LI CHIAMAVANO BRIGANTI / SEQUESTRO PLURIMO A STRANGOLAGALLI
Strangolagalli in una immagine d’epoca
Nella notte fra il 30 ed il 31 agosto del 1866 una ventina di briganti «si presentava nel villaggio di Strangolagalli» con lo scopo di sequestrare alcuni proprietari di quel comune i quali, una volta presi, vennero «tradotti» alla montagna denominata Monticelli. Le sfortunate vittime erano i fratelli Giuseppe ed Agostino Lisi, Domenico Valerj, Vincenzo Sementilli ed Arduino Carlacci insieme al quale veniva anche rapito il suo garzone Luigi Silvestri che, nelle intenzioni dei rapitori, avrebbe dovuto fare da tramite con le famiglie degli ostaggi. Infatti, intorno alle ore 21 del giorno seguente Luigi viene rilasciato con l’«ingiunzione» di recarsi alle famiglie dei ricattati, informarle dell’accaduto ed «insinuare» il riscatto, «se bramavano rivedere li rispettivi parenti», con invio di «danaro, generi, ed oggetti.»
Arrivato a Strangolagalli «sull’un’ora di notte» Silvestri racconta l’accaduto e partecipa «l’ingiunzione» agli interessati i quali, per forza di cose, sono costretti ad aderire alle richieste dei briganti. Dopo di che, ad eccezione di Vincenzo Sementilli, che riuscì ad evadere dalle mani dei sequestratori il 2 ottobre profittando del fatto che «quelli che vegliavano alla di lui custodia si erano addormentati», tutti i sequestrati vengono «interpolatamente rilasciati», ultimo dei quali fu Arduino Carlacci, che riacquistò la libertà dopo 57 giorni.
È facile supporre le condizioni in cui gli ostaggi vivono i giorni della forzata prigionia nelle mani dei briganti. Ma questo, tutto sommato, è il meno se appena si considerano le «gravi sevizie [che] vennero pratticate ai sunnominati, e taluno ancora soffrì mutilazioni di membra.» Insomma, «barbari mezzi» grazie ai quali i malviventi «estorsero di fatto non tenui somme di danaro, di generi ed anche oggetti di vestiario.» Non a caso, il titolo del procedimento aperto per il caso parla di «correità in brigantaggio in conventicola armata con estorzione di danaro mediante ricatti (…) e con offese personali», la cui natura, si precisa, viene chiarita «dalle chirurgiche relazioni».
Dai documenti conservati presso l’Archivio di Stato di Frosinone (Delegazione Apostolica — Affari generali, militari, polizia.B. 72. F. 95) si apprende, così, che Agostino Lisi subisce la «recisione (…) del padiglione dell’orecchio sinistro e la mutilazione del padiglione dell’orecchio destro per circa sette centimetri, non che la mutilazione dell’apice della lingua per la lunghezza di circa tre centimetri.» Domenico Va1erj è vittima della mutilazione «del padiglione dell’orecchio destro per la lunghezza di dieci centimetri» e di quella «del padiglione dell’orecchio sinistro per la lunghezza di centimetri sei»; inoltre, viene «trovato affetto nel dorso da sette contusioni della grandezza di un franco.» Luigi Carlacci, infine, presenta «forte contusione con relativa suppurazione sulli muscoli glutei sinistri ed altra simile suppurazione sulla piegatura del braccio sinistro per torti contusioni.» Ma non solo. Lo stesso, infatti, venne «trovato affetto da due fisiche organiche asportazioni, cioè la prima lunga circa un pollice nella parte posteriore e superiore del padiglione dell’orecchio destro e la seconda dall’alto al basso nella parte posteriore e superiore dell’altro padiglione dell’orecchio esterno sinistro.» La relazione chiarisce poi che «tutte le sudette recisioni, ed asportazioni vennero giudicate prodotte da strumento incidente.»
Che ai ricattati venissero «praticate» sevizie, mutilazioni di membra e percosse con contusioni, oltre dall’essere esposto dagli stessi «dolenti» Luigi Silvestri, Vincenzo Sementilli, Giuseppe Lisi, Agostino Lisi, Domenico Valere, Arduino Carlacci, viene ammesso anche dai testimonj Giuseppe e Michele Sementilli e Stefano Mollica i quali, nei loro «accessi» alla montagna per recare denaro ed altro ai briganti, furono anche presenti alle sevizie praticate.
