dove schiere di scalpellini sandonatesi lavorarono per anni e anni.
Ma non fu un’espressione artigiana esclusiva della sola San Donato, deve ritenersi, se quasi tutti i centri dell’attuale provincia di Frosinone sono più o meno “segnati”, laddove le calamità belliche o quelle contemporanee non hanno prodotto danni irreparabili, da tracce di quest’arte che certamente fu ed è nobile ma che il vento del progresso e la civiltà della plastica hanno tentato di annientare.
Eravamo una provincia agricola e ci hanno fatto credere di essere diventati una provincia industriale: l’impellente necessità di una nuova vita ha mandato in soffitta il vecchio ma il nuovo molto spesso si è rivelato un inganno. Un inganno del quale ognuno può rendersi personalmente conto, ad esempio transitando sull’autostrada, ai cui bordi vi sono sempre più fabbriche chiuse che aperte. Ettari ed ettari di buon terreno che le generose elargizioni della Cassa per il Mezzogiorno, la spavalda spregiudicatezza di sedicenti imprenditori (del Nord, soprattutto) che altro non erano che avventurieri senza scrupoli e la complicità di una classe politica quanto meno inetta sottrassero ad una agricoltura che avrebbe potuto essere fiorente se gestita con raziocinio per destinarla a quell’industria che ha poi fatto la fine che ha fatto.
Uno sfacelo dal quale, strano a dirsi, fra le poche cose che si sono salvate deve ancora una volta annoverarsi la vecchia, cara pietra. E stavolta il suo “aiuto” non si è fermato nell’ambito del territorio, così come per millenni era accaduto, ma ha addirittura portato il nome del territorio per il mondo. Infatti, dire oggi “perlato Royal”, ovvero “perlato Coreno”, inevitabilmente si finisce col collegare questo nome a quelle alture senza soluzione di continuità che da Ausonia e da Coreno Ausonio si allungano sin verso Ventosa, Castelforte, SS. Cosma e Damiano e giù di lì. Certo, lo spettacolo che si presenta a chi da Formia è diretto a Cassino attraverso la valle ausentina non è dei più edificanti (qualcuno lo ha generosamente definito “paesaggio lunare”). Ma se poi pensi che quelle pietre hanno risolto più di un problema, divenendo un prodotto addirittura d’esportazione, allora puoi anche sopportare quel “paesaggio lunare” che, almeno, ha avuto un ritorno in termini economici, visto che sei costretto a sopportarne altri (le fabbriche chiuse) che ti sono costate un occhio della testa e hanno illuso centinaia di persone senza rendere più di tanto alla collettività.
E, allora, un omaggio alla pietra, alle nostre pietre, era quanto meno doveroso. Un altro omaggio, visto che è ormai diffuso il recupero degli antichi centri storici dei nostri paesi, dove ovviamente le pietre predominano in varie forme (anche se talvolta “vittime” dell’alluminio anodizzato), dovrebbe essere quello della salvaguardia delle vecchie macere, alcune delle quali, nonostante tutto, si conservano ancora in buono stato.
Lo meritano perché quei piccoli fazzoletti di terra che esse delimitavano sulle scoscese pendici dei nostri monti consentirono ad intere generazioni di sopravvivere. E, a noi stessi, di esserci.
© Costantino Jadecola, 1998.
One Reply to “LA CIVILTA’ DELLA PIETRA”
Sono perfettamente d’accordo.
Amo il calore che emana dalle vecchie pietre ed amo tutto quello che sanno raccontarci.