Intanto, dalle indagini espletate, si risale ai responsabili che vengono individuati nei componenti la banda di Luigi Cima, «alias» Luigiotto da Fondi, il quale sarebbe stato condannato alla pena capitale il 4 gennaio 1867 e sarebbe stato poi ucciso sotto Pisterzo il 12 agosto successivo. La sua banda era solita girovagare «per le Montagne di S. Lorenzo (l’odierna Amaseno, ndr), Castro [dei Volsci], [Villa] S. Stefano, e Monticelli (l’odierna Monte San Biagio, ndr) commettendo più delitti, fra li quali», appunto, «li ricatti avvenuti in Strangolagalli.»
A compiere questi, oltre a Luigiotto, sarebbero stati Vincenzo Giorlante, «detto Vincenzino il siciliano», Augusto Panici di San Lorenzo, «Giorgio detto il Calabrese», «Antonio detto Pulcinella da Sora», «Giuseppe detto Fontanese da Fontana in Regno», «Luigi detto Cannone e Ganassa di Lupo di Castro» ed «Angelo Antonio detto Maltempo», i quali sono tutti contumaci; al contrario, risultano «presentatisi» Alessandro Foschi «del fu Michele detto Tromba di anni 22 ex Militare, nato e domiciliato in S. Lorenzo», Giovanni D’Ambrosi «del vivo Domenico, detto Sbirotto, di anni 22, bracciante di Castro», Ferdinando Migliori di Giuseppe «detto Caparvante di anni 19 Pastore celibe di Castro», Domenico Matassa di Cesare «di anni 19 celibe campagnolo di Castro», Francesco Marzella del fu Raimondo «detto Secondino, di anni 22 celibe Campagnolo di Castro», Pietro Sciacquitto «riconosciuto per Pietro Rinna. di Castro», Paolo Turco «del Regno Napoletano», Fabriano Lungarini di Monticelli e Luigi Perfili di Castro.
Oltre costoro vengono poi chiamati in causa i fratelli Tommaso e Arduino Mollica di Ripi i quali vengono arrestati l’11 settembre 1866 con la medesima imputazione degli altri ad eccezione delle «offese personali» e che, come si vedrà, avranno un ruolo molto importante nella intera vicenda. Figli di «Gio.: Domenico» ed entrambi «campagnoli», abitavano «alla casa paterna in Contrada Carpini, benché divisi di stanze»: il primo ha 40 anni ed è «coniugato con prole»; il secondo ha 24 anni ed è celibe.
Ma com’è che si è arrivati a queste conclusioni? Al di là delle deposizioni dei sequestrati e dei loro familiari, a dare una decisiva svolta all’indagini è uno dei briganti che ha partecipato al rapimento il quale decide di parlare e si presenta perciò spontaneamente alle autorità.
Si tratta di Alessandro Foschi di San Lorenzo detto «Tromba» il quale si dichiara pronto a raccontare per filo e per segno non solo su come erano andate le cose ma anche «per opera di chi» il tutto era accaduto. In cambio, implorava «solo una graziosa considerazione» per i reati da lui commessi.
Non soggetto «ad alcun precedente addebito», come risulterebbe dal «Certificato Criminale», della partecipazione di Tromba al sequestro si ha conferma «dall’esame di Catarina Valerj» la quale dichiara che «il primo brigante presentatosi in sua casa nella sera del ricatto del di lei marito fu uno che in seguito venne dai suoi compagni chiamato col nome di Tromba, nome che esso prevenuto aveva in banda»; dal canto suo, «il dolente Lisi assicura che fra li briganti quali procederono al di lui ricatto vi era un tale che veniva nominato in banda col soprannome di Tromba disertore quale diceva essere di S. Lorenzo». «Evvi inoltre la legale ricognizione fatta da Domenico Valerj, e Vincenzo Sementilli: essi fra consimili riconobbero E[sso] I[mputato] (cioè Tromba) per uno di quelli che commisero li ricatti in Strangolagalli la notte del 30 Agosto 1866.» Della disponibilità del pentito Foschi viene subito informato «Sua Eccellenza Rev.ma Monsignore Ministro dell’Interno, ed il medesimo con ossequiato dispaccio del 13 Marzo 1867 Num. 627 partecipava che il Santo Padre si era degnato ammettere il richiedente al beneficio d’impunità; e quando risultassero veri ed utili li suoi riveli. ed adempito le condizioni volute dalla Legge accordava la liberazione di esso dal Carcere, coll’obbligo però dell’esilio dallo Stato Pontificio, o di farsi guida della Forza pubblica per un qualche tempo nell’insecuzione, ed arresto dei briganti.»
Alessandro Foschi non poteva non ritenersi soddisfatto da tali assicurazioni e, come promesso, incomincia a riferire i particolari del sequestro coinvolgendo i fratelli Mollica, i quali, riferì, nel proporre l’affare a Luigiotto, «l’assicurarono essere tutti gli indicati benestanti», cosicché dall’operazione si sarebbero potuti tranquillamente ricavare almeno 26.000 scudi. E Luigiotto, di rimando, rispose loro: «Badate bene che sia così, poiché se non possono cavare quanto dite, verrò io colla banda a distruggervi tutti.» Minaccia, precisa Foschi, «che venne dai Mollica accettata.»
Come si era stabilito, puntuale, «la banda scese sull’Ave Maria del terzo giorno al passo del Fiume Sacco sotto Castro detto Rio-Sacco, ove rinvenne li due fratelli Mollica» che, naturalmente, nella fase del sequestro non se ne stettero con le mani in mano. Arduino fu impegnato «coll’andare a spiare se si vedesse la Forza, conoscere li di lei movimenti, provvedere, e portare da mangiare; Tommaso poi andava fra il territorio di Ripi, e Strangolagalli, esplorando ove erano, cosa facevano, e quando sarebbero tornati alle loro abitazioni coloro che erano destinati ad essere ricattati». Arrivato il momento di agire, la comitiva muove dal quel luogo per dirigersi a Strangolagalli con i fratelli Mollica, «armati anche essi dei loro schioppi», i quali, dopo aver espletato la funzione di guide, si accompagnarono ai briganti «in tutti i luoghi costantemente dove furono fatti li ricatti» per poi seguirli «fino alla Montagna S. Croce sopra Castro da dove tornarono indietro».
Tutto quanto esposto dal Foschi trova puntuale conferma dalle dichiarazioni di altri briganti. Inoltre, sul ruolo dei fratelli Mollica «un coro di testimonj ne depone per voce publica» indicando entrambi come «persone oziose, vagabonde, e presso che miserabili (…) dallo stato indigente congiunto a pessima morale» le quali avevano «sempre favorito li briganti» e che erano «di loro aderenti di pessime qualità».
Il loro ruolo e la loro presenza nei ricatti di Strangolagalli non sfugge, peraltro, ai «ricattati Domenico Valerj, ed Agostino Lisi per la loro statura attesa la prattica che ne avevano, e pel chiarore della luna, benché ambedue andassero colle cappotte e portassero l’archibugio.» «Che fossero con le cappotte, ed armati di archibugio oltre all’esporlo l’impunitario Foschi, l’ammettono anche li sunnominati Toppetta, Matassa, e Marzella. Li testimonj Luigi Gesualdj, Francesco Iozzi e Luigi Graziani includono che gli Imputati andavano per lo più armati di Arcbibugio girando per le campagne»
Che essi beneficiassero poi «di una parte della somma sborsata dalle famiglie dei ricattati per avere proposto al Capo Luigi Cima li ricatti da farsi, e per essere stati le guide della banda nei ricatti medesimi» oltre ad essere ricordato dallo stesso Foschi, viene anche ammesso dai «pentiti» Flaviano Toppetta, Ferdinando Migliori, Domenico Matassa, Francesco Marzella e «viene esposto per voce pubblica dai testimonj Gesualdj, e Iozzi» Quando l’11 settembre 1866 Tommaso e Arduino vengono arrestati, in casa vengono trovati due fucili dei quali i fratelli Mollica ammettono il possesso, «narrando in ulteriori costituti che erano soliti portare l’archibugio lorché andavano in campagna».
Ma circa «i ricatti» operati a Strangolagalli, cosa hanno da dire?
Tommaso, dopo aver ammesso di essere stato già altre volte carcerato, di quanto avvenuto in Strangolagalli ne aveva solo «inteso pubblicamente dire»; conosceva «li ricattati per amici», ma «a decampare da ogni responsabilità», dichiarava che nella notte in cui essi venivano commessi egli si trovava nella propria abitazione. Arduino, dal canto suo, negava di «avere giammai visto, ed essersi incontrato con li briganti», ammetteva «di avere inteso pubblicamente dire il delitto avvenuto in Strangolagalli» e «di conoscere li ricattati per amici.» Ma essendo soggetto «a precetto politico di controra», nella notte dagli avvenuti delitti aveva dormito da solo nella sua casa di contrada Pozzilli «dalla quale mai si assentò».
Insomma, nonostante le evidenze, i due fratelli declinano ogni addebito.
© Costantino Jadecola, 2004.